Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/35

Oggi: la ragionevolezza, un privilegio.

Capitolo 6, pp. 132-137

La narrazione di Manzoni stringe il suo corso, per arrivare al procedimento decisivo che, come lo scrittore ha annunciato, è quello all’unico personaggio di rilievo pubblico interessato, il figlio del comandante del Castello di Milano. Prima di arrivare a Padilla, però, Manzoni passa per il processo di un altro degli umili tirati in causa, a nome Baruello, che ripropone lo schema già visto per Piazza e Mora: accuse, torture, confessioni basate su invenzione, promesse d’impunità e nuove torture, questa volta concluse non con l’esecuzione, ma con la morte per peste dell’accusato. La storia raccontata e poi rielaborata da Baruello aggiunge stramberie invenzioni al canovaccio già artefatto che abbiamo seguito: oltre che il coinvolgimento del notabile, essa presenta pure interventi diabolici, promesse di denaro e, purtroppo, il coinvolgimento di altri malcapitati. L’autore la riassume così:

“Dire che in questa storia, della quale qui accenniam soltanto il principio, ci fossero delle cose inverisimili, non sarebbe parlar propriamente; era tutto un monte di stravaganze, come il lettore ha potuto vedere da questo solo saggio.” (p. 133)

Tocca, infine, al procedimento nei confronti di Padilla, che Manzoni racconta attraverso passaggi rapidi, fatti delle accuse, riportate per sintesi, e delle secche risposte, a partire da quest’unico dato di fatto:

“I soli che avessero deposto d’essersi abboccati con lui, il Mora e il Baruello, avevano anche indicati i tempi; il primo all’incirca, il secondo più precisamente.” (p. 137)

Di qui si snoda una serrata sequenza di pagine, nelle quali l’unico imputato dotato di posizione sociale e mezzi economici può ribattere ragionevolmente alle accuse. Il marchingegno accusatorio  verrà smontato a colpi di ragionevolezza, una qualità resa possibile solo a un privilegiato.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/34

Oggi: la debolezza dei prepotenti e la forza degli sconfitti.

Capitolo 6, pp. 129-132

Il sesto capitolo del trattato si apre con le sintetiche narrazioni dei processi di quanti furono, nei tempi diversi che si son seguiti sopra, chiamati in causa da Mora e Piazza. I primi due sono padre e figlio arrotino; per descrivere il comportamento del maggiore dei due, Manzoni usa un’immagine dal mondo degli insetti:

Fecero l’uno e l’altro come que’ ragni, che attaccano i capi del loro filo a qualcosa di solido, e poi lavoran per aria.” (p. 129)

Tale è l’effetto del buttare nomi a caso, per coinvolgere altri, e poi inventarsi un modo per dare coerenza a queste accuse. Il più anziano dei due arrotini riesce ad evitare la tortura con un’argomentazione paradossale, nella quale dimostra che sicuramente i supplizi porteranno gli effetti che i giudici si attendono:

Se avesse negato semplicemente, avevan la tortura; ma la prevenne con questa singolare risposta: Signor no, che non è vero; ma se mi date li tormenti perché io neghi questa particolarità, sarò forzato a dire che è vero, benché non sij.” (p. 129)

Se il padre ritratta, come Mora e Piazza fecero, tutte le accuse ad altri in punto di morte, ben diverso è il comportamento di suo figlio. Manzoni racconta il suo supplizio come quello di un martire: egli, infatti, non si accusa mai delle colpe che gli vengono attribuite, preferendo salvar l’anima, il che vuol dire andare incontro alla morte, ma senza gravar la coNscienza:

Poi soggiunse: questi tormenti forniranno presto; et al mondo di là bisogna starui sempre. Furono accresciute le torture, di grado in grado, fino all’ultimo, e con le torture, l’istanze di dir la verità. Sempre rispose: l’ho già detta; voglio saluar l’anima. Dico che non voglio grauar la conscienza mia: non ho fatto niente.” (p. 131)

Si fosse comportato così Piazza, nessun altro innocente sarebbe stato coinvolto, nota lo scrittore, e forse lo stesso commissario di Sanità sarebbe riuscito a cavarsela; ma questa osservazione non nasconde affatto le responsabilità, che sono tutte di chi volle il processo:

Di tanti orrori fu cagione la debolezza… che dico? l’accanimento, la perfidia di coloro che, riguardando come una calamità, come una sconfitta, il non trovar colpevoli, tentarono quella debolezza con una promessa illegale e frodolenta.” (pp. 131-132)

Debolezza, accanimento, perfidia, promessa illegale e frodolenta (quella dell’impunità, più volte usata): sono gli strumenti degli inquirenti, che volevano per forza avere un colpevole. Ed è notevole come la sequela delle caratteristiche negative, che tanto hanno di violento, sia preceduta tuttavia da un’altra attitudine, che stando per prima è un po’ l’inconsistente fondamento di tutto il processo: la debolezza. Debolezza dei potenti e prepotenti, che il lettore subito confronta con la forza di uno sconfitto, il giovane arrotino andato al martirio.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/33

Oggi: i due innocenti condannati, l’ingiustizia della storia e cio che è proprio di ciascun uomo.

Capitolo 5, pp. 126-128

Manzoni chiude il capitolo raccontando il passaggio finale della vicenda processuale di Piazza e di Mora, cioè la loro esecuzione. Lo scrittore abbandona il tono saggistico e quello storico, e condensa in una serie di passaggi non solo la narrazione degli eventi, ma anche quello che gli preme dire, sia sul piano religioso, che su quello etico.

 

L’esecuzione dei due condannati è raccontata con la forza di alcuni participi passati, che imprimono nel lettore il dolore di un atto che da subito viene detto infernale:

“Quell’infernale sentenza portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l’ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di rifabbricare in quel luogo.” (p. 126)

Tanagliati, tagliata, spezzate, intrecciati, alzati, scannati, bruciati, buttate: la sequenza delle violenze s’impone con la tensione degli asindeti, i verbi in inizio di proposizione impongono subito il coinvolgimento emotivo di chi legge. Manzoni vuole che ci rimanga in testa questo annichilimento creaturale, cui segue l’oltraggio che si propaga nel tempo, la costruzione della colonna infame.

 

Tutto finito? No, perché Manzoni ripercorre il percorso degli ultimi giorni dei due condannati, iniziando da quando, ancora, persistevano nell’accusare a caso, per cercare di evitare il supplizio:

“La speranza non ancora estinta di sfuggir la morte, e una tal morte, la violenza di tormenti, che quella mostruosa sentenza farebbe quasi chiamar leggieri, ma presenti e evitabili, li fecero, e ripeter le menzogne di prima, e nominar nuove persone. Così, con la loro impunità, e con la loro tortura, riuscivan que’ giudici, non solo a fare atrocemente morir degl’innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir colpevoli.” (p. 126)

Ciò che allo scrittore importa di più è nell’ultima frase: i due sono innocenti, ma vengono portati a morire come colpevoli.

Ma non si tratta dell’ultima parola, su questo punto. Giunti alla fine, sia Mora che Piazza ritrattano tutte le accuse:

Tanto lui, quanto il Mora, fecero poi stendere dai religiosi che gli assistevano una ritrattazion formale di tutte l’accuse che la speranza o il dolore gli avevano estorte. L’uno e l’altro sopportarono quel lungo supplizio, quella serie e varietà di supplizi, con una forza che, in uomini vinti tante volte dal timor della morte e dal dolore; in uomini i quali morivan vittime, non di qualche gran causa, ma d’un miserabile accidente, d’un errore sciocco, di facili e basse frodi; in uomini che, diventando infami, rimanevano oscuri, e all’esecrazion pubblica non avevan da opporre altro che il sentimento d’un’innocenza volgare, non creduta, rinnegata tante volte da loro medesimi; in uomini (fa male il pensarci, ma si può egli non pensarci?) che avevano una famiglia, moglie, figliuoli, non si saprebbe intendere, se non si sapesse che fu rassegnazione: quel dono che, nell’ingiustizia degli uomini, fa veder la giustizia di Dio, e nelle pene, qualunque siano, la caparra, non solo del perdono, ma del premio.” (pp. 127-128)

Qui Manzoni svolge, con un crescendo sostenuto dalla ripetizione di uomini, una meditazione religiosa. Privati di tutto, dopo mille incoerenze, perché Mora e Piazza andarono incontro come riuscirono a fare alla loro condanna? Essi ebbero, scrive l’autore, il dono che è stato di Ermengarda, odel Napoleone della parte conclusiva del Cinque maggio, la capacità di vedere, nell’ingiustizia degli uomini, la giustizia di Dio. Il lettore coglie questi richiami ed il senso vertiginoso dell’immagine: gli umili e i reietti della storia stanno insieme ai potenti, nel momento in cui questi e quelli vengono intesi nella loro condizione creaturale. Certo: qui siamo al centro di quello che è il Cristianesimo di Manzoni; eppure, non possiamo fare a meno di notare che questa sua indicazione non cancella affatto la colossale grandezza dell’ingiustizia che il barbiere e il commissario di Sanità subiscono.

Un altro, incommensurabile paradosso accompagna i momenti finali dei due condannati: accettano la morte non per quello che non hanno commesso, ma per i peccati che hanno effettivamente compiuto nella loro vita.

Qui, riecheggia il modello di tutta questa narrazione, che è quello della Passione di Cristo. Manzoni aggiunge una cosa: i due deliberano di accogliere quello che avviene, un discorso, nota l’autore, senza senso, se si guardano le cose in termini meccanici; un discorso, in realtà, pieno di senso, se si richiama quello spazio, che in questo trattato lo scrittore ha spesso evocato, nel quale l’uomo esercita il suo assenso nei confronti delle cose del mondo, quello della deliberazione.

L’uno e l’altro non cessaron di dire, fino all’ultimo, fin sulla rota, che accettavan la morte in pena de’ peccati che avevan commessi davvero. Accettar quello che non si potrebbe rifiutare! parole che possono parer prive di senso a chi nelle cose guardi soltanto l’effetto materiale; ma parole d’un senso chiaro e profondo per chi considera, o senza considerare intende, che ciò che in una deliberazione può esser più difficile, ed è più importante, la persuasion della mente, e il piegarsi della volontà, è ugualmente difficile, ugualmente importante, sia che l’effetto dipenda da esso, o no; nel consenso, come nella scelta.” (p. 128)

Anche nella costrizione più assoluta, anche nell’obbligo più estremo, è dato all’uomo uno spazio per un assenso, o un diniego: è lo spazio della sua coscienza, ed è quello che, se pur viene schacciato dai meccanismi ciechi della storia, in realtà è quanto di più è proprio dell’uomo.

Di ogni singolo uomo.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/32

Oggi, contenuto extra: Manzoni, Orazio, l’uomo politico

A pagina 125 del suo lavoro, Manzoni, come si è visto, commenta il diniego dei magistrati alla richiesta, formulata da Padilla padre, di rinviare l’esecuzione di Mora e Piazza, per consentire di acquisire nuove testimonianze, utili per la causa del figlio. I giudici replicano che ormai il popolo esclamava; che, insomma, la pressione dell’opinione pubblica richiedeva che non si indugiasse. L’osservazione dello scrittore è messa tra parentesi, e accompagnata da un riferimento ad un testo di Orazio, lasciando al lettore il confronto con quella fonte. Vediamo il verso citato da Manzoni nel suo contesto, che è quello dell’inizio di Carmina, 3,3:

 

Iustum et tenacem propositi virum
non civium ardor prava iubentium,
non voltus instantis tyranni
mente quatit solida neque Auster,

dux inquieti turbidus Hadriae,               5
nec fulminantis magna manus Iovis:
si fractus inlabatur orbis,
inpavidum ferient ruinae.

(Il tumulto dei cittadini che ordinano azioni disoneste,

od il volto di un tiranno incombente

non scuotono, nella sua solida intenzione,

l’uomo giusto  e tenace nel suo proposito, e neppure l’austro,

 torbida guida dell’inquieto Adriatico,

né la grande mano di Giove saettante:

se ilmondo, distrutto, crollerà

le rovine lo colpiranno, impavido.”)

Il testo viene da una di quelle che vengono definite le “odi romane”, che aprono il terzo libro e che rimandano ai valori sui quali si è fondata la grandezza di Roma, che Orazio esalta, in consonanza con la politica culturale di Ottaviano. Il valore qui celebrato è quello della saldezza degli intendimenti, che non cede sotto la spinta né del volere del popolo, né di un tiranno, né per la furia degli elementi esterni. Appare evidente che questa saldezza imperturbabile sia, per lo scrittore italiano, il valore, che dovrebbe essere proprio dell’uomo che ha incarichi pubblici, negato dal comportamento dei giudici milanesi.

La saldezza cui il testo oraziano rimanda è, inoltre, in contrapposizione con la furia delle passioni, che fin dall’inizio del testo per Manzoni costituisce la chiave interpretativa dell’intera vicenda.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/31

Oggi: Orazio e l’incostanza di chi asseconda le passioni pubbliche.

Capitolo 5, pp. 123-125

Gli interrogatori al barbiere e al commissario di Sanità si susseguono, moltiplicando l’effetto della loro trama fondamentale: le domande e poi le torture, la richiesta di nomi di complici ed il cedimento dell’interrogato, che o inventa o pesca il primo nome che gli sovvenga:

“Lo sventurato, rimesso alla tortura, nominò pur troppo una persona reale, un Giulio Sanguinetti, banchiere: “il primo venuto in mente all’uomo che inventava per lo spasimo”. (p. 124)

E subito dopo, ancora, a dimostrazione dell’illogicità di tutta la sequenza di azioni:

“Il Piazza, che aveva sempre detto di non aver ricevuto danari, interrogato di nuovo, disse subito di sì. (Il lettore si rammenterà, forse meglio de’ giudici, che, quando visitaron la casa di costui, danari gliene trovaron meno che al Mora, cioè punto.) Disse dunque d’averne avuti da un banchiere; e non avendogli i giudici nominato il Sanguinetti, ne nominò lui un altro: Girolamo Turcone. E questo e quello e vari loro agenti furono arrestati, esaminati, messi alla tortura; ma, stando fermi a negare, furon finalmente rilasciati.” (p. 124)

 

Il coinvolgimento del figlio del comandante del Castello porta ad un intervento di avvocati difensori e di strategie difensive più strutturati rispetto alle povere possibilità di Mora e Piazza. Il padre di Padilla, in particolare, interviene, dopo che i due sono stati condannati, per ottenere un rinvio della sentenza e loro successive audizioni, ma non lo ottiene; gli si oppone, come ragione, la pressione popolare:

Il padre, e si rileva dalle difese medesime, fece istanza, per mezzo del suo luogotenente, e del suo segretario, perché si sospendesse l’esecuzione della sentenza contro il Piazza e il Mora, fin che fossero stati confrontati con don Giovanni. Gli fu fatto rispondere “che non si poteva sospendere, perché il popolo esclamava…” (eccolo nominato una volta quel civium ardor prava jubentium; la sola volta che si poteva senza confessare una vergognosa e atroce deferenza, giacché si trattava dell’esecuzion d’un giudizio, non del giudizio medesimo. Ma cominciava allora soltanto a esclamare il popolo? o allora soltanto cominciavano i giudici a far conto delle sue grida?)” (p. 125)

La citazione oraziana (Carmina, 3,3, 2) contrappone, implicitamente, il modello di saldezza e coerenza dell’uomo politico, delineato dal poeta latino, con l’incostanza dei magistrati milanesi: è un richiamo alle passioni che hanno intorbidito tutta la vicenda.

 

A suggello della vicenda processuale di Mora e Piazza, Manzoni sintetizza così l’incoerenza degli argomenti prodotti:

“E il detto d’ognuno di que’ due infami valse contro l’altro! E i giudici l’avevan tante volte chiamato verità! E nella sentenza medesima decretarono che, dopo l’intimazion di essa, fossero l’uno e l’altro tormentati di nuovo su ciò che riguardava i complici! E le loro deposizioni promossero torture, e quindi confessioni, e quindi supplizi; e se non basta, anche supplizi senza confessioni!” (p. 125)

Tenuti in prigione, torturati, messi l’uno contro l’altro, secondo una cieca serie di azioni sempre più violente e insensate: la frase finale ce le mette di fronte, nella loro consequenzialità e nella loro ferocia.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/30

Oggi: l’accanimento inquisitorio, le sue incongruenze, e il disinteresse nei loro riguardi.

Capitolo 5, pp. 119-123

La trovata del personaggio di riguardo quale mandante delle unzioni, che Piazza ha disperatamente escogitato per provare a salvarsi, determina una nuova serie di chiamate a testimonianza, di torture prima promesse e poi inflitte, di iniziali resistenze e poi di cedimenti del Mora. Ora Manzoni può integrare il racconto con le osservazioni dell’avvocato del figlio del comandante del Castello, il giovane Padilla cui viene imputato il progetto di diffusione della pestilenza; questo nuovo e competente punto di vista consente di sottolineare con maggior vigore le manipolazioni dei poveri imputati:

Si viene a un nuovo confronto, e si domanda al Piazza, se è vero che il Mora gli venibadel Padiglia, figliolo del signor Castellano di Milano. Il difensor del Padilla osserva, con gran ragione, che, “sotto pretesto di confronto”, fecero così conoscere al Mora “quello che si desiderava dicesse”. Infatti, senza questo, o altro simil mezzo, non sarebbero certamente riusciti a fargli buttar fuori quel personaggio. La tortura poteva bensì renderlo bugiardo, ma non indovino.” (pp. 120-121)

 

Dalla testimonianza di un servitore, del resto, si ha la conferma che Mora diceva quello che gli accusatori si aspettavano dicesse, o addirittura suggerivano:

“et lui disse che l’haueua dato fuori per hauerlo sentito nominare là, et che perciò rispondeua a tutto quello che sentiva, o che li veniua così in bocca.” (p. 123)

Rispondeva a tutto quello che sentiva, o che gli veniva messo in bocca: in due righe sta tutta la vicenda degli interrogatori, nell’esperienza del povero barbiere.

 

Nella loro puntigliosità, che pur non cura le contraddizioni, gli inquirenti chiedono al barbiere chi lo abbia messo in contatto con Padilla; qui, Mora s’inventa del tutto anche un nome:

“E perché, tra tante cose dell’altro mondo, parve strana anche ai giudici quella relazione tra il barbier milanese e il cavaliere spagnolo; e domandarono chi c’era stato di mezzo, alla prima disse ch’era stato uno de’ suoi, fatto e vestito così e così. Ma incalzato a nominarlo, disse: Don Pietro di Saragoza. Questo almeno era un personaggio immaginario.” (p. 123)

Ma questa palese incongruenza, naturalmente, non cambia niente.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/29

Oggi: le vie dell’iniquità, per le quali gli innocenti contribuiscono alla propria rovina.

Capitolo 5, pp. 113-119

Il Capitolo 5 ci conduce al nuovo giro di interrogatori cui Mora e Piazza sono sottoposti, stavolta con l’esclusione della tortura. La figura più attiva, tra i due, è quella del commissario di Sanità, al quale le richieste degli inquirenti provocano, come già accaduto nelle precedenti sedute, l’imbarazzo di inventare qualcosa:

“Da aggiungere, lui non aveva nulla, e non sapeva che n’avevan loro; e forse, accusando un innocente, non aveva preveduto che si creava un accusatore.” (p. 114)

Capendo che la propria posizione si è aggravata, per l’effetto dell’invenzione a sua volta costruita da Mora -che gli ha attribuito una responsabilità attiva nell’ideare il piano per ungere-, il commissario di Sanità rilancia ulteriormente, alludendo alla complicità di una persona importante, che avrebbe sponsorizzato l’operazione:

“Sperava, con l’ammetter tutto, di ripescar la sua impunità. Poi, o per farsi sempre più merito, o per guadagnar tempo, soggiunse che i danari promessigli dal barbiere dovevan venire da una persona grande, e che l’aveva saputo dal barbiere medesimo, ma senza potergli mai cavar di bocca chi fosse. Non aveva avuto tempo d’inventarla.” (p. 115)

 

Il passaggio successivo è la fissazione del processo e l’assegnazione dei difensori d’ufficio: una cosa difficile, soprattutto per il barbiere, sul quale ormai grava l’opinione comune di colpevolezza:

Il furore”, dice, “era giunto al segno, che si credeva un’azione cattiva e disonorante il difender questa disgraziata vittima” (p. 117)

In questa occasione, nota Manzoni, beffa si aggiunge a danno: al povero Mora viene assegnato come difensore un notaio, che non ha la competenza professionale per assisterlo:

A un uomo condotto ormai appiè del supplizio (e di qual supplizio! e in qual maniera!), a un uomo privo d’aderenze, come di lumi, e che non poteva aver soccorso se non da loro, o per mezzo loro, davano per difensore uno che mancava delle qualità necessarie a un tal incarico, e n’aveva delle incompatibili! Con tanta leggerezza procedevano!”  (p. 117)

Del resto, i tempi concessi per imbastire una difesa sono strettissimi; quanto meno, nota lo scrittore, è così per due persone umili come Piazza e Mora, ma non sarà così per un nuovo imputato, meglio protetto dal suo rango:

“Quello assegnato al Piazza, “comparve e chiese a voce che gli fosse fatto vedere il processo del suo cliente; e avutolo, lo lesse”. Era questo il comodo che davano alle difese? Non sempre, poiché l’avvocato del Padilla, che divenne, come or ora vedremo, il concreto della persona grande buttata là in astratto e in aria, ebbe a sua disposizione il processo medesimo, tanto da farne copiar quella buona parte che è venuta per quel mezzo a nostra notizia.” (p. 118)

L’iniquità agisce in ogni piccolo passaggio della vicenda, Manzoni ne annota ogni manifestazione puntualmente. Una delle sue manifestazioni è la collaborazione attiva che le offrono quelli stessi che ne sono colpiti; Piazza, infatti, ha tentato la mossa del coinvolgimento di un notabile della città, nella speranza di potersi così salvare:

Pensò probabilmente che, se gli riusciva di tirare in quella rete, così chiusa alla fuga, così larga all’entrata, un pesce grosso; questo per uscirne, ci farebbe un tal rotto, che ne potrebbero scappar fuori anche i piccoli.” (p. 119)

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/28

Oggi: Manzoni, gli umili sotto tortura, Umberto Eco.

Capitolo 4, pp. 106-112

Dopo una notte in carcere, Mora torna dagli inquirente per l’interrogatorio di conferma. Egli, fattosi coraggio, ritratta la confessione del giorno avanti:

A quella minaccia, rispose ancora: replico che quello che dissi hieri non è vero niente, et lo dissi per li tormenti.” (p. 109)

Ricomincia la tortura, Mora cede di nuovo, ritratta la ritrattazione. Manzoni riassume la meccanica brutalità delle cose in neanche una riga, quella iniziale che qui segue:

Di nuovo alla tortura, dove di nuovo disse quello che volevano; e avendogli il dolore consumato fino all’ultimo quel poco resto di coraggio, mantenne il suo detto, si dichiarò pronto a ratificar la sua confessione; non voleva nemmeno che gliela leggessero. A questo non acconsentirono: scrupolosi nell’osservare una formalità ormai inconcludente, mentre violavan le prescrizioni più importanti e più positive. Lettogli l’esame, disse: è la verità tutto.” (p. 110)

Ottenuta la confessione, così come per il Piazza, anche per il Mora viene il momento in cui i giudici non si contentano, ma vogliono approfondire le motivazioni. Il barbiere non è in grado di dare spiegazione, per il semplice motivo, nota lo scrittore, che si trova ormai depauperato di se stesso, mero esecutore della volontà di altri:

Rispose: che sappia mi, quanto a me, non ho altro fine. Che sappia mi! Chi, se non lui, poteva sapere cosa fosse passato nel suo interno? Eppure quelle così strane parole erano adattate alla circostanza: lo sventurato non avrebbe potuto trovarne altre che significassero meglio a che segno aveva, in quel momento, abdicato, per dir così, sé medesimo, e acconsentiva a affermare, a negare, a sapere quello soltanto, e tutto quello che fosse piaciuto a coloro che disponevan della tortura.” (p.110)

Che sappia mi: Manzoni rileva il dialettalismo, ed il lettore non può non ricordare un altro testo, che chiaramente a questo s’ispira, in cui c’è tortura e c’è un debole che parla la lingua degli incolti, anzi, una lingua popolare mista: il testo è Il nome della Rosa, il debole è Salvatore, sottoposto all’inquisizione di Bernardo Gui.

 

Il culmine dell’inverosimiglianza è quando, interrogato, il malcapitato Mora dice ai giudici di chiedere al commissario di Salute quali fossero le sue, di ragioni, non essendo lui capace di dare una risposta. Ma il bisogno dei giudici di trovare colpevoli va oltre l’inverisimile.

I giudici dicono al Mora: come è possibile che vi siate determinati a commettere un tal delitto, per un tal interesse? Il Mora risponde: il commissario lo deve sapere, per sé, e per me: domandatene a lui. Li rimette a un altro, per la spiegazione d’un fatto dell’animo suo, perché possan chiarirsi come un motivo sia stato sufficiente a produrre in lui una deliberazione. E a qual altro? A uno che non ammetteva un tal motivo, poiché attribuiva il delitto a tutt’altra cagione. E i giudici trovano che la difficoltà è sciolta, che il delitto confessato dal Mora è diventato verisimile; tanto che ne lo costituiscono reo.” (p. 112)

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/27

Oggi: le contraddizioni che non si voglion vedere.

Capitolo 4, pp. 102-106

Con il nuovo interrogatorio del barbiere la vicenda del processo trova un suo snodo fondamentale. Messo alla tortura, Mora va oltre le domande sulle sue contraddizioni, e confessa di aver preparato l’unzione per diffondere la peste. Manzoni ha seri dubbi su questa ampia ammissione:

“Ci troviam, dico, tra il credere che il Mora s’accusasse, senza esserne interrogato, d’un delitto orribile, che non aveva commesso, che doveva procacciargli una morte spaventosa, e il congetturar che coloro, mentre riconoscevan col fatto di non avere un titolo sufficiente di tormentarlo per fargli confessar quel delitto, profittassero della tortura datagli con un altro pretesto, per cavargli di bocca una tal confessione. Veda il lettore quel che gli pare di dovere scegliere.” (p. 103)

 

Il barbiere, dopo la confessione, si trova a dover dare spiegazione del perché avesse voluto diffondere la peste, ed offre una spiegazione secondo la quale lui e Piazza avevano progettato il contagio per trarne profitto nelle rispettive attività:

“Ora, l’infelicissimo Mora, ridotto a improvvisar nuove favole, per confermar quella che doveva condurlo a un atroce supplizio, disse, in quell’interrogatorio, che la bava de’ morti di peste l’aveva avuta dal commissario, che questo gli aveva proposto il delitto, e che il motivo del fare e dell’accettare una proposta simile era che, ammalandosi, con quel mezzo, molte persone, avrebbero guadagnato molto tutt’e due: uno, nel suo posto di commissario; l’altro, con lo spaccio del preservativo.” (p. 104)

Qui, Manzoni invita il lettore a prestare attenzione alla contraddizione tra la versione di Piazza, che aveva detto che il barbiere gli si era rivolto quasi casualmente, per strada, e quella dello stesso Mora:

Ecco dunque due cagioni d’un solo delitto: due cagioni, non solo diverse, ma opposte e incompatibili. l’uomo stesso che, secondo una confessione, offre largamente danari per avere un complice; secondo l’altra, acconsente al delitto per la speranza d’un miserabile guadagno.” (p. 105)

Una contraddizione evidente, salvo ai giudici, che non ritengono di approfondirla, e passano avanti:

I nostri esaminatori, avuta quella risposta del Mora: perché lui hauerebbe guadagnato assai, poiché si sarian ammalate delle persone assai, et io hauerei guadagnato assai con il mio elettuario, passarono ad altro. Dopo ciò, basterà, se non è anche troppo, il toccar di fuga, e in parte, il rimanente di quel costituto.” (p. 106)

Il più, su quell’interrogatorio, nota Manzoni, si è detto: l’evidente incongruenza della confessione, la contraddittorietà delle versioni di Mora e di Piazza, con, sullo sfondo, le pressioni degli inquirenti per costruire una qualche parvenza di motivazione per procedere. Il nodo, come sempre per lo scrittore, è la deliberazione, dopo la quale le azioni vengono di conseguenza.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/26

Oggi: arbitrio e tradimento, che non sono giustizia.

Capitolo 4, pp. 96-102

La rivelazione molto tardiva di Piazza sull’amicizia tra lui e il barbiere e sui testimoni a proposito, spinge i giudici a sentire questi ultimi, ma nessuno conferma le parole del commissario di Salute. Gli inquisitori ritengono però di continuare su questa strada, che comunque, nota lo scrittore, non era legittima:

“È vero che non era, né poteva diventar mai un mezzo legittimo né legale, e che l’amicizia più intima e più provata non avrebbe potuto dar valore a un’accusa resa insanabilmente nulla dalla promessa d’impunità.” (p. 97)

Pe tentare di ottenere qualche rivelazione da Mora, durante il nuovo interrogatorio cui lo sottopongono, gli inquirenti falsano le affermazioni dei testimoni, appena sentiti, che hanno negato il rapporto di amicizia tra Piazza e Mora:

“Risponde: è ben vero che detto Commissario passa da lì spesso dalla mia bottega; ma non ha prattica di casa mia, né di me. Replicano: che non solo è contrario al suo primo esame, ma ancora alla depositione d’altri testimonij…” (p. 98)

Qui Manzoni nota come i giudici abbiano cercato una ragione per sottoporre nuovamente a tortura, trovandola -egli sottolinea più volte, senza legittimità- nell’affermazione dell’amicizia tra i due, formulata da Piazza nelle circostanze dubbie che si son viste, e nel particolare della ricetta stracciata da Mora durante la perquisizione della sua bottega. Insomma, inizia la tortura, che fiacca presto la resistenza di Mora:

Fu ricominciato e accresciuto il tormento: alle spietate istanze degli esaminatori, l’infelice rispondeva: V.S. veda quello che vole che dica, lo dirò: la risposta di Filota a chi lo faceva tormentare, per ordine d’Alessandro il grande”. (p. 101)

Quello che vuole che dica, lo dirò: in poche righe, Manzoni definisce Mora sventurato e infelice, rievocando ancora una volta nel lettore il personaggio del suo romanzo che pone fine a una sofferenza accettando la proposta dei suoi persecutori, cioè Gertrude. Qui al resa è piena; l’ingiustizia si mostra in tutta la sua pienezza, e Manzoni così commenta:

Così eran riusciti a far confermare al Mora le congetture del birro, come al Piazza l’immaginazioni della donnicciola; ma in questo secondo caso con una tortura illegale, come nel primo con un’illegale impunità. L’armi eran prese dall’arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio, e a tradimento.” (p. 102)

Arbitrio e tradimento, che non sono giustizia.