Quaranta passi da “I promessi sposi”/19

(dal capitolo XVIII)

“Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per un’occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui.”

La ricerca della giustizia ha messo Renzo nei guai, e lo ha portato lungo le strade non mondane della Provvidenza; ma col capitolo XVIII si torna sui percorsi quotidiani, segnati dalle manovre di chi ha, o pensa di avere, un poco di potere. Ed ecco il Conte zio, l’aggancio milanese di Rodrigo e Attilio per mettere fuori gioco anche fra Cristoforo: un potente, il cui ascendente è fatto di parole a mezzo, silenzi e allusioni, come accadeva allora; e oggi. Inizia così la recita del potere per il potere.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/10

(dal capitolo IX)

“– La signora, – rispose quello, – è una monaca; ma non è una monaca come l’altre. Non è che sia la badessa, né la priora; che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d’Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la chiamano la signora, per dire ch’è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perché dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile; e i suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di quelli che hanno sempre ragione, e in Monza anche di più, perché suo padre, quantunque non ci stia, è il primo del paese; onde anche lei può far alto e basso nel monastero; e anche la gente di fuori le porta un gran rispetto; e quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo; e perciò, se quel buon religioso lì, ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v’accetti, vi posso dire che sarete sicure come sull’altare.”

Non come le altre.

Son di quelli che comandano.

I suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto.

E son di quelli che hanno sempre ragione.

Il primo del paese.

Può far alto e basso.

La gente di fuori le porta un gran rispetto.

Quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo.

Ah, la rassicurante saggezza del potere, delle regole di forza su cui si regge la mondana quotidianità: un sillogismo alla volta, per dire che, se ci si mette nelle mani di chi può…

sarete sicure come sull’altare.

Qui Manzoni è proprio al massimo della sua ironia romanzesca: l’altare, quello che Lucia non ha avuto; quello che dovrà conquistarsi -nonostante Gertrude, il potere suo, della sua famiglia, e dei suoi affini.