Mi è successo di scriverci sopra qualche pagina, tanto tempo fa (davvero tanto tempo fa): tutte le volte che provo a raccontare il mio lavoro, le parole mi suonano immediatamente ben misera cosa, rispetto all’esperienza. Capita con amici (e conoscenti e non conoscenti) che fanno altri lavori, e questo, in fondo, può essere. Capita anche, però, quando scrivo quello che faccio in relazioni, progettazioni, programmazioni e rendicontazioni delle cose scolastiche ad uso di lettori, per così dire, esperti, come sono allievi e colleghi. Provvisoriamente, in proposito penso questo: durante la giornata di scuola capita a noi docenti di essere talora catalizzatori, talora promotori, talora testimoni, talaltra ostacoli ad un processo, silenzioso, misterioso e necessario, di trasformazione: dei nostri allievi. E nostra. (Ed è forse questo che spiega la contemporanea esperienza di vuoto e di pieno che si prova alla conclusione di una giornata di lezioni -si è dato tutto, e che cosa sia di questo tutto, chi lo sa davvero). Dentro contenitori austeri anche nella loro versione più elegante (o se si preferisce: dotati di una fascinosa austerità anche se scalcinatissimi), dentro spazi che simbolicamente si comprendono a colpo d’occhio davvero da Aosta a Lampedusa (e oltre), dentro l’alternanza di momenti gioiosi e di distese di noia: lì dentro, dico (provvisoriamente, di nuovo, per quel che ne ho capito per ora con le mie piccole forze) si svolge un rito. Un rito, appunto, di trasformazione, che prescinde da tutto l’apparato materiale e si sostanzia invece dei robusti fondamenti simbolici (spazi, ruoli, tempi) e che, come tutti i riti, fonda una comunità. La scuola, insomma, è un luogo dotato di sacralità. Una sacralità antropologica, connettiva, il cui più chiaro segno è proprio il fatto che -come tutte le cose sacre e misteriose, come tutti i riti fondativi- essa risulti, in ultima analisi, non raccontabile.
E’una sacralità del quotidiano, una liturgia di piccole cose, anzi, la liturgia delle piccole cose sacre, come dice benissimo, in un testo cui questo mio vuole collegarsi, Roberto Cescon qui. Una sacralità di quelle che forniscono un tessuto connettivo ad una comunità -preziosa, specie di questi tempi, nei quali i fili che tessano, appunto, tra senso e nonsenso quotidiano, il vivere sociale, sono fragili.
Ed è per questo che, qualunque ne sia la causa (criminalità, follia, gelosia, megalomania, vendetta, terrorismo o altro ancora: una causa che, sia beninteso, è dovere trovare), quanto è avvenuto ieri a Brindisi ha il segno, scandaloso, della profanazione. Nel pieno senso del termine.
Dopo le profanazioni, dopo lo sbigottimento, il sacro necessita di cura, i luoghi vanno riconsacrati, secondo i riti. Domani -pertanto- torneremo a scuola, ciascuno nella sua -fatta della stessa pasta di questa– a compiere un piccolo prodigio quotidiano, a riconsacrare il rito della piccola paziente cura delle piccole pazienti cose, in attesa (un po’ catalizzatori, un po’ testimoni, un po’ ostacoli, com’è umano che sia) delle mirabili trasformazioni. Che solo così, a partire da piccole aule quotidiane, avvengono.