UNO
Dieci anni fa, ho curato per la rivista pordenonese L’ippogrifo una monografia, intitolata “Scrivere la città. Storia di autori, lettori, librai, editori”.
Pordenone era diventata, nel corso di alcuni anni, un luogo letterario: terra di scrittori, nativi o adottivi che fossero; di librerie originali; di iniziative editoriali; di un festival letterario, sullo sfondo di una veloce transizione economica, sociale e culturale. Come punto di partenza, avevo scelto il 1993, l’anno di pubblicazione, per Theoria, di Storia di pazzi e di normali, di Mauro Covacich (poi ristampato da Laterza).
Sono passati, come dicevo, dieci anni. La città che fu detta bambina è cambiata, da allora si sono succedute due diverse amministrazioni comunali; la crisi economica di inizio decennio si è fatta sentire. Le case editrici e le librerie ci sono ancora, la crisi l’hanno affrontata e hanno cercato le loro soluzioni; il festival letterario scandisce il calendario annuale della città, si è dato una stabilità diventando Fondazione.
E gli autori hanno continuato a scrivere: quelli di cui parlavo allora, qualcun altro, che allora si stava facendo conoscere. Hanno scritto avendo Pordenone in qualche loro riferimento, oppure no; restando a Pordenone, oppure andandosene. A Mauro Covacich, Alberto Garlini, Tullio Avoledo, Federica Manzon, Simone Marcuzzi, Roberto Cescon, Giulia Blasi, Enrico Galiano, Mary Barbara Tolusso, Massimiliano Santarossa, Andrea Maggi, si sono aggiunti, almeno, Lorenza Stroppa e Gianni Zanolin (e presto Odette Copat). Ci sarebbe molto da dire: la pratica del romanzo giallo, tra i prosatori, per esempio, in un percorso che arriva fino alle ultime distopie a sfondo giallo e noir di Tullio Avoledo, che guardano al futuro inscritto dentro il nostro presente.
DUE
No, non l’ho dimenticato.
Il fatto è che il libro di cui volevo parlare è suo, e leggendolo, in questi giorni, ho pensato spesso che il modo con cui io lo leggo si inscrive dentro la storia che ho appena ricordato, della quale lui è protagonista fondamentale.
Lui è, ovviamente, Gian Mario Villalta: direttore di Pordenonelegge.it, insegnante, poeta e prosatore; il libro è L’apprendista, è appena stato pubblicato dalla SEM, è già nella dozzina dei possibili finalisti del Premio Strega.
In questi dieci anni, Villalta ha continuato a seguire la trasformazione che la modernità ipercomplessa ha imposto all’esperienza umana, fin dalla stessa possibilità di definire cosa sia l’esperienza individuale. Le sue raccolte poetiche danno parola a questa disposizione, per lavoro sulla lingua, sui punti di vista percettivi e sugli effetti stranianti, che mettono, montalianamente, di fronte a inaspettate consapevolezze. Villalta stesso si esprime così, su questo punto, in un’intervista al sito internopoesia:
“che cosa fa l’uomo quando istruisce attraverso l’esercizio e l’esperienza se stesso a delle forme del fare (arte) che incidono sul duo agire (morale) e lo modificano?
Ho incontrato molto presto nella poesia questo punto di cecità dove il saper fare finisce e deve iniziare il modo di essere e dove il modo di essere nutre il saper fare. Un punto di cecità dove convergono molte forme del sapere, molte modalità del sentire e molti momenti dell’esperienza.”
In questo senso, rimando almeno alle due ultime raccolte, Telepatia (Fondazione Pordenonelegge.it, 2016) e Il scappamorte (Amos, 2019), ma anche, a questo testo rivelativo, che è in Vanità della mente (Mondadori, 2011); raccolta con la quale Villalta ottenne il Premio Viareggio:
“Quello che sento diventare è sapore
e distanza che si piega nella mente.
Il tiglio è adesso tiglio veramente,
ogni goccia di pioggia nel suo nitore
è pioggia e goccia infinitamente.”
Si sta dentro precise coordinate di tempo e di spazio; la lingua serve per dare forma a questo stare -una forma che è, inevitabilmente, anche distanza-, sicché l’esperienza individuale assume qualcosa di più generale.
Col passo della narrazione, Villalta ha guardato questa modernità in trasformazione partendo quasi in ogni occasione dal punto di vista di personaggi legati a un territorio corrispondente alla bassa pordenonese. Se la trasformazione passa dappertutto, passa anche di qui, e per raccontare la trasformazione serve un punto di vista; il più praticabile è quello che ha a che fare con la lingua da cui proveniamo, con l’immaginario di cui siamo fatti. Un punto di vista -proprio nel senso del punto a partire dal quale guardare: ecco, credo, uno dei motivi fondamentali della scelta d’ambientazione. Essa vale nei romanzi che raccontano la trasformazione del lavoro culturale (Satyricon 2.0, Mondadori, 2014) e di quello educativo (Scuola di felicità, Mondadori, 2016) e torna, con più esplicita attenzione al passaggio dal mondo contadino a quello dell’ipermodernità, in Alla fine di un’infanzia felice (Mondadori, 2013) e in Bestia da latte (SEM, 2018). In quest’ultimo testo, la storia, narrata in prima persona, del protagonista, che fa i conti con il mondo da cui proviene, è così tratteggiata dall’autore stesso:
“Da sempre mi ritrovo a passare per lo stesso incrocio, che riguarda la fine della civiltà contadina e l’avvento della modernità industriale nei luoghi dove questo evento ha determinato una breve e tremenda rivoluzione, ha sconvolto ogni tradizione e, per quanto mi concerne, ha inciso in modo definitivo su di me, segnando il passaggio dall’infanzia all’adolescenza.”
TRE
Il protagonista di Bestia da latte è un adulto, impegnato nel suo lavoro, nei traffici della vita. Dentro lo stesso perimetro geografico della bassa tra Pordenone e il Veneto, lo sguardo de L’apprendista si fissa invece su due protagonisti più avanti negli anni. Fredi e Tilio, così si chiamano, osservano le cose del mondo a partire da un punto di osservazione che appare marginale, rispetto al mondo così com’è, tanto quanto loro: una chiesa di paese, della quale il primo è sagrestano, il secondo aiuto o, appunto, apprendista.
Entriamo nel microcosmo di Fredi e Tilio con un accostamento graduale, agli spazi ed al clima, che è quello, rigido, di una chiesa poco frequentata e mal riscaldata per ragioni di economia. Entriamo, per così dire, nella dimensione fisica dei due protagonisti, nel loro stare al mondo con gli acciacchi, le fatiche, il freddo da cui ripararsi, anche se la storia si avvia di maggio, ma è un maggio gramo, di pioggia battente: è il maggio 2019, lo riconosciamo. Solo dopo esserci adeguati al passo e al respiro di Fredi e Tilio, cominciamo a conoscerli, ed entriamo nella nostra storia: non si entra in una storia senza riguardo per chi ci ospita.
Dice Fredi, ad un certo punto del romanzo, verso la conclusione:
“C’è chi torna sempre a casa e chi scappa sempre via. Io sono scappato. Però la casa è sempre quella. Nessuno se ne libera.”
Fredi è il più anziano, ha più o meno ottantacinque, ed è quello che è scappato e che ha scoperto di non potersi liberare di casa. Casa è la propria famiglia, la propria origine: un padre ufficiale dell’esercito, reduce di guerra, che instrada Fredi verso la sua stessa carriera, fino a che il figlio, trentenne, scopre la sua vera storia, che è in realtà quella di un traditore; un doppio traditore, per la precisione. Tradito dal padre, Fredi tradisce tutto quello che è stato fino ad allora, rinunciando alla vita militare, al matrimonio imminente, finendo per passare molti anni in Giappone. Fredi è tornato al paese con la morte del padre, ed è rimasto, e ha trovato un modo di stare facendo il sagrestano, in un luogo che è di tutti e di nessuno, la chiesa, appunto. Tradito dall’uomo del contegno e del decoro, Fredi tuttavia è attento al contegno e al decoro proprio e della chiesa, perché il contrario è la confusione, lo smarrimento di una misura per essere al mondo. Il senso di questa sua scelta, di un’obbedienza per dare una forma alla propria vita, emerge nelle conversazioni con Tilio:
“Ho fatto quella scelta perché ho pensato che darmi regole più alte, più difficili, mi avrebbe portato a credere, sarei diventato quello che volevo, non so come dirti, obbedire a una legge superiore mi avrebbe fatto diventare migliore. E avrei finito per crederci, un giorno. È stato così. Non devi ignorare quello che provi, parlo di stamattina, ma devi obbedire a una legge superiore.”
Tilio è più giovane di una dozzina d’anni, forse. Non si è mai mosso dal paese, è sempre stato lì, si è sposato lì, lì ha visto il matrimonio del figlio Paolo con Francesca, figlia di un ricco mobiliere, lì è rimasto vedovo dopo la straziante malattia della moglie Irma, lì ha vagheggiato per un po’ di stare insieme con Veronika, la badante della moglie, esponendosi alle chiacchiere di tutti. Tilio si è adeguato, nella vita, al sentire generale; come gli dice Fredi,
“Sei attaccato al passato perché adesso il paese non c’è più. Tu non sei mai stato una persona, sei stato tutto un paese.”
Tilio è il portatore delle domande, delle curiosità, delle riflessioni. Fredi prende confidenza con lui, tra di loro progressivamente le parole e le riflessioni si fanno più ampie, complesse, mettono insieme l’osservazione del mondo e dei suoi cambiamenti e l’esperienza della vita. Tilio ha molte cose su cui s’interroga: il suo comportamento nella malattia della moglie; il difficile rapporto con il figlio Paolo, ragazzo di successo, sposato bene, come si usava dire, eppure insoddisfatto della stessa vita che è contento di fare; il senso delle parole del Vangelo, che sente leggere quotidianamente, sul quale pone le sue domande a Fredi e ai due sacerdoti che si alternano in parrocchia, dando spazio a riflessioni sulla povertà, sulla fede, sul paradosso dei comportamenti di Gesù:
“Il bello del Vangelo è che tu non lo sai proprio, non riesci a capire che cosa devi fare, ti tocca scommettere su dove puoi arrivare a metterti in discussione. Non c’è niente come il Vangelo, pensa Tilio, ti rovescia come un guanto.”
Dal punto di vista della fredda sagrestia della chiesa poco frequentata, dai punti di vista in dialogo del viaggiatore e rigoroso Fredi e del sedentario e inquieto Tilio, la nostra contemporaneità e la trasformazione di abitudini, modi di pensare, relazioni vengono osservate e misurate sul metro di chi ha conti col passato cui ripensare, ma non desideri di successo da inseguire. Nel farsi delle conversazioni quotidiane, trova spazio la manifestazione dell’amicizia tra i due, fino ai segni di tracollo di Fredi, che, nei suoi ultimi giorni, parla della propria infanzia, della propria origine, delle cose lasciate, che forse non andavano tutte lasciate (ma è cosa che si capisce dopo). Qui si colloca un gesto rivelatorio, su ciò che la modernità può e non può: Fredi vorrebbe notizie della sua antica fidanzata; Tilio prende lo smartphone, cerca su Google e gli spiattella, in un attimo, l’esito della ricerca, ma l’amico non ne ricava gioia, anzi nega quasi il desiderio espresso. Troppo in fretta, e inutile nella sua fretta, questa ricerca, capisce Tilio: la veloce soddisfazione della domanda, che l’algoritmo consente, non sana la ferita di una vita.
Fredi si spegne, nell’ultimo capitolo, portando con sé viaggi, luoghi, colori e incontri, tutte le cose fino all’ultima, ad un ricordo d’infanzia, un piccolo segreto tra lui e sua mamma, di cui aveva parlato a Tilio. A Tilio resta la possibilità di fare qualcosa: la sera prima del funerale, chiama al telefono il figlio, e riesce a dirgli quelle parole di affetto che per anni si è tenuto inespresse.
QUATTRO
Il ricordo d’infanzia di Fredi è questo: lui con sia mamma, che fanno una buca in giardino e ci mettono dentro un fagotto, con dentro qualcosa che Fredi non sa, o non ricorda. Questo gesto mi ha ricordato un altro testo di Villalta, che chiude “Aprile 1969”, uno dei racconti della formidabile raccolta Un dolore riconoscente (Transeuropa, 1999): il piccolo protagonista, l’autore stesso, mette in un sacco e affida alla corrente del fiume alcuni oggetti legati alla sua infanzia. Si entra nel tempo cosciente della vita abbandonando qualcosa, che ricorderemo di avere abbandonato, e qui sta la nostra fedeltà a noi stessi, la fedeltà di un abbandono.