Quaranta passi da “I promessi sposi”/14

(dal capitolo XIII)

“E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Chi con ciottoli picchiava su’ chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l’unghie, non avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s’ingegnavano di levare i mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata de’ lavoranti: giacché, per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento.”

L’eterogenesi dei fini all’opera: chi vuole catturare il vicario di provvisione, chi (come Renzo) vuole difenderlo. Ognuno porta il suo contributo, che si traduce soprattutto in impiccio su impiccio, a rallentare il deprecabile intento dei più: come, nota l’autore, capita putroppo (e spesso) anche quando si cerca di fare il bene.

Buona intenzione, buoni mezzi, buona scelta dei tempi: in filigrana, una piccola lezione d’etica aristotelica.

Luigi, la diastole e la sistole (un racconto per il cambio d’anno)

Luigi si è destato.

Fuori, buio, notte fonda. Luigi si è svegliato mentre nel suo sonno leggero gli sembrava di aver compreso qualcosa d’importante a proposito della cattiveria. Luigi accende la luce, cerca le ciabatte, si alza e va in bagno, passa in cucina e beve un bicchiere d’acqua, e ancora gli resta quell’impressione. Non si chiede perché la cattiveria, e non altro. Torna a letto, cerca di riafferrare il quel sonno leggero, caso mai gli rivelasse qualcosa.

Poi si addormenta.

E poi, qualche ora dopo, si sveglia.

Oggi è giorno di vacanza, Luigi fa le cose della sua vita, le solite cose che fa in giorni come questo, e si dice che tornerà a pensare a quello che gli pare di avere compreso prima di cena, quando sarà solo a casa.

E così fa, quando la sera, come che sia, in capo alla giornata che è stata come è stata, è arrivata.

Luigi pensa che la cattiveria è un argomento su cui ha poco riflettuto, nella sua vita (e qualche anno Luigi ce l’ha).

Luigi ha riflettuto sul senso di colpa, in più di un’occasione. Ha riflettuto perché gli è successo di sentirsi in colpa, per qualcosa, o di fronte a qualcuno: per azioni, od omissioni. Alcune di queste azioni, ed omissioni, possono essere definite cattive, ma non tutte: Luigi ha avvertito colpa, per cose fatte, o non fatte, di certo non improntate a malizia. Luigi pensa che per la questione dei sensi di colpa ci sono persone in gamba, che hanno studiato come si conviene, e per anni, questa cosa.

Luigi ha ricevuto un’educazione cattolica -non ci chiediamo qui cosa ne sia, di questa sua educazione. Luigi comunque sa qualcosa del peccato, ha fatto per anni l’esame di coscienza, prima della confessione, ed i peccati che gli vengono in mente hanno per lo più a che fare col sesso, ma non sa dire come stia la faccenda tra il peccato e la cattiveria, non gli pare siano la stessa cosa: almeno, non proprio, non esattamente la stessa cosa; il peccato accade, la cattiveria, pensa Luigi, è una tonalità costante, che accompagna ogni azione.

Luigi ha compiuto studi filosofici, pertanto tiene in mente alcuni testi dell’etica, soprattutto quella classica, coi quali, per come ha potuto, si è confrontato in anni passati, riflettendo sull’agire umano, in generale, e qualche volta, con modesti esiti, sul proprio. Gli torna in mente soprattutto l’Etica a Nicomaco di Aristotele, che peraltro parla più della virtù, l’aretè, che della cattiveria, la kakòtes. Aristotele sbriga la questione dicendo che la virtù è una disposizione che l’uomo apprende facendo, e facendo, e continuando a fare, azione buone, e questo apprendimento Aristotele chiama exis, che deriva dal verbo echo, che vuol dire “avere”: insomma, la virtù è qualcosa che tieni, ed i latini hanno tradotto questa cosa con habitus.

Luigi pensa che questo Aristotele gli torni buono, anche se la cosa che ha capito stanotte, a proposito della cattiveria, è un po’ diversa.

A Luigi è parso questo, dentro il suo sonno leggero: che la cattiveria sia non un abito, ma una nervatura, che attraversa tutto il corpo, si avverte nelle mani, nelle braccia, nelle gambe e nella pancia; Luigi l’ha sentita, questa tensione di nervi, che con la testa ha poco o nulla a che fare -ma anche la testa, è parso a Luigi, ha poco o niente a che farci. Luigi ha sentito che il groviglio di questa nervatura converge verso un centro, e questo centro è il suo cuore, duro e pesante come un pugno. Luigi può dire che la cattiveria, per come l’ha conosciuta in sé durante il sonno, è una contrazione delle membra e del cuore. In questo senso, si dice Luigi, la cattiveria è exis: non perché la tengo, ma perché, in realtà, mi tiene, m’impalca.

Mentre pensa queste cose, Luigi è seduto sul divano. Luigi non pensa queste cose tutte in una volta, è arrivato a mettere insieme la sua riflessione con parecchie pause, dovute all’accendere e spegnere la televisione, al controllare le mail, allo sbirciare Whatsapp, allo scorrere Facebook, all’andare a far pipì. Luigi sa che il meglio, delle sue capacità intellettuali, lo ha già dato -cosa abbia fatto di queste capacità, non ci chiediamo qui-, e accetta con pazienza che i pensieri s’inceppino, che il loro corso divaghi.

In una di queste divagazioni, capita a Luigi di guardarsi la pancia. A Luigi pare che la sua pancia si sia dilatata, quest’anno; la pancia viene fuori nelle foto di questi ultimi mesi, dappertutto; i maglioni che indossa la sottolineano; le giacche, non c’è verso di tenerle chiuse. A Luigi non piace molto guardare la sua pancia, ma adesso gli è capitato, e la guarda pensando che si è fatta proprio invadente. Sotto questo pensiero Luigi ne sente altri, li ha del resto fatti tante volte, considerando la sua pancia, essi suonano così: mangia più frutta, fai palestra, vai in bici.

E, da tempi lontanissimi: Petto in fuori, pancia in dentro. Luigi espira con forza, contrae i muscoli -chiamiamoli così- dello stomaco, e le dimensioni della pancia tornano entro limiti accettabili, quelli della figura di sé cui Luigi si è abituato. Dura poco: Luigi inspira, la pancia si dilata.

Inspirazione, espirazione: Luigi ha avuto, negli anni, le sue curiosità ed i suoi crucci esistenziali, ha letto, non sa con quanto criterio, con quale modesto frutto, testi di filosofie orientali, si è interessato alla Filocalia, ha rimuginato sul Pellegrino russo: a Luigi è noto che sistemi di sapienza sono costruiti tutti sull’inspirare ed espirare, ma non prova neanche a seguire questo nuovo pensiero, sa che s’impunterebbe di fronte alla mole di cose da leggere e studiare (e passi pure), e capire (e per quello non si sente più capace).

Luigi torna  a pensare al cuore contratto e teso, alla contrazione, che lui chiama anche, dopo stanotte, la concretezza della cattiveria: questa contrazione, che ha l’intento di afferrare, tenere le cose, bloccarle ben strette. Luigi pensa che, sì, questa è la sua esperienza dell cattiveria, della sua, beninteso, perché non saprebbe dire degli altri: muscoli e cuore serrati sul possesso di qualcosa; o sul possesso di qualcuno. A Luigi si succedono in mente, rapide, immagini a conferma -ma di queste immagini, delle storie che a queste immagini si collegano, qui non parliamo.

Questo contrarsi del cuore, pensa Luigi, ha un nome, che lo riporta agli studi liceali di scienze; questo nome è sistole. A Luigi viene in mente che è una contrazione paradossale, perché stringe, ma non tiene niente: serve, anzi, a mandare il sangue in giro per il corpo, se si ricorda bene. Questa contrazione del cuore, pensa Luigi: non tiene niente, non afferra un bel niente; tenere, afferrare, sono illusioni.

L’altro movimento -ma adesso a Luigi torna in mente che la cosa è molto più complicata, c’entrano anche gli atri ed i ventricoli; questo gli torna in mente bene, perché gli è piaciuto studiare l’argomento, al Liceo- si chiama diastole: il cuore, immagina Luigi, si dilata, e riceve sangue. Nel momento in cui il cuore si distende -si rilassa, in un certo senso-; ecco, in quel momento riceve. Senza afferrare, senza contrarre. E quello che riceve, poi dà.

Luigi pensa che ci sia qualcosa di buono, in questi pensieri che sta facendo; non sa se questi pensieri lo renderanno, anche, più buono; forse, sono l’inizio per qualcosa attraverso cui potrà essere più buono.

Luigi non lo sa, ma lo spera.

Se lo augura.