Quaranta passi da “I promessi sposi”/40

Gli altri finali, necessariamente al plurale

(dal capitolo XXXVIII)

“Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. – Ho imparato, – diceva, – a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere –. E cent’altre cose.

Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, – e io, – disse un giorno al suo moralista, – cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, – aggiunse, soavemente sorridendo, – che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.”

1. La modifica del titolo originario del romanzo ha messo al centro dell’attenzione il principale nodo narrativo (il matrimonio già organizzato) e ha dato al protagonista un nome più confacente alla sua vicenda movimentata, però ha distolto l’attenzione dal fatto che la storia è quella di due personaggi che, per quanto impegnatissimi a realizzare la loro unione, hanno anche attitudini e pensieri propri. Manzoni lo sa bene, ce lo ha raccontato in tutto il romanzo, ha fatto dipendere lo scioglimento del voto dalla consapevolezza che non si decide per l’altro o per l’altra, anche se è la persona che più amiamo al mondo; coerentemente, c’è un finale di Renzo, e c’è un finale di Lucia, e non si tratta dello stesso finale: è un tratto di quella dimensione romanzesca che, da Bachtin in poi, chiamiamo polifonia.

Renzo e Lucia sono una coppia, ma restano due persone. Un secolo e mezzo dopo “I promessi sposi”, un autore lontanissimo dai riferimenti di Manzoni sulle cose ultime, e pure su tante altre, ce lo ha raccontato bene, descrivendo l’amplesso tra i due protagonisti (a metà del romanzo, e non è un anticlimax, perché la natura intima della loro unione se la dovranno conquistare ancora) in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”:

“In entrambe le situazioni certamente non esistete che in funzione l’uno dell’altro, ma, per renderle possibili, i vostri rispettivi io devono anziché annullarsi occupare senza residui tutto il vuoto dello spazio mentale, investirsi di sé col massimo d’interessi o spendersi fino all’ultimo centesimo. Insomma, quello che fate è molto bello ma
grammaticalmente non cambia nulla. Nel momento in cui più apparite come un voi unitario, siete due tu separati e conchiusi più di prima.”

(L’unione intima conquistata sarà: nel letto matrimoniale, leggere ognuno il proprio libro.)

Insomma, siete sempre due, niente androgini platonici che riconquistano l’unità originaria: siete Renzo e Lucia, Ludmilla e il Lettore, e chi volete.

2. Il finale di Renzo: l’eroe, che ha inseguito la giustizia, ha verificato che non basta volerla, o cercarla, perché le cose degli uomini non se ne fanno facilmente regolare; le faccende mondane richiedono una certa accortezza, ed in effetti la grande lezione che il protagonista apprende è fatta di cautele; essa sa, e il tono amaro si avverte, di accomodamento (Raimondi, non a caso, ne “Il romanzo senza idillio” intitola il magnifico capitolo su Renzo “La ricerca incompiuta”).

3. E infatti, a Lucia non basta. Il suo finale, non a caso, viene dopo quello di Renzo, con l’effetto di un crescendo: sorridendo soavemente in direzione del marito, dopo che questi ha espresso la sua non del tutto soddisfacente -perché non soddisfacente è tutto il presupposto di Renzo, la giustizia al mondo- intuizione sulle vicende occorse (sa un po’ della Beatrice dantesca, certo, la movenza è quella; mica si chiama Lucia per niente, lei), dice una cosa antichissima, mai del tutto chiara, forse per la sua eccessiva evidenza (“Il resto è per i pazzi”, si potrebbe chiosare, citando Patrizia Cavalli), nelle avventure umane, e cioè che ci cacciamo nei casini per una sola, validissima ragione. L’amore.

4. Inizia la settimana di Pasqua, finiscono i quaranta giorni quaresimali, si conclude questo “fioretto” quotidiano, fatto di passi di un libro che ad ogni lettura si rinnova, e di modeste riflessioni personali. C’è una cosa che mi piace raccontare, ancora: questa, che segue.

La mattina, andando al lavoro, io attraverso il cortile della Fiera Vecchia di Pordenone, incrociando studenti che vanno verso altre scuole del Centro Studi, In questo periodo, in particolare ce n’erano due -un lui e una lei, sui sedici/diciassette- che un mese fa pareva si affiancassero per caso, poi hanno cominciato a fermarsi un po’, quando si incontravano, poi hanno preso a parlare fitto e a camminare piano; qualche mattina i toni della voce erano più alti e irritati; in queste ultime giornate, con la primavera che si fa sentire, mi passano accanto tenendosi per mano.

Non sono una persona di grande originalità: tra me e me li ho chiamati, in tutti questi giorni, Renzo e Lucia. Non l’ho fatto apposta.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/37

(dal Capitolo XXXVI)

“– Figliuola, dunque; cos’è codesto voto che m’ha detto Renzo?

– È un voto che ho fatto alla Madonna… oh! in una gran tribolazione!… di non maritarmi.

– Poverina! Ma avete pensato allora, ch’eravate legata da una promessa?

– Trattandosi del Signore e della Madonna!… non ci ho pensato.

– Il Signore, figliuola, gradisce i sagrifizi, l’offerte, quando le facciamo del nostro. È il cuore che vuole, è la volontà: ma voi non potevate offrirgli la volontà d’un altro, al quale v’eravate già obbligata.

– Ho fatto male?

– No, poverina, non pensate a questo: io credo anzi che la Vergine santa avrà gradita l’intenzione del vostro cuore afflitto, e l’avrà offerta a Dio per voi. Ma ditemi; non vi siete mai consigliata con nessuno su questa cosa?

– Io non pensavo che fosse male, da dovermene confessare: e quel poco bene che si può fare, si sa che non bisogna raccontarlo.

– Non avete nessun altro motivo che vi trattenga dal mantener la promessa che avete fatta a Renzo?

– In quanto a questo… per me… che motivo…? Non potrei proprio dire… – rispose Lucia, con un’esitazione che indicava tutt’altro che un’incertezza del pensiero; e il suo viso ancora scolorito dalla malattia, fiorì tutt’a un tratto del più vivo rossore.

– Credete voi, – riprese il vecchio, abbassando gli occhi, – che Dio ha data alla sua Chiesa l’autorità di rimettere e di ritenere, secondo che torni in maggior bene, i debiti e gli obblighi che gli uomini possono aver contratti con Lui?

– Sì, che lo credo.

– Ora sappiate che noi, deputati alla cura dell’anime in questo luogo, abbiamo, per tutti quelli che ricorrono a noi, le più ampie facoltà della Chiesa; e che per conseguenza, io posso, quando voi lo chiediate, sciogliervi dall’obbligo, qualunque sia, che possiate aver contratto a cagion di codesto voto.

– Ma non è peccato tornare indietro, pentirsi d’una promessa fatta alla Madonna? Io allora l’ho fatta proprio di cuore… – disse Lucia, violentemente agitata dall’assalto d’una tale inaspettata, bisogna pur dire speranza, e dall’insorgere opposto d’un terrore fortificato da tutti i pensieri che, da tanto tempo, eran la principale occupazione dell’animo suo.

– Peccato, figliuola? – disse il padre: – peccato il ricorrere alla Chiesa, e chiedere al suo ministro che faccia uso dell’autorità che ha ricevuto da essa, e che essa ha ricevuta da Dio? Io ho veduto in che maniera voi due siete stati condotti ad unirvi; e, certo, se mai m’è parso che due fossero uniti da Dio, voi altri eravate quelli: ora non vedo perché Dio v’abbia a voler separati. E lo benedico che m’abbia dato, indegno come sono, il potere di parlare in suo nome, e di rendervi la vostra parola. E se voi mi chiedete ch’io vi dichiari sciolta da codesto voto, io non esiterò a farlo; e desidero anzi che me lo chiediate.

– Allora…! allora…! lo chiedo; – disse Lucia, con un volto non turbato più che di pudore.”

Il motivo fondamentale per cui fra Cristoforo scioglie Lucia dal voto è che lei ha scelto anche per un altro (Renzo), a cui si era obbligata: ma non si può disporre della volontà di un altro. In questo passaggio sta tutta un’idea della libertà, che è basata sul rispetto della volontà propria e altrui; cosa tanto importante, che non fanno conto decisivo i buoni motivi che hanno spinto Lucia.

C’è uno spazio, lo spazio dell’altro, del quale non disponiamo,e saperlo ci fa capire -e apprezzare- qualcosa di più di noi stessi, e dell’altro, di quello spazio che è fatto di libertà e precarietà. Del resto, come aggiungerà più avanti il cappuccino, da essere umani (e ciò vale non solo per gli innamorati), si è compagni di viaggio, col pensiero che può capitare prima o poi di lasciarsi, con la speranza di potersi ritorovare per sempre.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/24

(dal Capitolo XXIII)

“Io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…!”

La frase è, in qualche modo, l’architrave della trama del romanzo, perché se l’Innominato avesse altro parere, tutto andrebbe diversamente. È una frase dal netto sapore biblico: si riconosce il richiamo al Salmo 50, l’ammissione della propria iniquità di fronte a Dio, invocato perché si venga liberati.

Il percorso verso Dio dell’Innominato è segnato dalle questioni della giustizia e della colpa; di fondo, resta un non detto, essenziale: cosa lo abbia mosso, di dove nasca il convincimento sulla realtà del Dio, cui si rivolge.

Manzoni non ci dà risposte, sa di non poterle dare, questo è il segreto più segreto che sta dentro ciascuno; ci resta, solo (solo?), una ragazza che tocca il cuore delle persone, e che si chiama Lucia.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/22

(dal capitolo XXI)

“Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immaginava di condurla lui stesso alla madre. “E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!” E ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d’abbandonare il castello, e d’andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l’animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a’ suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne’ suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s’era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro.”

Il capitolo XXI segue Lucia e l’Innominato, nel loro incontro e poi, ciascuno, alle prese con una notte di pensieri e decisioni. Il momento decisivo, per Lucia, è il voto di rinunciare al matrimonio, inteso esplicitamente come sacrificio -e su tale questione, sarà fra Cristoforo a tornare-; dopo di che, lei si addormenta; l’Innominato, invece, ondeggia tra sentimenti contrastanti fino all’alba, quando (Manzoni sottolinea la sincronia) Lucia prende sonno. Dentro se stesso, il signorotto trova tante e contrastanti disposizioni, cui le parole di Lucia, sul perdono di Dio per un atto di misericordia, non danno riposo. Le campane che suonano dalla pianura introducono la novità che accompagna il tratto in cui l’Innominato metterà meglio a fuoco, fino a dove ciò sia possibile, le proprie motivazioni.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/21

(dal capitolo XX)

“Lucia tentò un’altra volta di buttarsi d’improvviso allo sportello; ma vedendo ch’era inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa, con le gote irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani giunte dinanzi alle labbra, – oh – diceva: – per l’amor di Dio, e della Vergine santissima, lasciatemi andare! Cosa v’ho fatto di male io? Sono una povera creatura che non v’ha fatto niente. Quello che m’avete fatto voi, ve lo perdono di cuore; e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato. Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia. Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar la mia strada.

– Non possiamo.

– Non potete? Oh Signore! perché non potete? Dove volete condurmi? Perché? …

– Non possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state quieta, e nessuno vi toccherà.”

Renzo, come lo abbiamo visto, è l’uomo dell’azione, mosso dalla curiosità: il prezzo della curiosità, dice la letteratura dai tempi di Apuleio, è la perdita della casa, della patria e dell’identità, perché conoscere è conoscersi e conoscersi è ridefinirsi. Del resto, il suo nome è chiaro: Renzo, da Lorenzo, derivato di laurus, l’alloro, premio del vincitore, e Tramaglino, con “trama” fin dall’inizio del cognome: che si cacci nei guai, o li produca, ce l’ha dall’inizio.

E poi c’è Lucia, che appunto si chiama così perché porta la luce, e di cognome fa Mondella, che viene da monda, quindi limpida, pulita. Lucia non trama, anzi si sottrae alle brighe: è, come la luce, pura presenza, ma tanto basta per lasciare un segno in chi le sta accanto. Ma che segno è, di dove viene? Sarà l’Innominato a dare, se non una risposta, un’indicazione.