Idee elementari per il futuro di un sapere di città

L’edizione odierna del Messaggero Veneto di Pordenone riporta, a p. 24, un mio intervento, nell’ambito della discussione sul futuro della città. Il titolo del contributo, sul quotidiano, è “Città insieme infrastruttura e contenuto della conoscenza”; come sottotitolo, io aggiungerei quello di questo post: sono idee elementari in merito al futuro di un tipo di sapere particolare, che leopardianamente chiamerei “sapere cittadino” (eco dell’ “onesto e retto conversar cittadino” che ci viene dalla “Ginestra”, versi 151-152). Ecco, di seguito, il mio intervento.

La domanda sul futuro di una comunità -frutto, sempre, di un periodo di crisi di fondamenti precedenti- impone di chiedersi, prima di tutto, di quale comunità si stia parlando, di quale sia l’idea condivisa che le si adatti. “Pordenone” è una città; è  un territorio più o meno corrispondente alla sua provincia (chiamiamola ancora così); è un insieme dinamico di relazioni che vanno oltre i suoi confini fisici (i “Pordenonesi altrove”, come li si erano chiamati anni fa); è,  infine, una serie di significati metaforici riconoscibili nell’immaginario collettivo (Pordenonelegge, Giornate del Muto, Dedica, Electrolux,  tanto per restare ai primi riferimenti che mi vengono in mente). Tutto questo è “Pordenone”, e ci chiediamo dunque “come” sarà. Il “come” viene prima del “cosa”, perché la condizione, per la quale possiamo parlare del destino di una comunità, è che essa si riconosca, in quanto tale, attorno ad un’idea e ad un progetto di sé (che è cosa ben diversa dalla somma delle singole attività che la attraversano).
La mia tesi di fondo, che proporrò, a partire dal mio angolo visuale, che è quello di una persona che lavora nelle istituzioni scolastiche, è questa: la conoscenza condivisa è la condizione che salda l’identità di un territorio (reale e simbolico) e che costituisce le condizioni per la sua evoluzione. Proverò a esporre, in breve, cosa ciò possa voler dire per “Pordenone”.

Punto primo. La conoscenza condivisa è la chiave dell’identità di una comunità.
Esiste un “sapere di città”, che è l’insieme delle esperienze, delle attività, delle comunicazioni di coloro i quali vivono un territorio e sentono di crescere, anche nella loro identità, attraverso questo sapere. La formulazione di cosa sia questo sapere è antica, e ci viene fino dal discorso di Pericle, come ce lo riporta Tucidide, in cui Atene è addirittura definita “scuola” e “spettacolo” dell’Ellade.
Ciò presuppone che la città stessa sia infrastruttura e contenuto della conoscenza: infrastruttura, in quanto l’insieme di luoghi e relazioni, fisiche e non, fa circolare il sapere (un esempio, che tutti conosciamo, è quello offerto dalle strade del centro durante Pordenonelegge); contenuto, in quanto il sapere di una città si giova delle relazioni, per circolare e crescere.

Punto secondo. L’infrastruttura di condivisione è la Rete.
Ci sono molti modi per condividere il sapere, ma ce n’è, oggi, uno veloce, simultaneo, capace di raggiungere un gran numero di persone, capace di dar visibilità ad ogni buona idea, capace di creare le condizioni per soppesare e discutere ogni idea, e quel luogo è la Rete.
Questo, per “Pordenone”, significa avere un approccio cittadino alla rete: e questo significa decidere di avere una buona rete, e quindi investire (come? con scelte della polis, politiche quindi, prima di tutto) nella qualità e nella stabilità della banda (Giorgio Jannis, tra i protagonisti del tavolo da cui nacque Wireless Naonis, parla di “diritto di banda” da sancire costituzionalmente, e non scherza).
Questo significa assumere, come compito della polis, che la massima parte possibile di cittadini acceda alla rete con consapevolezza e cognizione.
Ma “approccio cittadino” significa pensare anche a come la Rete possa mettere a sistema le esperienze di conoscere sociale e cittadino, valorizzarle, condividerle, ampliarle.
Ci sono quattro domande, a questo punto, in merito, e le porrò di seguito.

a. Perché?
Il “perché” questo e non altro è rappresentato dalla correlazione tra disponibilità di banda larga, conoscenza e sviluppo (che non sia quello prodotto da contingenze, quali lo sfruttamento di forza lavoro a basso prezzo). La rete è l’infrastruttura della crescita, e su questo c’è poco da dire (anche a livello governativo ciò si sta imponendo come tema ineludibile, proprio in questi giorni).
“Perché”, però, vuol dire anche: perché abbiamo una comunità occidentale, colta e aperta, checché ne pensiamo di noi stessi, e la rete vissuta consapevolmente è un risvolto dell’evoluzione moderna della nostra storia.

b. Perché no?
Certamente, ci sono paradigmi culturali che vanno mutati: in buona sostanza, sono quelli legati ad un immaginario (e a tutti i suoi correlati) costruito televisivamente.
E forse, per il nostro territorio, c’è da liberarsi (pur se molto si è già fatto) un altro paradigma, quello che vede con circospezione tutto ciò che ha a che fare, in qualche modo, col sapere.

c. Perché noi?
Perchè abbiamo le condizioni per farlo:
-un sistema scolastico di buona qualità;
-esperienze culturali e imprenditoriali che creano aspettativa di sapere ed identificazione;
-la mancanza di strutture rigide del sapere, come le Università;
-la presenza, sul territorio, di esperienze di costruzione di socialità condivisa (il progetto Genius Loci narrato magistralmente in quello che dovrebbe essere il breviario della nuova polis, “Istituire la vita” di Francesco Stoppa);
-le persone che sanno come si fa, e ne cito tre, diverse per età, interessi e cultura: Sergio Maistrello, Matteo Troia, Federico Morello.

d. Perché ora?
Perché il passaggio storico richiede, ora, delle scelte qualificanti, che vengano dal vissuto intero di una comunità.