Quaranta passi da “I promessi sposi”/31

(dal Capitolo XXX)

“Dopo un’altra po’ di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co’ loro occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera che fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati; strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via. Ne’ paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, paglia, cenci, rottami d’ogni sorte, a mucchi o seminati per le strade; un’aria pesante, zaffate di puzzo più forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per chieder l’elemosina.”

La devastazione, che gli uomini fanno -in questo caso le varie armate mercenarie susegguitesi- ha questa, tra le altre caratteristiche: azzera tutto, lascia solo il segno di sé, e Manzoni addensa in queste righe, come fossero fotogrammi in rapida sequenza, i tratti dello scempio prodotto su quella campagna ordinata, risultato, come lo scrittore nel capitolo iniziale aveva tratteggiato, di lunghe e pazienti cure di generazioni.

Luigi, la diastole e la sistole (un racconto per il cambio d’anno)

Luigi si è destato.

Fuori, buio, notte fonda. Luigi si è svegliato mentre nel suo sonno leggero gli sembrava di aver compreso qualcosa d’importante a proposito della cattiveria. Luigi accende la luce, cerca le ciabatte, si alza e va in bagno, passa in cucina e beve un bicchiere d’acqua, e ancora gli resta quell’impressione. Non si chiede perché la cattiveria, e non altro. Torna a letto, cerca di riafferrare il quel sonno leggero, caso mai gli rivelasse qualcosa.

Poi si addormenta.

E poi, qualche ora dopo, si sveglia.

Oggi è giorno di vacanza, Luigi fa le cose della sua vita, le solite cose che fa in giorni come questo, e si dice che tornerà a pensare a quello che gli pare di avere compreso prima di cena, quando sarà solo a casa.

E così fa, quando la sera, come che sia, in capo alla giornata che è stata come è stata, è arrivata.

Luigi pensa che la cattiveria è un argomento su cui ha poco riflettuto, nella sua vita (e qualche anno Luigi ce l’ha).

Luigi ha riflettuto sul senso di colpa, in più di un’occasione. Ha riflettuto perché gli è successo di sentirsi in colpa, per qualcosa, o di fronte a qualcuno: per azioni, od omissioni. Alcune di queste azioni, ed omissioni, possono essere definite cattive, ma non tutte: Luigi ha avvertito colpa, per cose fatte, o non fatte, di certo non improntate a malizia. Luigi pensa che per la questione dei sensi di colpa ci sono persone in gamba, che hanno studiato come si conviene, e per anni, questa cosa.

Luigi ha ricevuto un’educazione cattolica -non ci chiediamo qui cosa ne sia, di questa sua educazione. Luigi comunque sa qualcosa del peccato, ha fatto per anni l’esame di coscienza, prima della confessione, ed i peccati che gli vengono in mente hanno per lo più a che fare col sesso, ma non sa dire come stia la faccenda tra il peccato e la cattiveria, non gli pare siano la stessa cosa: almeno, non proprio, non esattamente la stessa cosa; il peccato accade, la cattiveria, pensa Luigi, è una tonalità costante, che accompagna ogni azione.

Luigi ha compiuto studi filosofici, pertanto tiene in mente alcuni testi dell’etica, soprattutto quella classica, coi quali, per come ha potuto, si è confrontato in anni passati, riflettendo sull’agire umano, in generale, e qualche volta, con modesti esiti, sul proprio. Gli torna in mente soprattutto l’Etica a Nicomaco di Aristotele, che peraltro parla più della virtù, l’aretè, che della cattiveria, la kakòtes. Aristotele sbriga la questione dicendo che la virtù è una disposizione che l’uomo apprende facendo, e facendo, e continuando a fare, azione buone, e questo apprendimento Aristotele chiama exis, che deriva dal verbo echo, che vuol dire “avere”: insomma, la virtù è qualcosa che tieni, ed i latini hanno tradotto questa cosa con habitus.

Luigi pensa che questo Aristotele gli torni buono, anche se la cosa che ha capito stanotte, a proposito della cattiveria, è un po’ diversa.

A Luigi è parso questo, dentro il suo sonno leggero: che la cattiveria sia non un abito, ma una nervatura, che attraversa tutto il corpo, si avverte nelle mani, nelle braccia, nelle gambe e nella pancia; Luigi l’ha sentita, questa tensione di nervi, che con la testa ha poco o nulla a che fare -ma anche la testa, è parso a Luigi, ha poco o niente a che farci. Luigi ha sentito che il groviglio di questa nervatura converge verso un centro, e questo centro è il suo cuore, duro e pesante come un pugno. Luigi può dire che la cattiveria, per come l’ha conosciuta in sé durante il sonno, è una contrazione delle membra e del cuore. In questo senso, si dice Luigi, la cattiveria è exis: non perché la tengo, ma perché, in realtà, mi tiene, m’impalca.

Mentre pensa queste cose, Luigi è seduto sul divano. Luigi non pensa queste cose tutte in una volta, è arrivato a mettere insieme la sua riflessione con parecchie pause, dovute all’accendere e spegnere la televisione, al controllare le mail, allo sbirciare Whatsapp, allo scorrere Facebook, all’andare a far pipì. Luigi sa che il meglio, delle sue capacità intellettuali, lo ha già dato -cosa abbia fatto di queste capacità, non ci chiediamo qui-, e accetta con pazienza che i pensieri s’inceppino, che il loro corso divaghi.

In una di queste divagazioni, capita a Luigi di guardarsi la pancia. A Luigi pare che la sua pancia si sia dilatata, quest’anno; la pancia viene fuori nelle foto di questi ultimi mesi, dappertutto; i maglioni che indossa la sottolineano; le giacche, non c’è verso di tenerle chiuse. A Luigi non piace molto guardare la sua pancia, ma adesso gli è capitato, e la guarda pensando che si è fatta proprio invadente. Sotto questo pensiero Luigi ne sente altri, li ha del resto fatti tante volte, considerando la sua pancia, essi suonano così: mangia più frutta, fai palestra, vai in bici.

E, da tempi lontanissimi: Petto in fuori, pancia in dentro. Luigi espira con forza, contrae i muscoli -chiamiamoli così- dello stomaco, e le dimensioni della pancia tornano entro limiti accettabili, quelli della figura di sé cui Luigi si è abituato. Dura poco: Luigi inspira, la pancia si dilata.

Inspirazione, espirazione: Luigi ha avuto, negli anni, le sue curiosità ed i suoi crucci esistenziali, ha letto, non sa con quanto criterio, con quale modesto frutto, testi di filosofie orientali, si è interessato alla Filocalia, ha rimuginato sul Pellegrino russo: a Luigi è noto che sistemi di sapienza sono costruiti tutti sull’inspirare ed espirare, ma non prova neanche a seguire questo nuovo pensiero, sa che s’impunterebbe di fronte alla mole di cose da leggere e studiare (e passi pure), e capire (e per quello non si sente più capace).

Luigi torna  a pensare al cuore contratto e teso, alla contrazione, che lui chiama anche, dopo stanotte, la concretezza della cattiveria: questa contrazione, che ha l’intento di afferrare, tenere le cose, bloccarle ben strette. Luigi pensa che, sì, questa è la sua esperienza dell cattiveria, della sua, beninteso, perché non saprebbe dire degli altri: muscoli e cuore serrati sul possesso di qualcosa; o sul possesso di qualcuno. A Luigi si succedono in mente, rapide, immagini a conferma -ma di queste immagini, delle storie che a queste immagini si collegano, qui non parliamo.

Questo contrarsi del cuore, pensa Luigi, ha un nome, che lo riporta agli studi liceali di scienze; questo nome è sistole. A Luigi viene in mente che è una contrazione paradossale, perché stringe, ma non tiene niente: serve, anzi, a mandare il sangue in giro per il corpo, se si ricorda bene. Questa contrazione del cuore, pensa Luigi: non tiene niente, non afferra un bel niente; tenere, afferrare, sono illusioni.

L’altro movimento -ma adesso a Luigi torna in mente che la cosa è molto più complicata, c’entrano anche gli atri ed i ventricoli; questo gli torna in mente bene, perché gli è piaciuto studiare l’argomento, al Liceo- si chiama diastole: il cuore, immagina Luigi, si dilata, e riceve sangue. Nel momento in cui il cuore si distende -si rilassa, in un certo senso-; ecco, in quel momento riceve. Senza afferrare, senza contrarre. E quello che riceve, poi dà.

Luigi pensa che ci sia qualcosa di buono, in questi pensieri che sta facendo; non sa se questi pensieri lo renderanno, anche, più buono; forse, sono l’inizio per qualcosa attraverso cui potrà essere più buono.

Luigi non lo sa, ma lo spera.

Se lo augura.

 

 

 

 

 

 

il greco, il pattinaggio, un pomeriggio d’inverno e un classicista pisano: io e Vincenzo Di Benedetto

Nell’inverno tra il 1982 e il 1983 frequentai il corso per diventare giudice di pattinaggio artistico. Ero, neanche diciottenne, il più giovane in un gruppo di adulti che -come compresi molto tempo dopo, e li ringrazio ancora per questo- mi trattavano come un adulto (persone con cui avrei condiviso pezzi importanti di gioia e anche -proprio da adulti- alcuni dei dolori della vita).  Passavamo i sabati pomeriggio a seguire, tra aula e pista, le lezioni del nostro istruttore trevigiano (lo snob Federico Biasin, che se n’è andato davvero troppo presto) negli spazi del Palamarmi.

Nello stesso inverno, ho cominciato a studiare i tragici greci, come da programma nella seconda liceo classico, sotto le stringate ed efficaci indicazioni di un professore indimenticabile (per ragioni più legate alla vita che alla scuola soltanto), Gianantonio Collaoni. Mio padre mi aveva regalato l’edizione in brossura della raccolta di tutte le tragedie greche di Sansoni, con la copertina rossa e la fulminante introduzione di Carlo Diano (“O la tyche o gli dei”), e avevo cominciato a inoltrarmi, o a perdermi (il che è forse lo stesso) in quel mondo d’intrighi, dolori, vendette e divinità sconcertanti, così lontano e così vicino.

Un sabato pomeriggio di profondo inverno, mentre la qualificazione agli Europei dei Campeones del Bernabeu incontrava un nuovo ostacolo sotto le fattezze di un improbabile pareggio a Cipro, arrivato al Palamarmi appresi che la lezione non c’era per un improvviso impegno dell’istruttore. Rincasai, facendo una deviazione verso la libreria Minerva, dove avevo visto, tra i volumi della Piccola Biblioteca Einaudi, un testo cui il nostro professore aveva fatto riferimento, durante una lezione. Lo trovai, lo comperai (ottomila lire). Lo portai a casa, iniziai a leggerlo in quel pomeriggio inatteso.

Il titolo del libro non era granché affascinante (nella mitica Einaudi non si dovevano essere sprecati, su questo punto): L’ideologia del potere e la tragedia greca. Ricerche su Eschilo. L’autore era un grecista della Normale e dell’Università di Pisa: Vincenzo Di Benedetto.

Il libro, che studiai nei dettagli nelle settimane successive, lo lessi tutto durante quel pomeriggio e nella serata. Si faceva leggere, denso sì di riferimenti testuali (e per questo molto invitante, per me) e di discussioni, ma anche dotato di una scrittura concreta, no frills, e di un’architettura argomentativa coerente. In quelle sorprendenti ore, tra Persiani Agamennone Coefore Eumenidi, seguii la storia di una città, dei nodi che la tengono insieme (o che la fanno scricchiolare), e degli interrogativi di un poeta che parla ai suoi cittadini, scandagliando la relazione tra individuo, stirpe, città e dei. Domande antichissime, e anche mie, però, sentivo.

E poi, ci fu l’estate successiva, quando cominciai a giudicare le mie prime gare di pattinaggio e mi ero definitivamente convinto che avrei studiato lettere antiche. Con qualche fatica, tra i Reprints Einaudi riuscii a trovare Euripide: teatro e società (altro titolo che, insomma…), che Di Benedetto aveva pubblicato nel 1971. Anche questo libro lo lessi, una prima volta, tutto intero: ne veniva fuori la guida per entrare nelle tragedie, a partire dalle formidabili eroine del paradosso su ciò che è bene (Alcesti Medea Fedra), la traiettoria della città durante la guerra del Peloponneso, ma, ancora di più (e, si capiva, era la cosa che forse maggiormente premeva all’autore, ma anche quella che andava detta più sottotraccia),  il percorso di un individuo, il poeta, con i suoi interrogativi -sulla città, sull’uomo, sugli dei. Emblematico il finale, con il confronto tra Sofocle ed Euripide, il loro diverso modo di narrare il mito tebano, con la decisa preferenza dello studioso per la “più umana” (così lui scriveva) versione euripidea.

Più enigmatico e teso mi apparve invece il rapporto tra Di Benedetto e Sofocle, autore enigmaticissimo, oggetto di un volume della Nuova Italia (titolo, anche questo decisamente rivedibile: Sofocle) che comperai l’estate successiva, godendomi il piacere della rifilatura delle pagine. La lettura mi lasciò l’impressione della sfuggevolezza ieratica del tragediografo, che s’intrufolava nel groppo di questioni che andavo affrontando in quel momento: l’Università da cominciare, soprattutto, il che  voleva dire soprattutto un esame da preparare.

Alla Normale, ovviamente. Pensai di andarci, proprio per sentire le lezioni di Di Benedetto, e poi tutti mi dicevano che ero così bravo, in greco e latino e italiano… Non mi ci  vollero (altro discorso: su quello che mi mancava per poter passare quel concorso), e, nonostante i miei genitori mi proponessero di iscrivermi comunque a Pisa, decisi di andare a studiare a Padova. Qui mi comperai il giovanile studio di Di Benedetto sulla tradizione manoscritta euripidea, pubblicato, intonsissimo naturalmente, da Antenore. Bene, mi dissi, leggendolo: ogni cosa che proviamo a dire nasce da un accertamento: di fatti; di cose; di parole. Parlavo, tra me e me, di filologia -ora so che parlavo anche di altro.

Più avanti, quando ero già insegnante, quando avevo smesso di giudicare gare di pattinaggio, Di Benedetto fece una visita al tavolo di lavoro di Ugo Foscolo, andando a cercare le tracce della presenza dei classici nello scrittore: questi classici che trovano sempre il modo di rimettersi in circolo, di interrogare ed essere interrogati. C’era pure lì un tratto autobiografico, pensai, la domanda dello studioso allo scrittore sul senso del rapporto con questi lontani personaggi levantini.

Leggo ora che il Professor Di Benedetto se ne è andato da questo mondo. Non l’ho mai conosciuto, non l’ho mai visto, non so chi fosse, che persona fosse: ciò non toglie, che con quel pomeriggio d’inverno imprevisto, sia stata una figura che ha contato qualcosa per decisioni su di me che avrei poi -allora ancora non lo sapevo- preso. La terra gli sia leggera.

buon onomastico

Non gli dispiacevano i compleanni. Non che amasse andare al telefono a rispondere alle chiamate d’auguri, ma apprezzava le visite, specie quelle di noi nipoti, e tra queste in maniera specialissima quelle dei più piccoli, indisciplinati e schiamazzanti -e quindi, ai suoi occhi, indiscutibilmente adorabili (le loro mamme, le sue figlie, se ne facessero ragione). Con l’andare del tempo, ad ogni compleanno coglievamo il lampo d’orgoglio negli occhi, la vigorosa sorpresa di avere aggiunto un anno ancora ad una conta ragguardevole.

Non gli dispiacevano i compleanni, ma gli piaceva molto, molto di più il giorno del suo onomastico, il 29 giugno, che spesso festeggiavamo insieme. Penso -è una cosa, una delle tante, che non gli ho mai chiesto, e nemmeno credo avrei mai avuto idea di chiedergli, nei nostri pomeriggi a parlare dei tempi d’oro del ciclismo, della prigionia in Germania, dei leoni d’Etiopia e delle grondaie in rame- che fosse per come quel suo nome si declinasse nella trama di lingue che lo attraversavano.

In italiano suonava netto, secco, roccioso appunto, l’immagine del pater familias affidabile e inattaccabile che riteneva di dover rappresentare.

Nel dialetto di casa -vicentino dentro le mura-, privo della “t” aveva la rotondità blanda (e talora infida) delle conversazioni di famiglia, a partire dalla conversazione per eccellenza, quella con sua moglie, che Piero lo chiamava e che Gina veniva da lui chiamata, né mai diversamente tra loro si chiamavano.

E poi c’era la lingua peduta dell’infanzia, recuperata per noi nipoti nel retro di una fotografia datata 1912: “Piareto”, pronunciato con l’affetto dovuto alla piccola peste, quel bambino con lo sguardo gentile e sfrontato, coi calzoni corti e la zazzeretta impertinente, che stava ad annusare la vita, coi suoi 10 anni, tra le due severe ed impettite sorelle, i due austeri genitori, il bellissimo e malinconico fratello maggiore, il Leone ragazzo del 1899 e come tanti suoi coetanei destinato a venir inghiottito ragazzino dal fronte del Piave.

Portare, in testa al mio, un pezzo del tuo nome è una delle schegge scintillanti della vita che mi è capitata. Buon onomastico, Piareto.

Pordenone: per chi voto e perché

Per chi mi conosce non è chissà che novità, ma insomma, per ragioni fondamentalmente connesse all’andamento del lato naoniano di Facebook, mi è parso di raccontare la visione di città per la quale  ho deciso di condividere l’avventura di Claudio Pedrotti.

 

IL MOMENTO DI PROVARCI

Esco dalla cucina e trovo Benedetta già in salotto, fa il suo buffo (lo chiamo così perché in fondo è il mio) broncio davanti al suo tablet. Mi vede: -Sto rispondendo ad una commento di Laura sulla prima pagina del libro di Villalta, non sono mica tanto d’accordo con lei, intanto le scrivo e poi ne riparliamo a scuola, con lei e Costanza. Tu lo stati leggendo, no? Ma non ho letto tuoi commenti. Ci stai pensando su, come al solito? O ti sei dimenticato di scrivere, e non sarebbe una novità? -Ci sto pensando su, dai- le rispondo, quando mi lascia il modo di farlo, ed intanto entra in cucina Andrea, -Guarda qui, Sergiomi ha segnalato questo sito nuovo di inchieste civiche condivise, con le tag cloud che servono per l’affinamento dei temi cruciali, ne voglio parlare in classe. Guardo il suo tablet, intanto Daniela sta finendo di sistemare la presentazione di stamattina, va in un’azienda della zona del mobile a tenere un gruppo sugli scambi di saperi tra le generazioni. Usciamo, i due studenti di casa con le loro bici, io ad aspettare la navetta per il Centro Studi. Consulto intanto il portale civico…traffico regolare, un paio di offerte particolari nei negozi del centro, le ricerche di personale qualificato, i giudizi del pubblico sulle mostre in corso, i bandi per l’innovazione d’impresa in scadenza. Arriva la navetta, ci trovo i colleghi con i quali condivido il viaggio quasi ogni mattina, leggiamo e commentiamo le notizie del giorno. A scuola, lavoro con i miei allievi sul Somnium Scipionis di Cicerone. Ciascuno cerca sul Perseus Project i lemmi rilevanti, discutiamo insieme e e valutiamo quali proposte fare al sito della Tufts per i contributi dei lettori in merito alle interpretazioni sintattiche, cerchiamo riferimenti iconografici e tematici, lavoriamo su documenti collaborativi per riassumere gli argomenti fondamentali. Alla fine, controllo che il video della lezione sia caricato sul server della scuola, poi vado in aula insegnanti. Mi metto in videoconferenza col Consorzio Universitario e con alcuni colleghi delle scuole primarie, delle medie, delle altre scuole superiori, per discutere del progetto sulla storia e la memoria delle eccellenze nel lavoro nel nostro territorio. Una twittata di mio padre, m’informa che sul blog di quartiere stanno discutendo con l’assessore all’ambiente dei nuovi orari per la raccolta differenziata, mi dice che vorrebbe avviare un sondaggio e mi chiede qualche chiarimento tecnico, prima d’incontrare i ragazzi di Scienze Multimediali che stanno sviluppando un progetto di formazione per leoni della terza età come lui vogliosi di social network. -Senti- aggiunge -dirai che sono proprio vecchio, ma faccio ancora a fidarmi di questi cloud computer, che vuoi, sono affezionato ad avere in un mio disco fisso le mie cose. Ci salutiamo, esco, per la pausa pranzo vado in libreria. C’è lettura condivisa di Danubio di Claudio Magris, con i librai che poi si mettono a disposizione per scaricare gli ebook di Magris o per trovare le edizioni a stampa dei suoi libri, e per implementare il blog del gruppo di lettura. C’è Gianni, a presentare i testi di oggi, ha avuto Magris come docente, come al solito c’è un sacco di gente a sentire, suggerire, proporre, scaricare, comprare. Esco, il sole di questa primavera scalda piazza XX settembre. C’è l’ordinata confusione dei lavori in corso, stanno allestendo il palco e le postazioni per stasera e domani, c’è l’appuntamento di questo mese di scuola della città. I ragazzi delle start up d’impresa preparano i loro piccoli stand, in mezzo a tutti c’è l’ex sindaco Sergio, figurarsi se non torna a Pordenone per questi appuntamenti, quando può, e se non gironzola a chiedere impressioni e a dare consigli. Condividere narrazioni, il tema della scuola, con storie e progetti e visioni sui luoghi dello stare insieme a Pordenone, sui modi di condividere insieme e costruire Pordenone. C’è movimento di bambini, uomini e donne d’azienda, operai, artigiani, giovani e promettenti costruttori di concreti immaginari, l’ospite che viene è Martha Nussbaum, si è fatto a gara per avere l’onore d’intervistarla, e sul mio tablet continuo a vedere aggiornate le discussioni sui suoi libri, le messe a fuoco delle questioni, delle domande che possono cogliere un filo nuovo nella lettura della città. Mi raggiunge mia figlia. Proprio sotto la scalinata della biblioteca vediamo due ragazzi, lei e lui, un po’ spaesati, chiaro che non sono di qui. Mi avvicino a loro. Lui sta indicando a lei qualcuno, lei segue dubbiosa il suo indice. -May I help you? dico, e lui mi chiede -The man in the front of the theatre, Mr Pedrotti, isn’t he? -Pedrotti who?- rispondo sorridendo, e pure loro sorridono al ricordo dell’aneddoto sul modo con il quale il Sindaco della mia città di è presentato. Poi mi suona il telefono. E’ Daniela. -Abbiamo appuntamento davanti alla sede di Google Naonis, ti sei dimenticato? Mia figlia mi guarda. -Ti sei dimenticato, ancora? Ma vogliamo imparare? -Hai ragione. E’ il momento di provarci.

giovedì santo

La messa del Giovedì Santo mi è sempre parsa uno dei vertici della liturgia cattolica, tutta intrisa com’è di centratura sull’esperienza di umanità. C’è la conclusione, con l’altare lasciato spoglio e l’invito non ad andarsene in pace, ma a fare compagnia a Gesù vegliando e pregando, l’invito a fare compagnia a Dio, insomma; e c’è, dentro la celebrazione, la lavanda dei piedi, la memoria di un gesto di concreta umiltà in vista del rendere l’umanità più bella. Anni fa, don Natale Padovese mi prestò il bel libro di Pier Franco Beatrice sulla lavanda dei piedi come Sacramento nella chiesa aquileiese, una chiesa votata al servizio al prossimo, quindi, e di quel libro feci un punto fondamentale nella costruzione di quella che pensavo diventasse una mia carriera scientifica.

A distanza di anni, penso che sia stato davvero il punto fondamentale nella costruzione di qualcosa, ma in un senso ben diverso, e non connotato solo in termini religiosi.  Natale e Pier Franco, grazie.

la mia Madeleine

Il sorprendente e tiepido sole di questo sabato ha scaldato il tendone dell’edicola sotto casa, e passandoci accanto verso ora di pranzo ho avuto una delle mie personali Madeleine. L’afrore di gomma cotta, dolciastro e acre, ha richiamato un dietro l’altro i tendoni sotto i quali ho annusato primavere promettenti ed estati incipienti, nei tempi che furono da Giudice di pattinaggio a rotelle…

…l’odore asburgico, austero ma pure di cedevole decadenza (contrappuntato del resto dal vicino inceneritore) del pallone pressostatico di via Giarizzole, la pista del Jolly Trieste…

…il misto di odor di gomma e cottura di cevapcici al Pattinaggio Triestino…

…il pallone di Mortise, a Padova, una pista dove andare a giudicare gare provocava la strana sensazione di essere a casa, per me che lì studiavo, pur non essendo quello l’amato suolo di piastrelle del Palamarmi naoniano…

…la struttura di Maliseti di Prato, sede di una strampalata semifinale di campionato italiano…

…la pista di Teramo, di un campionato provinciale con una Giuria da campionato italiano dopo una serie di beghe per tesseramenti, con noi giudici arrivati in maglietta e bermuda, quanto è facile certe volte sdrammatizzare, quando non se ne ha neanche l’intenzione…

…strutture strettine, con spogliatoi per giudici ottimi per allenarsi alle acrobazie, con tribunette striminzitissime dalle quali ogni frase di un presente era allo stesso tempo amplificata e distorta.

E le amicizie sotto quei palloni dall’amichevole afrore…

…Bell’affare, la Madeleine.

una perfezione

Mia figlia si è alzata ed è venuta a chiedermi un album per disegnare.

-E i compiti? Li hai finiti? (sono pur sempre un insegnante)

-Mi manca pochissimo, adesso ho una cosa più importante da fare. (una cosa più importante? Trasalisco: sono pur sempre un insegnante)

(dopo un quarto d’ora, mi affaccio da lei, che sta davanti all’album, chiuso, assorta)

-Finito il disegno? Posso vederlo?

-Non ancora papi. Devo aggiungere una perfezione.

nomeecognome

Il mio primo blog si chiamava http://piervincenzoditerlizzi.blog.tiscali.it. Risale all’anno di grazia 2004 e lo usavo per comunicazioni e segnalazioni con i miei allievi del Liceo.

Dopo un anno, per interagire con gli studenti ho preferito la piattaforma Moodle del Liceo, ed insomma quel blog si è dissolto.

Nel 2006 sono stato eletto Consigliere comunale nella mia amata città sulle rive del Noncello. Mi è sembrato di qualche interesse raccontare la mia esperienza tra i banchi del parlamentino civico, ed è nato un nuovo blog, ospitato sulla piattaforma( allora) gratuita (allora) offerta da Kataweb (l’indirizzo era http://unesperienzaincomune.blog.kataweb.it).

Dopo un anno, la piattaforma è passata a Typepad, ed io avevo altre cose per la testa e per la vita, l’estate che quel passaggio è avvenuto. Insomma, anche quel blog si è evaporato.

Alla fine di quell’estate ho aperto un nuovo blog personale: bordopagina. Sono andato avanti più di tre anni, e con quel blog ho conosciuto amici, punti di vista, detrattori. Nel frattempo ho continuato ad usare la piattaforma Moodle per scuola, ho fatto i miei account su Facebook, Twitter e Friendfeed, ho sviluppato quasi ogni anno un blog ad uso di ciascuna delle mie classi. Ho anche provato l’esperienza di un blog tematico e temporaneo, ispirato da una passeggiata per le vie della mia città in una nebulosa giornata d’agosto.

Poi, bordopagina ha finito la sua storia. Come dire: il titolo ed il sottotitolo (“Note a margine”) hanno compiuto il loro destino, esaurito i campi del dicibile che con sé portavano. Come quando si capisce di avere finito un racconto, una poesia, una ricerca, un libro.

Ho chiuso il blog.

Dopo un po’, m’è parso che qualcosa da dire, da condividere, da discutere in Rete in spazi meno angusti e frammentati di Facebook, lo avessi. Qualcosa che avesse a che fare con la supposta presenza di un coso identificabile, tra le altre possibilità, con un nome e cognome.

Insomma, eccomi qui, con nome e cognome appunto. Con nome e cognome nell’URL, e con nome e cognome modificato nel titolo del blog: in grazia di una simpatica segretaria meranese, che prendendo, anni fa, nota di una telefonata ad un mio amico, gli scrisse: “Ha chiamato il Dottor Dieter Lizzi”.