(dal capitolo XVIII)
“Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per un’occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui.”
La ricerca della giustizia ha messo Renzo nei guai, e lo ha portato lungo le strade non mondane della Provvidenza; ma col capitolo XVIII si torna sui percorsi quotidiani, segnati dalle manovre di chi ha, o pensa di avere, un poco di potere. Ed ecco il Conte zio, l’aggancio milanese di Rodrigo e Attilio per mettere fuori gioco anche fra Cristoforo: un potente, il cui ascendente è fatto di parole a mezzo, silenzi e allusioni, come accadeva allora; e oggi. Inizia così la recita del potere per il potere.