Quaranta gioni con la Storia della colonna infame/4

Oggi parliamo delle parole che durano più del bronzo e della passione filologica di Manzoni.

 

Introduzione, pp. 13-15

I Promessi sposi si aprono con un atto di filologia immaginaria, quello per il quale Manzoni ci racconta di aver trovato il manoscritto dell’anonimo seicentista; l’introduzione alla Storia della colonna infame ci porta invece ad un manoscritto reale…ma perduto: l’originale atto del processo, che l’autore ci spiega di aver cercato, di non aver trovato, di ritenere sia andato perduto.

Si tratta di una storia filologica che a Manzoni preme spiegare con cura. Egli ha potuto disporre del testo a stampa della difesa di uno degli imputati, corredato di un estratto del processo:

“Tra que’ miseri accusati si trovò, e pur troppo per colpa d’alcun di loro, una persona d’importanza, don Giovanni Gaetano de Padilla, figlio del comandante del castello di Milano, cavalier di sant’Iago, e capitano di cavalleria; il quale poté fare stampare le sue difese, e corredarle d’un estratto del processo, che, come a reo costituito, gli fu comunicato.”(p. 14)

 

Una copia manoscritta di quest’estratto giunge a Pietro Verri, ed è messa a disposizione dal figlio di questi a Manzoni, che se ne avvale per il suo lavoro:
“Di quest’estratto, c’è di più un’altra copia manoscritta, in alcuni luoghi più scarsa, in altri più abbondante, la quale appartenne al conte Pietro Verri, e fu dal degnissimo suo figlio, il signor conte Gabriele, con liberale e paziente cortesia, messa e lasciata a nostra disposizione.”
(p. 14)

 

Manzoni ispeziona con attenzione questa copia, notandone la ricca postillatura, che attribuisce, dati i contenuti, al difensore dell’imputato; si tratterebbe, insomma, della copia di lavoro che l’avvocato fece per disporre la propria linea d’azione:

“ ci si trovan per esteso molte cose delle quali nell’estratto stampato non c’è che un sunto; ci son notati in margine i numeri delle pagine del processo originale, dalle quali son levati i diversi brani; ed è pure sparsa di brevissime annotazioni latine, tutte però del carattere stesso del testo: Detentio Morae; Descriptio Domini Johannis; Adversatur Commissario; Inverisimile; Subgestio, e simili, che sono evidentemente appunti presi dall’avvocato del Padilla, per le difese.”(p. 14)

 

Manzoni nota anche che il manoscritto messogli a disposizione dal figlio di Pietro Verri è in alcuni casi più ampio, in altri più succinto del testo a stampa dell’estratto, ed avanza l’ipotesi che il testo a stampa sia frutto di una selezione del testo originale degli atti del processo. E non solo: Manzoni, confrontando il testo a stampa col manoscritto, ritiene che il difensore abbia potuto accedere in due diversi momenti al testo del processo:

Da tutto ciò pare evidente che sia una copia letterale dell’estratto autentico che fu comunicato al difensore; e che questo, nel farlo stampare, abbia omesse varie cose, come meno importanti, e altre si sia contentato d’accennarle. Ma come mai se ne trovano nello stampato alcune che mancano nel manoscritto? Probabilmente il difensore poté spogliar di nuovo il processo originale, e farci una seconda scelta di ciò che gli paresse utile alla causa del suo cliente.” (pp. 14-15)

 

Manzoni si accosta con cura, dunque, alla sua fonte; non può raggiungere il testo originale, dispone di un estratto a stampa e di un manoscritto, in relazione che, come si è visto, egli comprende essere non così automatica come si potrebbe credere. Manzoni, qui, agisce da filologo moderno, che s’interroga sulla natura del documento e sulla sua storia: par davvero di vedere l’avvocato che trae l’estratto, lo annota, sceglie cosa stampare. C’è davvero, attraverso le parole, la storia che le accompagna e le sostiene; una storia importante, perché le parole hanno un’importanza fondamentale, come l’autore stesso nota a proposito della stampa della difesa dell’imputato:

“E certo, que’ giudici non s’accorsero allora, che lasciavan fare da uno stampatore un monumento più autorevole e più durevole di quello che avevan commesso a un architetto.” (p. 14)

I giudici non sapevano che le parole, per dirla con i versi di Orazio che Manzoni ha in mente scrivendo questo passaggio, costruiscono un monumento più duraturo del bronzo.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/3

Oggi si parla di quanto sia difficile e necessaria la complessità, e di come una tesi va tenutaprotetta sia dai suoi detrattori, che dai suoi sostenitori

Introduzione, pp. 12-13

Dopo aver affrontato la questione, decisiva, del libero arbitrio, Manzoni ritorna alle intenzioni che avevano mosso il saggio di Pietro Verri. Lo scrittore non esclude che il suo predecessore avesse ben presente che le azioni dei giudici fossero mosse da iniquità personale, ma ritiene che dare troppo spazio a questo tema avrebbe indebolito il suo scopo, cioè combattere l’uso della tortura. Infatti, i sostenitori di quella avrebbero potuto vederne confermata la necessità, facendo spostare l’attenzione sulle responsabilità delle persone:

“I partigiani della tortura (ché l’istituzioni più assurde ne hanno finché non son morte del tutto, e spesso anche dopo, per la ragione stessa che son potute vivere) ci avrebbero trovata una giustificazione di quella. — Vedete? — avrebbero detto, — la colpa è dell’abuso, e non della cosa. —” (p. 13).

D’altra parte, nota l’autore, anche i sostenitori dell’abolizione della tortura avrebbero visto meno forza per i loro argomenti, se Verri avesse sottolineato troppo le responsabilità personali:

“E dall’altra parte, quelli che, come il Verri, volevano l’abolizion della tortura, sarebbero stati malcontenti che s’imbrogliasse la causa con distinzioni, e che, con dar la colpa ad altro, si diminuisse l’orrore per quella.” (p. 13)

Questa duplice difficoltà proposta sia dai sostenitori, che dagli oppositori all’uso della tortura, costringe Verri -chiosa dunque Manzoni- ad adattare l’esposizione della vicenda, tenendo conto dello scopo comunicativo che si è dato:

“chi vuol mettere in luce una verità contrastata, trovi ne’ fautori, come negli avversari, un ostacolo a esporla nella sua forma sincera.”(p. 13)

Le distinzioni, come Manzoni le chiama, altro non sono che la manifestazione della complessità: che è bene avere a mente, ma che è difficile esporre nella sua interezza, quando ci si trova in mezzo agli schieramenti di coloro che portano tesi precostituite.

In queste righe, dunque, Manzoni sviluppa un germe di trattato sull’efficacia della comunicazione, suggerendo implicitamente la collocazione del lavoro di Verri rispetto al proprio: collocato dentro un contesto dialettico quello, più lontano dagli eventi  il suo.

Ma Manzoni non sarebbe lo scrittore della dissimulazione romanzesca (per usare la bella espressione che dà il titolo ad un saggio di Ezio Raimondi –La dissimulazione romanzesca, Antropologia manzoniana, Bologna, Il Mulino, 1990), se non conducesse il lettore a cogliere, ellitticamente, un ulteriore passaggio. Al di là degli opposti schieramenti, lo scrittore sa che, rispetto alla verità dei fatti,

“È vero che gli resta quella gran massa d’uomini senza partito, senza preoccupazione, senza passione, che non hanno voglia di conoscerla in nessuna forma.” (p. 13)

Scrivere il saggio storico è, dunque, operare per ridestare cura, conoscenza e passione della gran massa di uomini che, per propria inclinazione, se ne starebbe ben lontano.

 

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/2

Oggi parliamo di libero arbitrio.

 

Introduzione, pp. 11-12

Dopo aver individuato nella rabbia e nel timore le passioni perverse che hanno attraversato quanti furono protagonisti della condanna degli untori, e dopo aver attribuito alla propria operazione letteraria la finalità catartica di consentire al lettore di riconoscere quelle disposizioni, avvertirle come possibilità e quindi rifuggirle, l’autore passa a definire una questione, per lui, ancora più importante. Se gli eventi dolorosi, che sono oggetto della narrazione,  fossero avvenuti come conseguenza automatica dell’ignoranza dei tempi e della barbarie delle leggi, non ci sarebbe nessuno spazio per l’esercizio della scelta da parte degli uomini:

 Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi.” (p. 12)

Non ci sarebbe, quindi, nessuna possibilità per il libero arbitrio, ma solo la cieca realizzazione di determinate premesse causali. Se non ci fosse il libero arbitrio, aggiunge Manzoni,

cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla.” (p. 12)

Il libero arbitrio, invece, apre lo spazio della responsabilità dell’uomo nella scelta tra bene e male, nella convinzione che quegli accusatori

se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa” (p. 12).

L’indagine sui fatti del processo agli untori diventa così, per lo scrittore, anche un’indagine metafisica: lo spazio di esercizio della propria libertà è quello che sottrae l’uomo al meccanicismo, sia esso di origine divina o deterministica, e che, per altro verso, rende pensabile, secondo l’autore, la dimensione provvidenziale, anch’essa, quindi, tutt’altro che meccanicistica, e che è uno dei temi decisivi de I promessi sposi, soprattutto grazie a Lucia: sull’argomento, pagine illuminanti ha scritto Ezio Raimondi (Il romanzo senza idillio. Saggio sui “Promessi sposi”, Torino, Einaudi, 1974; il capitolo “Il miracolo e la speranza”).

 

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame /1

Vorrei attraversare il tempo di Quaresima condividendo, con chi vorrà seguirmi, la lettura della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Ne leggerò qualche pagina, continuativamente, per i giorni di questo periodo; alla fine, proverò a mettere insieme le riflessioni suggerite dal percorso.

Due parole, per cominciare.

Il testo presenta una ricerca storica dello scrittore, sul processo tenutosi a Milano nel 1630 contro gli untori, coloro i quali erano accusati di aver propagato la peste, che costituisce l’evento storico fondamentale entro il quale si svolgono le vicende dei Promessi sposi.

La narrazione letteraria di come gli uomini reagiscano alle epidemie, e di come ne vengano trasformati, inizia, nella letteratura occidentale, con il suo stesso avvio, cioè coi versi di apertura dell’Iliade (Libro I, versi 1-20), laddove i capi achei si confrontano sulla malattia che Apollo ha  diffuso tra i loro uomini. Tra tanti importanti testi, quello di Manzoni è segnato, fin dalle sue prime parole, dall’urgenza di entrare dentro il grumo delle passioni umane e di provare a capirle.

Egli meditò queste pagine, le scrisse e riscrisse, a lungo: già nel Capitolo IV del IV tomo del Fermo e Lucia, Alessandro Manzoni fa riferimento ad un lavoro aggiuntivo, dedicato alla vicenda dei processi agli untori. Il progetto di pubblicare questa storia in appendice all’edizione del 1827 de I promessi sposi fu abbandonato probabilmente per motivi di prudenza (per non esporsi alla censura austriaca), come sostiene, tra gli altri, Carlo Dionisotti (Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 251-sgg.), così che essa apparve soltanto con l’edizione “quarantana” (1840-1842) del romanzo.

Per chi volesse, il testo è disponibile gratuitamente su www.liberliber.it, in vari formati. Farò riferimento alla numerazione di pagina del PDF.

Un’edizione con utilissime espansioni online è: Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, a cura di Giovanni Albertocchi, Edimedia, 2019.

 

Iniziamo.

 

Introduzione, pp. 7-11

1. Lo scrittore ci porta dentro il nucleo narrativo con due periodi iniziali, uno contrapposto all’altro, secondo un effetto di ricercata asimmetria, per il quale ad un’ampia impostazione dell’argomento segue una constatazione dall’impatto icastico:

“Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena.

E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.” (p. 7)

La prima frase ha le movenze del latino classico, con la forza del dominio della sintassi del periodo e l’efficacia dell’uso del congiuntivo; la ricerca dell’ampiezza, del senso progressivo dell’accrescimento: è segnalata anche dall’ uso di “talmente/di più”. L’“E” che avvia la frase successiva fa quasi esplodere tutta l’impalcatura, con un effetto sottilmente ironico.

 

2. Manzoni esordisce scusandosi per l’eventuale sproporzione tra la relativa brevità dell’opera e le aspettative dei lettori, che dai riferimenti nel capitolo XXXII dei Promessi sposi potrebbero essere stati indotti ad aspettarsi un ben più ampio svolgimento. Quello che importa, però, è che questo lavoro sia utile:

E basterà un breve cenno su questa diversità, per far conoscere la ragione del nuovo lavoro. Così si potesse anche dire l’utilità; ma questa, pur troppo, dipende molto più dall’esecuzione che dall’intento. (p. 8)

 

3. Manzoni rimanda all’antecedente che il suo lavoro evoca, cioè le Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri. Dal confronto con il suo predecessore, lo scrittore trova alimento per definire meglio il suo intento. Lo scritto dell’Illuminista lombardo aveva come nucleo d’ispirazione la dimostrazione che il processo era segno d’ignoranza dei tempi e di barbarie del diritto; a Manzoni interessa invece qualcosa di più generale:

“c’è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa, prendendo per cagioni di esso l’ignoranza de’ tempi e la barbarie della giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario; che sarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile insegnamento. L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé” (p. 8)

Ignoranza e barbarie non bastano a spiegare quanto avvenne; le istituzioni non determinano una propria, necessaria, e quasi cieca applicazione. Il centro della questione è l’iniquità di quanto accadde.

 

4. Lo sguardo di Manzoni si volge dunque alla ricerca dell’ingiustizia che si manifestò in quella vicenda; un’ingiustizia tangibile a prescindere dalle condizioni dei tempi, frutto di decisioni, pressioni, scelte. Lo scrittore nota che pur nell’ignoranza scientifica e nella barbarie del diritto i giudici si dovettero sforzare per costruire il loro castello accusatorio:

“per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia.” (p. 9)

 

5.Manzoni svela l’oggetto della sua investigazione: la manifestazione di qualcosa che alberga nell’esperienza degli uomini, le “perverse passioni”:

Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse? (p. 9)

 

6. Due passioni, in particolare, stanno alla base delle decisioni dei giudici: una è la rabbia, per il dolore che la peste infligge, e che li porta a cercare colpevoli; l’altra è il timore di contraddire le aspettative di vendetta della massa: un timore che, come è stato notato da Pierantonio Frare (La scrittura dell’inquietudine. Saggio su Alessandro Manzoni, Firenze, Olschki, p. 67-sgg.), Manzoni tratteggia avendo bene in mente un modello fondamentale di assecondamento dei desideri delle masse, il comportamento di Pilato nel processo a Gesù:

“Ma la menzogna, l’abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura, son cose che si posson riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si posson riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; né, per ispiegar gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne potrebbe trovar di più naturali e di men triste, che quella rabbia e quel timore.” (pp. 10-11)

 

7. Per Manzoni, a questo punto, non si tratta solo di aver messo in chiaro la linea d’ispirazione della propria ricerca, cioè l’osservazione di come passioni perverse guidino i comportamenti pubblici degli individui:

“Noi, proponendo a lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra orrori già conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e non ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne ogni volta, si rivolgeranno anche, e principalmente, contro passioni che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle.” (p. 11)

Manzoni immagina di potere, attraverso la sua narrazione, effettuare una sorta di cura delle passioni: riconoscendole -cioè capendo che esse sono proprie dell’esperienza umana, e dunque possono presentarsi nella stessa nostra esperienza- è possibile, in qualche maniera, depotenziarne l’impatto. I lettori del testo saranno dunque chiamati a vedere all’opera queste passioni, a riconoscerle come possibili nella loro stessa vita, e a prenderne così le distanze, secondo un effetto che richiama la dinamica della catarsi tragica nella Poetica di Aristotele, in particolare 1449 b: “La tragedia è dunque imitazione di una azione nobile e compiuta, avente grandezza, in un linguaggio adorno in modo specificamente diverso per ciascuna delle parti, di persone che agiscono e non per mezzo di narrazione, la quale per mezzo della pietà e del terrore finisce con l’effettuare la purificazione di cosiffatte passioni.