Quaranta passi da “I promessi sposi”/25

(dal Capitolo XXIV)

“Per don Abbondio questo ritorno non era certo così angoscioso come l’andata di poco prima; ma non fu neppur esso un viaggio di piacere. Al cessar di quella pauraccia, s’era da principio sentito tutto scarico, ma ben presto cominciarono a spuntargli in cuore cent’altri dispiaceri; come, quand’è stato sbarbato un grand’albero, il terreno rimane sgombro per qualche tempo, ma poi si copre tutto d’erbacce. Era diventato più sensibile a tutto il resto; e tanto nel presente, quanto ne’ pensieri dell’avvenire, non gli mancava pur troppo materia di tormentarsi.”

Quando ho studiato Manzoni al Liceo, mi ero appassionato alla questione della scelta del genere romanzesco, dopo le tragedie, ma fra tutti i temi connessi -gli umili, la lingua, la visione dell’uomo- non avevo certo preso in considerazione la necessità strutturale di un personaggio come don Abbondio, che, anzi, al me diciannovenne pareva, in buona sostanza, un cagasotto cui va dritta, senza alcun merito, e che non capisce niente di tutta la storia. E in effetti, è proprio così, don Abbondio è proprio questo, e proprio qui sta la ragione della sua necessità: il romanzo ci mostra, come accade nelle vicende degli uomini, che contemporaneamente alle vicende eroiche e tragiche c’è sempre qualcuno che vorrebbe non averne troppi fastidi, tenendo come propria regola di vita cavarsela. Nel romanzo, non è che la storia inizi in tragedia e poi si ripeta in farsa: tragedia e farsa stanno insieme, e don Abbondio ce lo dimostra.

Quaranta passi da “I promessi sposi” /3

(dal capitolo II)

“Vedremo, – diceva tra sé: – egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo.”

Nel teatro mentale della sua veglia, don Abbondio rappresenta la messa in scena del’imbroglio che servirà a Renzo, dopo le minacce dei bravi.

C’è tutto: il calcolo all’ingrosso delle proprie buone ragioni, con il luccichio della buona ragione per eccellenza, sempre e ovunque -sfangarla (con, in più, quel po’ di presa in giro verso questo ragazzino sciocco, che pensa alla morosa); la squallida prepotenza data dalla miglior posizione nel mondo e dalla maggiore conoscenza (che porterà, di lì a poco, al raggiro tramite i tecnicismi del latino); la becera attitudine paternalistica e, da ultimo, il proverbio per eccellenza dei paraculi, “io non voglio andarne di mezzo”.

E, alla fine, don Abbondio non sarà neanche capace di farla bene, questa messinscena, così che si propone da subito come uno dei veri destinatari di tutto il sugo del romanzo: imparerà ad essere, se non coraggioso, perlomeno paraculo in maniera minore?

Quaranta passi da “I promessi sposi”/2

(Dal capitolo I)

– Ci penserò io, – rispose, brontolando, don Abbondio: – sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare – E s’alzò, continuando: – non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l’appunto a me.

– Mandi almen giù quest’altro gocciolo, – disse Perpetua, mescendo. – Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.

– Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: – una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà? – e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera.

Quando le cose diventano insostenibili, una scelta è nascondere la testa sotto la sabbia, fingersi immobili: o, come fa don Abbondio alla fine del primo capitolo, dopo aver ricevuto la minaccia dei bravi di don Rodrigo, mettersi a dormire, prendendo tempo e sperando in qualcosa (Enzo Jannacci: "Quelli che con una buona dormita passa tutto").

Il sonno (che sarà agitatissimo) di don Abbondio fa contrasto con la bucolica immagine d’avvio del capitolo, il ramo di Como eccetera eccetera, e la strada per arrivarci è una scelta precisa di Manzoni. Si inzia con la bellezza del paesaggio: poi, irrompe la storia, sotto la forma, anzitutto, della guarnigione di soldati spagnoli che insegnano la modestia alle fanciulle e carezzano le spalle agli uomini (Manzoni, immagino, avrebbe prodotto capolavori d’ironia, sull’odierna retorica della distorsione dei fatti): insomma, da una parte la bellezza della natura, dall’altra la durezza della storia. E dentro la durezza della storia stanno le storie delle singole persone, e dentro queste il fatto che don Abbondio incontri i bravi. E sta anche il fatto che i bravi dentro questa storia proprio non ci dovrebbero stare, ma leggi e leggine e provvedimenti e voce grossa di qualche governante non li hanno dissuasi neanche un po’, perché la storia, è chiaro da subito, è terreno di manipolazione retorica e d’ingiustizia.

E così don Abbondio va a dormire, sperando che la notte cambi qualcosa, come ci capita spesso. Ma invece.