Quaranta passi da “I promessi sposi”/7

(dal capitolo VI)

“Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men contraddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come un’eccezione? E ci sono dell’eccezioni alle regole più comuni e men contraddette? Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sé, se ne ha voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d’aver dei fatti da raccontare.”

Il capitolo VI del romanzo è attraversato da continui cambi di scena, la narrazione prende la velocità connessa alle molteplici macchinazioni che sono in movimento. Veloce, nervoso è il confronto tra fra Cristoforo e don Rodrigo: qualche cerimonia iniziale e poi è scontro vero -altro che il profluvio di chiacchiere dei commensali del capitolo precedente-, appena lasciato in sospeso dalla decisione del religioso di abbozzare e ritirarsi, cosa che gli consente di avere cognizione da un domestico di qualcosa di grave che si sta preparando.

Renzo e Agnese non sanno star fermi, Agnese ha cose da consigliare, Renzo da congegnare, ed eccolo far spola tra casa delle due donne, casa di Tonio, osteria e di nuovo casa di madre e figlia. Tutti, meno Lucia, si spostano e pensano e architettano, ci vuole, dice Agnese ripresa da Renzo, cuore e destrezza. Ma è una furbata, destrezza vuol dire il matrimonio a sorpresa, le cose da tacere a fra Cristoforo, tutte cose che a Lucia fan ripulsa: se non fosse che pure fra Cristoforo trae un’informazione decisiva (e sarà decisiva per tutta la successiva vicenda, altrimenti altro che fuga di Renzo e Lucia) da una furberia, quella del domestico che origlia i discorsi dei signorotti. Tante furberie, alcune cattive (quelle di don Rodrigo), ma altre a fin di bene, fatte fin dal venerabilissimo fra Cristoforo; ci sarebbe da pensarci su, ma Manzoni avverte il lettore: pensaci tu, io intanto ho questa storia da raccontare -e la storia è un guazzabuglio di cose cattive buone e furberie.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/6

(dal capitolo V)

“Impiccarli! impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti.

Chi, passando per una fiera, s’è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l’altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s’immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S’andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com’era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s’udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli.”

In uno dei racconti de “Le sere di Mulliner”, Jerome K. Jerome nota l’agilità mentale della compagnia che si riunisce all’Anglers’ Rest, capace di passare, nel corso di una discussione, dal destino ultimo dell’anima al modo di cucinare una pietanza.

Il tono, in quei testi, è incantevolmente svagato; tutt’altra cosa dalla conversazione che si svolge nella sala da pranzo di don Rodrigo, connotata di grevità sempre più marcata man mano che si procede. Il lettore vi si accosta accompagnando l’ingresso di fra Cristoforo, venuto a tentare un colloquio per risolvere la questione del matrimonio impedito: squallidi appaiono i dintorni, squallido il palazzo, forzata e triste la conversazione, sempre più etilica, dei commensali.

Al lettore d’oggi le parole del podestà, dell’Azzeccagarbugli, del conte Attilio emanano l’afrore delle trollate in cui capita d’imbattersi, su Facebook o su Twitter, tra gare a chi la dice più grossa, esibizioni insulse di cultura o affettate dichiarazioni di partigianeria politica.

C’è tanto frastuono, in questo capitolo,e il frastuono, come suole, converge in un centro di silenzio, che è quello dei due reali protagonisti, laconici: don Rodrigo e fra Cristoforo, gli unici che hanno davvero qualcosa da dirsi,e da dire: ma lo faranno in un’altra stanza.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/5

(dal capitolo IV)

“C’è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s’era fatto frate, né veniva a quell’umiliazione per timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti.

Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: – io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio –. Tutti gli occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un mormorìo di pietà e di rispetto.”

Il quarto capitolo del romanzo è tutto dedicato alla storia personale di fra Cristoforo. Si tratta di una vicenda che ha a che fare con molte cose del mondo: l’orgoglio, il ruolo sociale, la facile confusione tra giustizia e vendetta, i rapporti diplomatici tra ordini religiosi e nobili. Manzoni conosce tutto questo, così come ha presente il rischio della deriva apologetica della vicenda che vuole raccontare. Una cosa gli preme, però, più di tutte: pur essendo una storia che tocca molto la questione del potere e dei rapporti di forza tra gli uomini, non è questo il modo in cui si risolve. Il vecchio Ludovico, ora fra Cristoforo, entra nella casa nobiliare non per timore umano. Lo scrittore non aggiunge niente: al lettore sta provare a comprendere di che si tratti. Certo è che, nel momento di massima umiliazione, questa stessa diventa una forza difficile da definire, ma effettiva.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/4

(dal Capitolo III)

“– Buona notte, – rispose Renzo, ancor più tristamente.

– Qualche santo ci aiuterà, – replicò Lucia: – usate prudenza, e rassegnatevi.

La madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n’andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: – a questo mondo c’è giustizia, finalmente! – Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.”

Quando ho frequentato il Ginnasio (e per molto tempo ancora in seguito) la lettura del romanzo manzoniano era obbligatoria, e di solito si faceva già il primo anno (detto “quarta”, per tante ragioni di storia e di privilegi per fortuna antichi, se no avrei faticato a poterci andare, in quella scuola). Non esistevano le edizioni scolastiche ricche di apparati, di suggerimenti di lettura, di esercizi che, da fresco insegnante, mi sarei ritrovato per le mani, di lì a una decina d’anni; a noi era stata consigliata una sobria edizione annotata Le Monnier, curata da Luigi Russo, di scarsa o nulla utilità per l’impiego didattico che ci veniva proposto, e che consisteva, in buona sostanza, nell’ora settimanale sui “Promessi sposi”. Quest’ora poteva essere dedicata alla lettura di un capitolo del romanzo, alla lettura dei nostri commenti su un capitolo del romanzo, all’interrogazione su un capitolo del romanzo: ad ogni modo, ogni settimana avevamo assegnato il commento di un capitolo del romanzo, un esercizio che, ogni lunedì pomeriggio, vivevo come un greve tributo, al quale avrei preferito di gran lunga qualche testo greco da tradurre in più.

Poiché la fantasmagorica cattedra del Ginnasio prevedeva che lo stesso docente facesse italiano, greco, latino, storia e geografia, dato che il tempo per farci imparare greco e latino pareva non bastasse mai. la lettura del romanzo, così come del resto lo studio della geografia, veniva sacrificata alle sacre esigenze delle declinazioni: niente di strano che a giugno finissimo la quarta Ginnasio, ma non la storia di Renzo e Lucia, per il cui completamento ci mancavano otto capitoli. Questi capitoli entrarono a far parte del dubbio lascito dei compiti della vacanze, e tra settembre e ottobre la nostra prof volle concludere il percorso manzoniano, richiamando il nostro lavoro estivo (come s’immaginava, o fingeva) attraverso un po’ d’interrogazioni.

Considerando, in vista di un’interrogazione, il capitolo conclusivo (che avevo letto d’estate, perché io son così, ci sono i compiti si fanno i compiti), mi tornò in mente questo passo in chiusa del terzo capitolo, che mi pareva una messa in guardia contro letture troppo ottimistiche degli intenti dell’autore verso un “lieto fine”, tanto più che Renzo e Lucia comunque avevano dovuto andare a farsi una vita lontano dalla loro terra d’origine. Esposi questo pensiero alla prof, che non ne fu tanto persuasa; in ogni caso, si trattò, per me, della via d’accesso vera al romanzo, che negli anni ho letto e riletto (capendo tra l’altro che si tratta di un testo che non può essere proposto a quattordicenni, per la sua complessa tessitura linguistica e strutturale).

Renzo vuole giustizia: va dall’Azzeccagarbugli a chiederla, e questo bel tipo, capendolo al contrario, prima lo prende per un malfattore inviato da qualche signorotto e in cerca di protezione legale (“con un po’ di spesa, intendiamoci”), quindi, afferrata la situazione, caccia lui e i suoi capponi; la giustizia, comunque, Renzo continua a chiederla e a chiedersela tra sé e sé. Lucia cerca i consigli di fra Cristoforo, rivelandosi in questo anche sagace investitrice dei propri beni (a fra Galdino, venuto in cerca di noci, ne regala una bella quantità, per convinta opera d’elemosina ma anche perché quello vada subito a chiamare il suo saggio confratello). Il capitolo si chiude mestamente, perché tutto è in subbuglio, e mentre Lucia si affida ai santi, Renzo si aggrappa alla frase che Manzoni chiosa come propria di chi, per dolore, non sa quel che dica: perché, in effetti, a questo mondo, alla fine, non c’è giustizia, ed è bene che ce lo teniamo chiaro, da subito, noi lettori. Cosa c’è invece? Serve leggere tutto il romanzo per avere un’idea di cosa avesse in testa l’autore.

Per fra Galdino l’ordine dei Cappuccini è come il mare, prende le elemosine e poi le redistribuisce, e anche la scuola è un po’ così, prende e dà. Arrivato in terza Liceo (cioè all’ultimo anno), il professore d’italiano, cui esposi (in forma più elaborata rispetto alla mia prima intuizione) la mia opinione su Renzo, la giustizia e il lieto fine che non mi pareva ci fosse, mi consigliò di andare nella biblioteca della scuola e prendere “Il romanzo senza idillio” di Ezio Raimondi.

Quel pomeriggio lessi d’infilata i due capitoli sulle avventure di Renzo e Lucia: “La ricerca incompiuta” e “Il miracolo e la speranza”, e fu un’agnizione.

Quaranta passi da “I promessi sposi” /3

(dal capitolo II)

“Vedremo, – diceva tra sé: – egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo.”

Nel teatro mentale della sua veglia, don Abbondio rappresenta la messa in scena del’imbroglio che servirà a Renzo, dopo le minacce dei bravi.

C’è tutto: il calcolo all’ingrosso delle proprie buone ragioni, con il luccichio della buona ragione per eccellenza, sempre e ovunque -sfangarla (con, in più, quel po’ di presa in giro verso questo ragazzino sciocco, che pensa alla morosa); la squallida prepotenza data dalla miglior posizione nel mondo e dalla maggiore conoscenza (che porterà, di lì a poco, al raggiro tramite i tecnicismi del latino); la becera attitudine paternalistica e, da ultimo, il proverbio per eccellenza dei paraculi, “io non voglio andarne di mezzo”.

E, alla fine, don Abbondio non sarà neanche capace di farla bene, questa messinscena, così che si propone da subito come uno dei veri destinatari di tutto il sugo del romanzo: imparerà ad essere, se non coraggioso, perlomeno paraculo in maniera minore?

Quaranta passi da “I promessi sposi”/2

(Dal capitolo I)

– Ci penserò io, – rispose, brontolando, don Abbondio: – sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare – E s’alzò, continuando: – non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l’appunto a me.

– Mandi almen giù quest’altro gocciolo, – disse Perpetua, mescendo. – Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.

– Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: – una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà? – e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera.

Quando le cose diventano insostenibili, una scelta è nascondere la testa sotto la sabbia, fingersi immobili: o, come fa don Abbondio alla fine del primo capitolo, dopo aver ricevuto la minaccia dei bravi di don Rodrigo, mettersi a dormire, prendendo tempo e sperando in qualcosa (Enzo Jannacci: "Quelli che con una buona dormita passa tutto").

Il sonno (che sarà agitatissimo) di don Abbondio fa contrasto con la bucolica immagine d’avvio del capitolo, il ramo di Como eccetera eccetera, e la strada per arrivarci è una scelta precisa di Manzoni. Si inzia con la bellezza del paesaggio: poi, irrompe la storia, sotto la forma, anzitutto, della guarnigione di soldati spagnoli che insegnano la modestia alle fanciulle e carezzano le spalle agli uomini (Manzoni, immagino, avrebbe prodotto capolavori d’ironia, sull’odierna retorica della distorsione dei fatti): insomma, da una parte la bellezza della natura, dall’altra la durezza della storia. E dentro la durezza della storia stanno le storie delle singole persone, e dentro queste il fatto che don Abbondio incontri i bravi. E sta anche il fatto che i bravi dentro questa storia proprio non ci dovrebbero stare, ma leggi e leggine e provvedimenti e voce grossa di qualche governante non li hanno dissuasi neanche un po’, perché la storia, è chiaro da subito, è terreno di manipolazione retorica e d’ingiustizia.

E così don Abbondio va a dormire, sperando che la notte cambi qualcosa, come ci capita spesso. Ma invece.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/1

(Quaranta giorni di Quaresima e altrettanti passi dal “niente-meno-che-un-romanzo”)

(Dall'”Introduzione”)
“Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella.”

Ampia e complessa, l’introduzione al romanzo; gioco di specchi tra l’autore del manoscritto e l’autore del romanzo, tra storia e invenzione, lingua desueta (e desueto orizzonte culturale) e lingua e cultura d’oggi: tutte questioni che meritano attenzione e riflessione e hanno ancora molto, molto da dire.
Dentro questo groviglio, la domanda. fondamentale: ma è una storia che val la fatica di raccontare?
E la risposta è sì: perché è bella.