(dal Capitolo XXIV)
“Per don Abbondio questo ritorno non era certo così angoscioso come l’andata di poco prima; ma non fu neppur esso un viaggio di piacere. Al cessar di quella pauraccia, s’era da principio sentito tutto scarico, ma ben presto cominciarono a spuntargli in cuore cent’altri dispiaceri; come, quand’è stato sbarbato un grand’albero, il terreno rimane sgombro per qualche tempo, ma poi si copre tutto d’erbacce. Era diventato più sensibile a tutto il resto; e tanto nel presente, quanto ne’ pensieri dell’avvenire, non gli mancava pur troppo materia di tormentarsi.”
Quando ho studiato Manzoni al Liceo, mi ero appassionato alla questione della scelta del genere romanzesco, dopo le tragedie, ma fra tutti i temi connessi -gli umili, la lingua, la visione dell’uomo- non avevo certo preso in considerazione la necessità strutturale di un personaggio come don Abbondio, che, anzi, al me diciannovenne pareva, in buona sostanza, un cagasotto cui va dritta, senza alcun merito, e che non capisce niente di tutta la storia. E in effetti, è proprio così, don Abbondio è proprio questo, e proprio qui sta la ragione della sua necessità: il romanzo ci mostra, come accade nelle vicende degli uomini, che contemporaneamente alle vicende eroiche e tragiche c’è sempre qualcuno che vorrebbe non averne troppi fastidi, tenendo come propria regola di vita cavarsela. Nel romanzo, non è che la storia inizi in tragedia e poi si ripeta in farsa: tragedia e farsa stanno insieme, e don Abbondio ce lo dimostra.