Quaranta passi da “I promessi sposi”/32

(dal Capitolo XXXI)

“In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.

Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.”

Alla conclusione del capitolo, Manzoni ci offre le ragioni che lo hanno spinto ad interessarsi tanto a fondo alla vicenda della peste di Milano, tanto da dedicarle tutto un saggio storico, la “Storia della colonna infame” (che è un vero e proprio sviluppo laterale del romanzo): la concatenazione d’idee e di convincimenti sulla natura del contagio, dalla negazione, alla sottovalutazione, alla spiegazione minimizzante fino all’interpretazione complottistica, Un caso esemplare, aggiunge l’autore, che vale per tante più modeste faccende dell’umano agire e intepretare, quando invece quello giusto sarebbe fatto di quelle azioni (osservare, ascoltare, paragonare, pensare) che in buona sostanza sono il metodo scientifico.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/28

(dal Capitolo XXVII)

“Ma per avere un’idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato.

Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell’arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l’informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell’altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c’è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po’ a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt’altro: accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell’abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d’intendere; perché l’interessato, fondandosi sulla cognizione de’ fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l’incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un’interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso; se c’entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c’è stata anche l’intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr’ore disputassero sull’entelechia: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto.”

Nel Capitolo XXVII l’azione rallenta e s’arresta, tanto che qui si pone la prima decisa ellissi narrativa, che porterà la narrazione in avanti di quasi un anno. In compenso, s’interpreta molto.

Interpreta don Ferrante le cose del mondo, alla luce di una cultura saldamente abbarbicata a ciò che ha più consenso e moda, e che quindi non è detto che duri.

Interpreta donna Prassede le cose di Lucia, e quelle sue proprie, con scarsa soddisfazione di tutti.

E si interpretano i carteggi tra Renzo e Agnese, tanto che tra chi detta, quello che chi detta vuole dettare, chi scrive, quello che chi scrive vuole intendere, chi legge, chi ascolta la lettura e intende quello che vuole, le cose s’ingarbugliano un bel po’.

Resta il fatto che Lucia vuole dimenticare Renzo, si impone di dimenticare Renzo: e non ci riesce.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/26

(dal Capitolo XXV)

“‘Giacché, come diceva spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello.”

Non c’è storia senza interpretazione; ogni vicenda, appena narrata, è già la sua stessa esegesi. Capita da subito a Lucia; la mirabile vicenda che le è occorsa arriva, tra le altre persone, anche a donna Prassede, abbastanza in vista nel mondo per poter dare spazio alle proprie convinzioni, ed ecco che Lucia diviene per lei una ragazza che, certo, qualcosa da sistemare la deve avere, visto che si è promessa a un sedizioso, come Renzo.

L’essere umano interpreta, ed interpretando svela se stesso.