Le coppie che magari ancora non lo sanno ma iniziano

Il giorno prima c’era stato un generoso temporale, di quelli che rendono poi le mattine fresche e luminose.
Il treno per Padova, quel 25 luglio, lunedì mattina, era gradevolmente semivuoto. Qualche sedile oltre il mio, due giovani insegnanti parlavano del loro anno di supplenze -una premonizione, pensavo.

A Padova passai anzitutto a lasciare il borsone a casa degli amici che mi ospitavano e mi avevano lasciato le chiavi. Strano vedere vuoto quell’appartamentino, la cucinetta  che aveva ospitato pomeriggi di studio condiviso e gran mangiate di crostatine del Mulino Bianco.

La biblioteca universitaria era pure lei torpidamente spopolata, buona per fare con calma ricerche e richieste di prestiti esterni. Pure surrealmente vuoto era l’androne della mensa della Pio X: svagato il cassiere, quasi estranei a se stessi i cibi.

Ma Lei, come speravo, arrivò. Si accorse di me, si liscio`pensierosa la canottiera Think Pink, si accorse che io manifestamente la aspettavo, ed io mi accorsi che pure Lei si aspettava di trovarmi lì. Dopo pranzo mi accompagnò a vedere il laboratorio dove stava facendo la ricerca per la sua, di tesi, e dopo camminammo  per le piazze, nella direzione vaga e certissima delle coppie che magari ancora non lo sanno, ma iniziano. Dopo il caffè (nel bar con le tazze tirolesi) ci salutammo vaghissimi sui modi e tempi ma tacitamente sicuri sull’importanza del rivedersi.

Stamani, 25 luglio. Sulla via di scuola, una ragazza dell’età che si aveva noi allora, che si liscia pensierosa i pantaloni. Sono sicuro che si aspetta di vedere qualcuno che manifestamente la aspetta.
E infatti, dopo un po’, li vedo insieme, a camminare verso il chissà dove impreciso e certissimo delle coppie che, magari non lo sanno, ma iniziano.

Il posto da cui guardi le vacanze

Per ogni viaggio credo ci sia un posto, scoperto per caso o per caso fattosi avanti, che diventa il punto di osservazione per tutta l’esperienza.
Di questa vacanza pugliese, ho capito quale fosse, per me, quel punto, al ritorno, lungo l’ultimo pezzo di autostrada, la scorrevolissima e necessarissima (almeno un tempo) Conegliano- Portogruaro.
È il muretto che, di fronte a palazzo Ammazzalorsa, si affaccia sul porto di Bisceglie. Lì  la sera terminavo la passeggiata per le intricate e sorprendenti viuzze di un centro storico meraviglioso, tutto o quasi ancora da sottoporre a manutenzione (fatti salvi angoli o tratti d’incanto, come quello che mena da via Tupputi alla Cattedrale).
Accompagnare di lì il digradare dela luce era come avvertire quanto si era depositato nelle ferree giornate di caldo: lo svuotamento di ogni altra intenzione che non fosse la cura dei cuccioli e l’essenzialità parca nei movimenti. In buona sostanza, le cose che veramente danno sapore, lo stesso processo che toccava ai sassi messi ad asciugare dai piccoli, sui quali restava la patina sapida del sale.
Lì fermo, prima di prendere la strada verso il gelato di Cova, ho più volte, girando lo sguardo, enumerato tutte le cose che, quando ero piccolo, turbavano le mie abitudini: gli orari sballati, le luminarie barocche per la festa dei Santi Protettori, gli accenti del dialetto biscegliese, i riflessi della pietra bugnata dei palazzi. Oggi, ho pensato, tutto questo, che mi inquietava, rappresenta l’unità di misura cui riconduco ogni altra cosa.

Una di queste ultime sere, dopo averlo pensato, mi sono voltato verso i cuccioli.
Sono le cose di mio padre, queste, mi sono detto. E dovevo diventare padre anch’io per capire.

Uniti dalla crisi

Mi fermo al forno vicino a casa per comprare pane e focaccia.

Il proprietario mi saluta, ci si aggiorna: che piacere rivedersi dopo un anno, che novità ci sono. Inevitabilmente si parla della crisi. Eh, fa lui.. Fino all’ anno scorso la domenica incassavo 500 euro, adesso 150: in un mese la differenza è l’affitto. Poi le tasse, l’IMU, le banche che faticano a darti credito (usura e gratta e vinci vanno alla grande, invece): insomma, se va così a dicembre si chiude e vado a fare pane in Germania, dice.
Ci salutiamo, e penso che, più o meno, lo stesso discorso di questo fornaio pugliese l’ho sentito a Pordenone diverse volte, di questi tempi.

Capri, colpe, responsabilità

I politici ovviamente.
Gli statali.
Quelli dell’ altra generazione (dalla propria).
Quelli che vogliono le province.
L’IMU.
Lo spread.
Quelli che non vogliono le province.
Il Sindaco.
Il Presidente della Provincia.
Quelli che non hanno capito e non ci hanno votato.
I vicini di casa.
Quelli dalla movida (movida movida???).
Quelli che vanno a nanna presto.
(Qui, aggiungete a piacere).

Mi basta leggere l’aggiornamento di status su Facebook dei miei contatti naoniani, in un domenica consueta di questo tempo inconsueto, per estrarre un breve elenco di colpevoli. Di cosa? Di un contributo di qualche genere a questo tempo che non va. Qualcuno da punire in qualche modo, e le cose andranno meglio.

È una roba seria e antica, la ricerca del capro espiatorio. Essa salda contro qualcuno una comunità: gli Ateniesi, nella loro geniale opera di costruzione della comunità sopra le ancestrali strutture antropologiche, lo avevano capito e si erano inventati l’ostracismo: una volta l’anno, votazione del capro dell’anno, via dalla polis per un anno e l’anno dopo nuovo giro.
Ma noi siamo postmoderni, e il capro espiatorio non fonda le comunità, ma solo lo spazio di sfogo solipsistico di un post e di
una manciata di like.

Prossimo giro, prossima colpa e prossimo sfogo nel prossimo post. Altrove, in Rete (che non è una roba sola) si parla di responsabilità e di costruzione di reti sociali, ma fa più difficile. Ma si sa, per aspera ad astra, no?

La festa

In questi giorni un nugolo di diciannovenni o giù di lì sta uscendo da Licei Istituti Tecnici Istituti Professionali per andare verso qualcosa: studio, un’ipotesi di lavoro -futuro, ad ogni modo. È la nostra investing review, ci sarebbe da far loro festa, coi discorsi dei Sindaci. Festa. Non LA festa.

Twittami e dimenticami (a margine di piccoli equivoci in riva al Noncello)

È capitato anche nella piccola sfera naoniana, che un protagonista delle, grandi o piccole che siano, vicende politiche locali abbia espresso live i suoi giudizi cinguettosi su una discussione in corso , e che dopo qualche ora li  abbia cancellati -quando ormai quei giudizi avevano trovato i loro lettori e prodotto le loro conseguenze. È capitato e continua a capitare, a Pordenone e ovunque, in politica e ovunque.
Cose che capitano, appunto, come effetto della combinazione tra un intento comunicativo nuovo e una sociologia comunicativa secolare. L’intento comunicativo è quello impressionistico, situazionale che origina il Tweet; la sociologia è quella che accompagna la parola scritta dai tempi, come voleva Havelock, di Platone, per cui le parole posano e michelstaedterianamente pesano.
Insomma, io affido al Tweet la parola che dovrebbe sciogliersi e volare, ma essa, una volta scritta, resta, perché un lettore e una cache di Google ci saranno sempre a dare una forma diversa a quanto comunicai. Un bell’affare, e forse anche per questo a #sotn2012 si è parlato molto del diritto all’oblio come di una dimensione irrinunciabile.