A scuola dal Soldato Somacal Luigi

C’è un passo di uno scrittore italiano del giro dei Vociani, che ho letto per la prima volta preparando letteratura italiana all’Università.
Il testo è, anche, una testimonianza non retorica sulla Prima Guerra Mondiale, apparentato col più famoso libro di Emilio Lussu (“Un anno sull’altopiano”); a me, però, è sempre parso tante altre cose, soprattutto una scheggia di quello che può essere scoprire nell’altro il “prossimo”. Anche, mi è sempre parso testimonianza del senso di servizio che chi ha più strumenti culturali debba a quanti ne hanno meno, e in questa declinazione ha molto influenzato il percorso che mi ha condotto a diventare insegnante.
Ora, che sono un modesto dirigente scolastico,  sempre in bilico sul diventare un esecutore di adempimenti, questo testo mostra di avere sempre tante cose da insegnarmi.
Pietro Jahier, “Con me e con gli alpini”: il Soldato Somacal Luigi. È un po’in ho,  ma le cose corte e brevi mica son sempre quelle giuste.

“Il soldato Somacal Luigi da Castion recluta dell’ 84, 3 categoria era stato cretino dalla nascita e manovale fino alla chiamata. Cretino vuol dir trascurato da piccolo, denutrito, inselvatichito.
Manovale vuol dir servo operaio, mestiere sprezzato. Il suo lavoro consisteva in nulla essere tutto fare. Ne porta i segni il corpo presentato alla visita militare.
Somacal ha offerto alla patria un fardello di ossa tribolate in posizione di manovale.
Sporge in fuori l’osso dell’anca che aiuta a camminar sciancati quando si deve equilibrare la secchia di calcina; gli ingranaggi dei suoi ginocchi pesanti gonfi di nocciolini reumatici empiono i pantaloni; il suo busto una groppa che aspetta in eterno di ricevere pesi; la testa si rannicchia fra le spalle come cosa ingombrante, perch un uomo che porta, la testa gli d noia; le sue mani di corame chiaro stringono sempre il badile; lo sguardo cerca terra: per non inciampare. Questa la posizione del manovale in cui Somacal si presentato.
Somacal deve star sulla posizione di attenti, invece. E che cos’ la posizione di attenti che dovete prender subito voi, se siete buon militare se non: le calcagna unite sulla stessa linea, le punte dei piedi egualmente aperte e distanti fra loro quanto lungo il piede, le ginocchia tese senza sforzo, il busto a piombo, il petto aperto, le spalle alla stessa altezza, le braccia pendenti, le mani naturalmente aperte con le palme rivolte verso le cosce, le dita unite pollice lungo la costura laterale dei pantaloni, la testa alta e diritta, lo sguardo diretto avanti?
La posizione di attenti la negazione della sua vita.
Somacal vorrebbe essere buon soldato, poich un mestiere che consiste nel passeggiar col fucile e vi passano la minestra il pane e il vestito come agli altri tale e quale, (lui che non gli toccava che resti quand’era in squadra operaia), ma il suo corpo tutte queste cose non le pu fare.
Prova l’attenti, prova il saluto, ma quando gli pare di esser riuscito, la mano non resiste pi a mantenersi tesa, le ginocchia cominciano a tremare (vieni presto, caporale, a verificare) e quando il caporale arriva a lui, tutto ha ceduto. E’ tornata la posizione di manovale. Somacal in uniforme un burattino. Il caporale lo tira fuori dai ranghi, lo fa marciar solo; e ridono tanto i suoi paesani cottimisti con lui per la Germania, perch l’ qu Somacal che era anche allora una mcia. Ci vuole in carovana, per sopportar la fatica.
Infine Somacal interrogato e, parlando, scopre l’ultima qualit di burattino: ha anche la lisca Somacal Luigi.
Per essere completo. Somacal gli hanno impedito di imparar l’operaio perch era cos buon manovale. Ora gli impediranno di imparare il soldato per serbarlo ridicolo. Ci vuole, in camerata; una mcia per sopportare la noia.
E’ vero che Somacal si rinfagotta, che non sa farsi la cravatta (perch non si deve sforzar il collo chi vuol portare), che si mette il cappello torto (perch impossibile che sul suo cappello ci sia un fregio); ma se c’ una giacca macchiata alla vestizione finir certo sulla groppa di Somacal Luigi; sar suo il fucile che non ha tempo, fucile scappatore; e la scarpa del gigante che nessuno ha voluto, e la borraccia che geme; mentre sar di tutti, invece, il suo barattolo di grasso che tesorizzava nel buco del tavolato, o il suo stoppaccio per nettare il fucile.
Su Somacal tutti si arrangiano; una festa quando viene ripreso: ora ci far ridere, il nostro burattino.

Ma appunto perch si sente burattino, diventare un soldato ammodo la gloria. C’ speranza di riuscire. Il suo tenente non ha riso quando l’ha guardato; anzi ha detto che un soldato non conta per quel che l’han fatto i suoi parenti, ma per quello che sa diventare.
E’ un tenente che conosce: manovale ha detto come la donna di casa che anche se fa tutto non riconosciuta, ma poi, quando si soldati e oggi manca il bottone, e domani il fondo della mutanda partito: ah! si dice ghe voleva la femmena, qua via.
C’ speranza. Per due, per quattro sar troppo difficile ancora. Ma ci son delle cose intanto, da poter imparare.
Somacal imparer, intanto, a far bene quello che nessuno fa perch tutti lo sanno fare: correr fuori tra i primi all’ adunata; arronciglioler le c i g n o l i n e ;
ramazzer per levare il sudicio e non per farlo sparire.
Poi imparer gli esercizi quando tutti li san no fare e sbagliano perch tanto li sanno fare Somacal, che sta attento, li far bene, allora Non sar pi tirato fuori per marciare di fronte guida destr Ocio Somacal, vegn fora v; no st a far confusion, diceva il caporale. Ora: numero uno o numero due Somacal sa sparire. Forse il tenente che conosce si accorger che ha migliorato.
Poi la marcia; ma per la marcia non ha da imparare: si tratta di andar sotto il peso: una cosa di prima.
Poi imparer a tener pulito il fucile; nessuna canna lustrer come la sua: fategli ispezionarm: ecco la luminosa spira delle quattro rigature. Somacal tranquillo: sul fucile non ci sar osservazione. Lo sa lui che i granellini di polvere non ci possono entrare (tappato, in camerata, ma non lo dite: proibito).
Ormai Somacal sta per riuscire soldato. Ma invece, pervenuto a questo punto, ecco che non pu pi bastare. Ecco ancora qualcosa di nuovo. Ecco il Tiro. Il fucile non era fatto per crociatet e ispezionarm, ma per tirare. E Somacal non pu tirare.
Somacal ha dovuto tener sempre aperti bene i due occhi in vita e invece al Tiro di recluta bisogna chiuderne uno.
Impossibile farlo stare. Se provi a tapparlo con una mano, come farai a sbarare?
E se rivolti il cappello e lo tappi colla tesa non basta ancora. Quel cane di occhio seguita a vedere. Bisogna bendarlo col fazzoletto. Unico rimedio.
Dunque Somacal si avanza verso la stazione di tiro bendato stretto, come a mosca cieca. ah! se il tenente non lo vedesse! ah! se lo lasciassero accomodar tranquillo a suo modo. E proprio lo hanno lasciato e ha fatto 30, Somacal Luigi.
Ed successa la cosa meravigliosa. Che il suo tenente lo ha visto e si avvicina. Che non si avvicinato per rimproverare; che lo ha chiamato SOMACAL LUIGI; che viene per parlare a lui che vorrebbe esser sottoterra invece: Ocio Somacal, la posision d’atenti ora.
Che ha chiamato anche il capitano: Ocio, Somacal, sguardo diretto avanti all’infinito. Ecco il mio amico Somacal che ha fatto trenta, dice il tenente. Dice proprio amico. Amico, lo chiama, anche dopo. Perch anche lui ha cercato come Somacal di imparare la vita. Gli dar il permesso, scriver alla sua donna di accoglierlo bene perch un buon soldato, suo amico.
È allora che Somacal ha inaugurato il suo nuovo sguardo di redenzione. Non possiamo descriverlo noi che non siamo stati redenti mai. E’ una cosa nuova: non l’aveva mai fatta vedere perch nessuno ne aveva cercato.
Ma doveva averla pronta sotto quegli occhi d’angelo serafico montati in un viso di cretino pellagroso. E’ allora che Somacal ha smesso di ridere.
Somacal sorride al suo tenente, invece: sempre, quando lo incontra, lo porta in alto nei cieli dell’amore con quel sorriso di redenzione.
E’ allora che Somacal siccome si sente felice riesce a non farsi riformare.
I nocciolini reumatici lo mandano due volte sotto rassegna, ma Somacal torna Alpino.
Gli scoprono un fi de gola grossa (gozzo) laggi all’Ospitale. Ma Somacal resta alpino. Non per la patria. Somacal non sapr mai cos’ Patria. Ma perch si sente
in un’aria buona. Vorrebbe rimanere in quell’aria buona fino alla fine. Vorrebbe sentirsi ripetere che il suo amico.
Purch lo dica ancora: sei il mio amico. Certo, Somacal, soldato stronco, uomo zimbello, sei il mio amico. Ho trovato vicino a te l’onore d’ Italia. Dico che in basso l’onore d’Italia, Somacal Luigi.”

Ippone. Dialogo di Socrate e di Euripide su telefonini e rete

E. -Qual ventura, il nostro caro Socrate. A quest’ora del mattino per la via del Pireo?
S. -Mio buon Euripide, vado al centro commerciale del Pireo a comperare un nuovo telefonino.
E. -Gran cosa mi dici. Il sommo indagatore delle ragioni di vita degli Ateniesi -cosa sia il bello, il giusto, il vero- desidera un telefonino? E che mai, in più, te ne verrà?
S. – Eccellente amico, che impedimento darebbe un telefonino nella mia ricerca su bello, giusto e vero? Perché se impedimento ci fosse, certo tu avresti ragione.
E. – O Socrate, nell’agorà si dice che i telefonini distraggano le persone e le isolino.
Conosci di certo quelli che nel futuro (in cui scrive chi si è inventato questo modesto dialogo) saranno detti “social network” con nomi di una lingua delle terre degli Iperborei: Whatsapp, Facebook ad esempio.
S. -Certo li conosco, e col telefonino nuovo li userò, anzi, lo compro per questa ragione. Non pensi che sia una buona cosa poter contattare Critone, Menone, Senofonte e il giovane Platone e accordarci con loro per le nostre conversazioni? O conversare così?
E. -Ma Socrate, col telefonino potresti anche distrarti navigando sulla rete, e imbatterti o divulgare contenuti offensivi.
S. -Mio buon Euripide, ti dirò questo.
Guarda qui: cosa vedi?
E. -La tua mano destra, o Socrate.
S. -Concorderai che poter fruire di una mano sia buona cosa, Euripide.
E. -Senza dubbio, o Socrate.
S. -E cosa si può fare con una mano? Solo cose buone o solo cose non buone?
E. -Cose buone e non buone. Stringere mani o recare violenza, ad esempio.
S. -E dunque, o Euripide. Cosa renderà buone o non buone le azioni della tua mano destra? La mano, o Euripide?
E. -Di certo non la mano, ma la mia decisione.
S. -E la tua decisione è tra fare bene o non bene, ne convieni?
E. -Di certo, o Socrate.
S. -Ebbene. La distrazione e l’isolamento e i contenuto offensivi che tu cerchi nel telefonino, stanno nella scelta che spetta ad ognuno, e ad ognuno e non al suo telefonino tocca il compito di comprendere ciò che è bene o male.
E. -Ne convengo, o Socrate.
S. -E la scelta s’impara ricercando con gli altri uomini e scegliendo in mezzo a loro.
E. -Certamente, Socrate.
S. -E questa è opera d’uomini, e non di telefonini.
E. -Concordo.
S. -E dunque andiamo a comperare questo telefonino nuovo, mio amico caro.

Il Liceo senza nome di Pordenone

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In occasione della “Notte bianca dei licei classici” il mio amico e collega Paolo Venti ha raccolto un meraviglioso volumetto di testimonianze e documenti sui cinquant’anni di storia del Liceo Leopardi – Majorana di Pordenone. Quello che segue è il mio contributo.

Per andare da Pordenone a Firenze si partiva alle otto e un quarto e si impiegavano sei ore, e per arrivare su quel treno, in una mattina fresca e soleggiata di mezzo aprile, quanto c’era voluto? C’era voluta un’idea del Preside Luminoso (-L’ Associazione Italiana di Cultura Classica promuove un Certamen…) e poi c’era voluto qualche mese, fermandomi a scuola a settimane alterne dopo la fine delle lezioni per vedere insieme al Prof. Collaoni le mie traduzioni (meglio: i miei tentativi di…) dal greco al latino. Avevo cominciato a dicembre, e lavoravo sul mio scrittoio a ribalta con il Rocci ricopertinato (un lavoro di precisione della Tipografia Trivelli, grazie al quale il mio vocabolario si liberò della sua debolissima copertina plasticosa in favore di un solido rivestimento in tela rigida) a sinistra ed il Castiglioni-Mariotti a destra, orientandomi tra le grandi questioni (che allora mi parevano grandi, in altri anni della vita mi parvero secondarie, ora tornano a sembrarmi, per motivi diversi, grandi): come costringere i genitivi assoluti del greco verso la precisione dell’ablativo assoluto latino? Come districare la sintassi del periodo greca nelle limpide strutture della consecutio? E soprattutto: come evitare di distrarsi nelle concordanze?

In questo lavorio tra tre lingue, ché l’italiano stava sempre in mezzo, per riformulare passi o passaggi o per ponderare rese lessicali, il mio rapporto col greco e col latino si faceva più pensoso (rovinosamente per la mia vita –ma questo è altro discorso) e famelico: possibile che non si trovassero in italiano sintassi greche decenti, ad esempio? In mezzo a queste cose, stette, in gita a Parigi (una gita estorta con sapienza diplomatica da Francesco Furlan, il nostro efficientissimo rappresentante di classe), la spedizione alla Presse Universitaire Francaise a comperare, per il Prof. Collaoni, i due volumi del “Dictionnaire etymologique de la langue grecque” di Chantraine, su cui solo fare scorsa dei lemmi e delle ramificazioni era apertura di paradisi mentali (e non fu caso che il primo regalo che mi feci, ottenuta la cattedra, qualche anno, dopo, fu proprio lo Chantraine; e su quella nitida e sobria libreria parigina avrei pure da dire, con l’agnizione di me stesso che ne ebbi trent’anni dopo, facendo scorrere le ante del settore dei classici, quando la rivisitai in compagnia di mio figlio).

Ma devo ancora salire su quel treno, e lo faccio ora, col borsone da viaggio pesantissimo, visto che i vocabolari pesavano e pesano, con dentro le mie provviste per il viaggio e un po’ di cose da leggere: le versioni appena tradotte, il libro di Vincenzo Di Benedetto su Eschilo. In viaggio, peraltro, cominciai a leggere con la lettura mia solita, cioè quella di Repubblica –non quella platonica, quella scalfariana: c’erano elezioni politiche imminenti, e si dà il caso che io avessi appena compiuto diciotto anni, e che avrei esercitato, si sperava con responsabilità, il mio diritto di voto.

Arrivato a Firenze m’incamminai verso la scuola, una scuola Pia e Fiorentina dove fui accolto in un chiostro. Un impiegato scorreva una lista scritta, più che altro, a mano e trovò il signor Diterrizzi (-Possiamo correggere, per favore?) Pierfrancesco (come sopra) che veniva dal Liceo Ginnasio di Pordenone (-Abbia pazienza, non c’è il nome del Suo Liceo. -E infatti. Liceo Ginnasio Statale di Pordenone, senza nome.) E tra Petrarchi e Danti e Parini e Machiavelli, così stava incantucciato il mio liceo sconosciuto e anonimo.

Dal chiostro, mi spostai verso la pensione dov’ero ero alloggiato, facendo il tratto di strada con due altri partecipanti al Certamen. Loro erano di Reggio Calabria e citavano ad ogni istante Alfieri, anzi erano venuti a Firenze soprattutto per quello e per andare subito ad omaggiarlo in Santa Croce. Erano i primi concorrenti al Certamen che incontravo, e mi dissi che, fossero stati tutti così, potevo starmene ben fresco.

La pensione dava su Ponte Vecchio, che, assolato e pieno di turisti com’era, riverberava il suo color mattone nel pomeriggio fiorentino. Dentro, il luogo era un intrico di cunicoli che davano su stanze e stanzette. Quella cui giunsi alfine dava su un vicoletto oscuro, che si chiamava via dei Georgofili: e dieci anni dopo il vicoletto sarebbe, da oscuro, diventato cupamente famoso, per motivi ben diversi dalla sua quiete da stradina di mero passaggio. Il mio compagno di stanza veniva dalla Puglia e si chiamava Carlomagno (di cognome), e stava riorganizzando in fretta la preparazione per l’esame di maturità, avendo scommesso tutto sulla seconda materia, che poi non era uscita. L’elenco dei libri che andava leggendo mi sgomentava.

Frastornato da tante e divergenti bravure, uscii e tornai al sole di quel sabato, dirigendosi verso Giunti-Marzocco, segnalatami come libreria imperdibile dal mio professore d’italiano, Carlo Vurachi.

Lo era. La sezione dedicata ai classici ospitava uno dietro l’altro, talora intonsi, alcuni dei libri di cui avevo gustato solo brevi frammenti antologici nei miei manuali. Me ne tornai con “Miti e coscienza del Decadentismo italiano” di Salinari, che a cena (la solita cena da gita scolastica: pollo simillessato e patatine similfritte) diede origine a una breve discussione tra il mio compagno di stanza ed un liceale milanese (era proprio giusto derubricare a “mito” nel senso riduttivo che Salinari gli attribuiva uno come Pascoli? Ennó…io continuavo a sbigottire).

Insomma, la sera continuò e si parlò pure d’altro, con l’arrivo di altri studenti dai licei coi nomi sonori ed altre storie di studi, di ubbie e di talenti, ed io non sbigottivo più, erano tutti bravi e c’era un sacco di cose da imparare. La sala di quel desco inadeguato in quella pensione labirintica si ravvivò e ci fu possibile meglio gustare quello che avevamo alle spalle: un affaccio, meraviglioso, sul Ponte Vecchio. Un affaccio chesarebbe diventato famoso grazie al film di Ivory, qualche anno dopo.

Ma non era ancora il momento, di questo, e di tutte le bellezze e le brutture pubbliche e private che vennero. Era una sera d’aprile, e l’unica cosa che ancora sapevo era che venivo dal Liceo, senza nome, di Pordenone.
Raramente di me ho saputo così tanto; così bene.