Non ci si arriva da soli (la città e il voto)

La parola voto viene dal latino votum, che è una promessa fatta agli Dei. Nell’esperienza occidentale,  però, dobbiamo andare più indietro, a scuola -come accade sovente in questi ambiti- dei Greci del V secolo: degli Ateniesi, per essere più precisi (e non ė una novità). Lì, voto è psephos, cioè il sassolino messo dai cittadini (bianco o nero), quand’erano chiamati a decidere, in contesti elettorali o giudiziari. 
L’esercizio del voto da parte del demos è  il frutto di un processo lungo e tutt’altro che lineare, che si consuma tra guerre persiane e guerra del Peloponneso; un Ateniese, che combatté a Maratona contro i Persiani, ad un certo punto della sua vita (era già avanti negli anni) ci volle riflettere sopra ed estendere le sue considerazioni a tutti i suoi concittadini.
Quell’Ateniese si chiamava Eschilo, il frutto della sua riflessione è la trilogia tragica che chiamiamo Orestea, che fu rappresentata agli albori della primavera del 458.
Eschilo mette a parte i suoi spettatori di questo suo convincimento: se gli uomini se la devono vedere tra di loro seguendo le ragioni del ghenos, cioè dell’appartenenza di sangue, non se ne verrà mai fuori: sangue chiamerà sangue, offesa chiamerà offesa, di generazione in generazione, intrappolando ogni singolo individuo.  Ci si salva, dice Eschilo nell’ultimo a tappa trilogia (le Eumenidi), mettendosi insieme in quella cosa che si chiama polis, nella quale le ragioni immediate del ghenos, il desiderio di farsi  giustizia per le spicce,  insomma, cedono di fronte ad uno spazio più ampio e articolato, la città, con le sue istituzioni, quali i tribunali.
Eschilo rappresenta tutto questo nel processo che le Erinni  (le divinità antiche, portatrici della vendetta del sangue) gli intentano di fronte all’Areopago (il tribunale nobiliare di Atene), sotto la presidenza della divinità eponima della polis, Atena appunto. Le vicende del processo mostrano quale sia la forza della polis: cambiare il nome delle cose -collocare, appunto,  in un contesto più ampio: al termine della vicenda, mandando (col proprio voto decisivo: lo spazio degli Dei, detto in altro modo, lo spazio che gli uomini non possono pretendere di occupare per intero) assolto Oreste,  Atena cambia il nome alle Erinni e le trasforma in Eumenidi (benevole), garanti dei valori della polis, che sono dike (la giustizia, appunto) e aidos, che è il rispetto.
E dunque: la città è quella cosa, sempre provvisoria e mai statica,  nella quale siamo invitati a cercare un contesto più ampio, e a guardarci, anzi, a riconoscerci, nel sensi del rispetto.
E non è una passeggiata: c’è voluto il tempo di una trilogia per arrivarci -come per noi, oggi, ci vuole la pazienza della lettura della complessità per capire qualcosa del mondo.
E non ci si arriva da soli.