Quaranta passi da “I promessi sposi”/37

(dal Capitolo XXXVI)

“– Figliuola, dunque; cos’è codesto voto che m’ha detto Renzo?

– È un voto che ho fatto alla Madonna… oh! in una gran tribolazione!… di non maritarmi.

– Poverina! Ma avete pensato allora, ch’eravate legata da una promessa?

– Trattandosi del Signore e della Madonna!… non ci ho pensato.

– Il Signore, figliuola, gradisce i sagrifizi, l’offerte, quando le facciamo del nostro. È il cuore che vuole, è la volontà: ma voi non potevate offrirgli la volontà d’un altro, al quale v’eravate già obbligata.

– Ho fatto male?

– No, poverina, non pensate a questo: io credo anzi che la Vergine santa avrà gradita l’intenzione del vostro cuore afflitto, e l’avrà offerta a Dio per voi. Ma ditemi; non vi siete mai consigliata con nessuno su questa cosa?

– Io non pensavo che fosse male, da dovermene confessare: e quel poco bene che si può fare, si sa che non bisogna raccontarlo.

– Non avete nessun altro motivo che vi trattenga dal mantener la promessa che avete fatta a Renzo?

– In quanto a questo… per me… che motivo…? Non potrei proprio dire… – rispose Lucia, con un’esitazione che indicava tutt’altro che un’incertezza del pensiero; e il suo viso ancora scolorito dalla malattia, fiorì tutt’a un tratto del più vivo rossore.

– Credete voi, – riprese il vecchio, abbassando gli occhi, – che Dio ha data alla sua Chiesa l’autorità di rimettere e di ritenere, secondo che torni in maggior bene, i debiti e gli obblighi che gli uomini possono aver contratti con Lui?

– Sì, che lo credo.

– Ora sappiate che noi, deputati alla cura dell’anime in questo luogo, abbiamo, per tutti quelli che ricorrono a noi, le più ampie facoltà della Chiesa; e che per conseguenza, io posso, quando voi lo chiediate, sciogliervi dall’obbligo, qualunque sia, che possiate aver contratto a cagion di codesto voto.

– Ma non è peccato tornare indietro, pentirsi d’una promessa fatta alla Madonna? Io allora l’ho fatta proprio di cuore… – disse Lucia, violentemente agitata dall’assalto d’una tale inaspettata, bisogna pur dire speranza, e dall’insorgere opposto d’un terrore fortificato da tutti i pensieri che, da tanto tempo, eran la principale occupazione dell’animo suo.

– Peccato, figliuola? – disse il padre: – peccato il ricorrere alla Chiesa, e chiedere al suo ministro che faccia uso dell’autorità che ha ricevuto da essa, e che essa ha ricevuta da Dio? Io ho veduto in che maniera voi due siete stati condotti ad unirvi; e, certo, se mai m’è parso che due fossero uniti da Dio, voi altri eravate quelli: ora non vedo perché Dio v’abbia a voler separati. E lo benedico che m’abbia dato, indegno come sono, il potere di parlare in suo nome, e di rendervi la vostra parola. E se voi mi chiedete ch’io vi dichiari sciolta da codesto voto, io non esiterò a farlo; e desidero anzi che me lo chiediate.

– Allora…! allora…! lo chiedo; – disse Lucia, con un volto non turbato più che di pudore.”

Il motivo fondamentale per cui fra Cristoforo scioglie Lucia dal voto è che lei ha scelto anche per un altro (Renzo), a cui si era obbligata: ma non si può disporre della volontà di un altro. In questo passaggio sta tutta un’idea della libertà, che è basata sul rispetto della volontà propria e altrui; cosa tanto importante, che non fanno conto decisivo i buoni motivi che hanno spinto Lucia.

C’è uno spazio, lo spazio dell’altro, del quale non disponiamo,e saperlo ci fa capire -e apprezzare- qualcosa di più di noi stessi, e dell’altro, di quello spazio che è fatto di libertà e precarietà. Del resto, come aggiungerà più avanti il cappuccino, da essere umani (e ciò vale non solo per gli innamorati), si è compagni di viaggio, col pensiero che può capitare prima o poi di lasciarsi, con la speranza di potersi ritorovare per sempre.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/36

(dal Capitolo XXXV)

“La prima cosa che si vedeva, nell’entrare, era un infermo seduto sulla paglia nel fondo; un infermo però non aggravato, e che anzi poteva parer vicino alla convalescenza; il quale, visto il padre, tentennò la testa, come accennando di no: il padre abbassò la sua, con un atto di tristezza e di rassegnazione. Renzo intanto, girando, con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti, vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte sur una materassa, involtato in un lenzolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta: lo fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece un passo indietro; ma il frate, facendogli di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo tirò appiè del covile, e, stesavi sopra l’altra mano, accennava col dito l’uomo che vi giaceva.

Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.

– Tu vedi! – disse il frate, con voce bassa e grave. – Può esser gastigo, può esser misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest’uomo che t’ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro giorni è qui come tu lo vedi, senza dar segno di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d’un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione… d’amore!

Tacque; e, giunte le mani, chinò il viso sopra di esse, e pregò: Renzo fece lo stesso.”

Fino a questo punto, i sntimenti di Renzo nei confronti di don Rodrigo non sono certo mutati: la volontà di rivalsa è restata intatta. Fra Cristoforo mette il protagonista di fronte a una vertiginosa questione: è la salvezza, dell’avversario, ma anche la propria stessa, a dipendere dalla sua scelta.

Renzo e Cristoforo hanno, ciascuno, legato la propria vicenda personale alla ricerca della giustizia: la trovano nel volto forse privo di consapevolezza di don Rodrigo, e scoprono che quel volto, in qualche modo, è il loro specchio, perché li rivela.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/19

(dal capitolo XVIII)

“Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per un’occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui.”

La ricerca della giustizia ha messo Renzo nei guai, e lo ha portato lungo le strade non mondane della Provvidenza; ma col capitolo XVIII si torna sui percorsi quotidiani, segnati dalle manovre di chi ha, o pensa di avere, un poco di potere. Ed ecco il Conte zio, l’aggancio milanese di Rodrigo e Attilio per mettere fuori gioco anche fra Cristoforo: un potente, il cui ascendente è fatto di parole a mezzo, silenzi e allusioni, come accadeva allora; e oggi. Inizia così la recita del potere per il potere.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/7

(dal capitolo VI)

“Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men contraddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come un’eccezione? E ci sono dell’eccezioni alle regole più comuni e men contraddette? Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sé, se ne ha voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d’aver dei fatti da raccontare.”

Il capitolo VI del romanzo è attraversato da continui cambi di scena, la narrazione prende la velocità connessa alle molteplici macchinazioni che sono in movimento. Veloce, nervoso è il confronto tra fra Cristoforo e don Rodrigo: qualche cerimonia iniziale e poi è scontro vero -altro che il profluvio di chiacchiere dei commensali del capitolo precedente-, appena lasciato in sospeso dalla decisione del religioso di abbozzare e ritirarsi, cosa che gli consente di avere cognizione da un domestico di qualcosa di grave che si sta preparando.

Renzo e Agnese non sanno star fermi, Agnese ha cose da consigliare, Renzo da congegnare, ed eccolo far spola tra casa delle due donne, casa di Tonio, osteria e di nuovo casa di madre e figlia. Tutti, meno Lucia, si spostano e pensano e architettano, ci vuole, dice Agnese ripresa da Renzo, cuore e destrezza. Ma è una furbata, destrezza vuol dire il matrimonio a sorpresa, le cose da tacere a fra Cristoforo, tutte cose che a Lucia fan ripulsa: se non fosse che pure fra Cristoforo trae un’informazione decisiva (e sarà decisiva per tutta la successiva vicenda, altrimenti altro che fuga di Renzo e Lucia) da una furberia, quella del domestico che origlia i discorsi dei signorotti. Tante furberie, alcune cattive (quelle di don Rodrigo), ma altre a fin di bene, fatte fin dal venerabilissimo fra Cristoforo; ci sarebbe da pensarci su, ma Manzoni avverte il lettore: pensaci tu, io intanto ho questa storia da raccontare -e la storia è un guazzabuglio di cose cattive buone e furberie.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/5

(dal capitolo IV)

“C’è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s’era fatto frate, né veniva a quell’umiliazione per timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti.

Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: – io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio –. Tutti gli occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un mormorìo di pietà e di rispetto.”

Il quarto capitolo del romanzo è tutto dedicato alla storia personale di fra Cristoforo. Si tratta di una vicenda che ha a che fare con molte cose del mondo: l’orgoglio, il ruolo sociale, la facile confusione tra giustizia e vendetta, i rapporti diplomatici tra ordini religiosi e nobili. Manzoni conosce tutto questo, così come ha presente il rischio della deriva apologetica della vicenda che vuole raccontare. Una cosa gli preme, però, più di tutte: pur essendo una storia che tocca molto la questione del potere e dei rapporti di forza tra gli uomini, non è questo il modo in cui si risolve. Il vecchio Ludovico, ora fra Cristoforo, entra nella casa nobiliare non per timore umano. Lo scrittore non aggiunge niente: al lettore sta provare a comprendere di che si tratti. Certo è che, nel momento di massima umiliazione, questa stessa diventa una forza difficile da definire, ma effettiva.