(dal Capitolo III)
“– Buona notte, – rispose Renzo, ancor più tristamente.
– Qualche santo ci aiuterà, – replicò Lucia: – usate prudenza, e rassegnatevi.
La madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n’andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: – a questo mondo c’è giustizia, finalmente! – Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.”
Quando ho frequentato il Ginnasio (e per molto tempo ancora in seguito) la lettura del romanzo manzoniano era obbligatoria, e di solito si faceva già il primo anno (detto “quarta”, per tante ragioni di storia e di privilegi per fortuna antichi, se no avrei faticato a poterci andare, in quella scuola). Non esistevano le edizioni scolastiche ricche di apparati, di suggerimenti di lettura, di esercizi che, da fresco insegnante, mi sarei ritrovato per le mani, di lì a una decina d’anni; a noi era stata consigliata una sobria edizione annotata Le Monnier, curata da Luigi Russo, di scarsa o nulla utilità per l’impiego didattico che ci veniva proposto, e che consisteva, in buona sostanza, nell’ora settimanale sui “Promessi sposi”. Quest’ora poteva essere dedicata alla lettura di un capitolo del romanzo, alla lettura dei nostri commenti su un capitolo del romanzo, all’interrogazione su un capitolo del romanzo: ad ogni modo, ogni settimana avevamo assegnato il commento di un capitolo del romanzo, un esercizio che, ogni lunedì pomeriggio, vivevo come un greve tributo, al quale avrei preferito di gran lunga qualche testo greco da tradurre in più.
Poiché la fantasmagorica cattedra del Ginnasio prevedeva che lo stesso docente facesse italiano, greco, latino, storia e geografia, dato che il tempo per farci imparare greco e latino pareva non bastasse mai. la lettura del romanzo, così come del resto lo studio della geografia, veniva sacrificata alle sacre esigenze delle declinazioni: niente di strano che a giugno finissimo la quarta Ginnasio, ma non la storia di Renzo e Lucia, per il cui completamento ci mancavano otto capitoli. Questi capitoli entrarono a far parte del dubbio lascito dei compiti della vacanze, e tra settembre e ottobre la nostra prof volle concludere il percorso manzoniano, richiamando il nostro lavoro estivo (come s’immaginava, o fingeva) attraverso un po’ d’interrogazioni.
Considerando, in vista di un’interrogazione, il capitolo conclusivo (che avevo letto d’estate, perché io son così, ci sono i compiti si fanno i compiti), mi tornò in mente questo passo in chiusa del terzo capitolo, che mi pareva una messa in guardia contro letture troppo ottimistiche degli intenti dell’autore verso un “lieto fine”, tanto più che Renzo e Lucia comunque avevano dovuto andare a farsi una vita lontano dalla loro terra d’origine. Esposi questo pensiero alla prof, che non ne fu tanto persuasa; in ogni caso, si trattò, per me, della via d’accesso vera al romanzo, che negli anni ho letto e riletto (capendo tra l’altro che si tratta di un testo che non può essere proposto a quattordicenni, per la sua complessa tessitura linguistica e strutturale).
Renzo vuole giustizia: va dall’Azzeccagarbugli a chiederla, e questo bel tipo, capendolo al contrario, prima lo prende per un malfattore inviato da qualche signorotto e in cerca di protezione legale (“con un po’ di spesa, intendiamoci”), quindi, afferrata la situazione, caccia lui e i suoi capponi; la giustizia, comunque, Renzo continua a chiederla e a chiedersela tra sé e sé. Lucia cerca i consigli di fra Cristoforo, rivelandosi in questo anche sagace investitrice dei propri beni (a fra Galdino, venuto in cerca di noci, ne regala una bella quantità, per convinta opera d’elemosina ma anche perché quello vada subito a chiamare il suo saggio confratello). Il capitolo si chiude mestamente, perché tutto è in subbuglio, e mentre Lucia si affida ai santi, Renzo si aggrappa alla frase che Manzoni chiosa come propria di chi, per dolore, non sa quel che dica: perché, in effetti, a questo mondo, alla fine, non c’è giustizia, ed è bene che ce lo teniamo chiaro, da subito, noi lettori. Cosa c’è invece? Serve leggere tutto il romanzo per avere un’idea di cosa avesse in testa l’autore.
Per fra Galdino l’ordine dei Cappuccini è come il mare, prende le elemosine e poi le redistribuisce, e anche la scuola è un po’ così, prende e dà. Arrivato in terza Liceo (cioè all’ultimo anno), il professore d’italiano, cui esposi (in forma più elaborata rispetto alla mia prima intuizione) la mia opinione su Renzo, la giustizia e il lieto fine che non mi pareva ci fosse, mi consigliò di andare nella biblioteca della scuola e prendere “Il romanzo senza idillio” di Ezio Raimondi.
Quel pomeriggio lessi d’infilata i due capitoli sulle avventure di Renzo e Lucia: “La ricerca incompiuta” e “Il miracolo e la speranza”, e fu un’agnizione.