Spazio, tempo, soggetto. L’infinito, istruzioni per l’uso, secondo Giacomo Leopardi

[Il 28 maggio è la giornata dell'”Infinito” di Giacomo Leopardi. Su questo pugno di versi, qui di seguito qualche riflessione.]

L’infinito è uno degli oggetti delle più articolate riflessioni del giovane Leopardi, che gli dedicò alcune tese e lucidissime pagine dello Zibaldone. Nel breve componimento che lo ha per titolo, Leopardi ci mette a parte di un percorso nell’infinito, un movimento esperienziale che pone in gioco, con quello, l'”io”, l’unità di misura rispetto alla quale l’infinito stesso viene declinato. Il gioco non fallisce, si realizza invece, in un percorso che ha per guida il pensiero e, per compimento, il naufragio della dimensione individuale. L’ancoraggio all’hic et nunc è, dentro le oscillazioni di cui è intessuto il componimento, il presupposto per il salto nell’infinitezza.

Versi 1-3

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

La poesia comincia saturando tutto il tempo, ma la prosecuzione del primo verso fa irrompere la dimensione cronologica (fu), la connotazione soggettiva (mi, e caro), l’individuazione spaziale (questo…colle). L’altro aggettivo qualificativo, ermo, si pone a cavallo tra il riferimento soggettivo e la determinazione spaziale.

Il secondo verso aggancia il primo affiancando al colle la siepe, in un effetto visuale di avvicinamento, di focalizzazione più stretta; dal restringimento, così realizzato, scatta immediatamente la nuova apertura di tanta parte, che si determina con il verso successivo, dell’ultimo orizzonte. La dilatazione è definitiva nei limiti di ciò che è possibile alla percezione (ultimo, riferito ad orizzonte): qui, poi, Leopardi suggella il periodo iniziale con l’ulteriore chiusura di esclude.

I primi tre versi definiscono, dunque, un contesto, oscillante tra infinito e determinato, contraddistinto dal lessico del piacere (caro).

Versi 4-8a

Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura.

I due gerundi iniziali, scanditi dalla virgola dopo mirando, invitano, com’è proprio di questo modo verbale, ad un movimento d’immedesimazione nel lettore, condotto a riprodurre l’azione di sedersi e contemplare.

Tra il verso 4 ed il verso 6 tre aggettivi e tre sostantivi completano i due gerundi, in una tessitura di tensioni: il movimento degli aggettivi interminati, sovrumani, profondissima (con gli ultimi due che paiono esprimere rispettivamente il massimo di ciò che è esteriormente lontano ed il massimo di ciò che è interiore) che delineano l’estremo livello raggiungibile della qualità indicata, e quello dei sostantivi spazi, silenzi, quiete, con gli ultimi due vicini anche per campo semantico.

L’inarcatura nello spazio, esterno ed interno, viene ricondotta all’esperienza individuale, anch’essa posta nella tensione tra la mente (io nel pensier mi fingo), tutta volta a svolgere la contemplazione e a sprofondare in essa (mi fingo), ed il cuore, toccato dalla paura.

Versi 8b-13a

E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei.

In apertura, l’uso della congiunzione coordinativa, come nei versi precedenti (e questa siepe…e sovrumani silenzi…e profondissima quiete) fa scorrere le immagini l’una sull’altra. I versi 8b-11a scandiscono un gioco di rimbalzi: dal vento udito in un contesto preciso (queste piante, che richiamano quest’ermo colle) si va all’infinito silenzio evocato appena sopra, che è messo a confronto con il suono del vento. La scansione dei versi mette chi legge nella condizione di seguire il movimento del pensiero dell’io lirico.

Il verso 11b si apre ancora con lo slittamento della congiunzione coordinativa, per dar luogo alle immagini che si susseguono fino al verso 13, immagini che sono ancorate alla dimensione del rammemorare (mi sovvien): l’eterno, che richiama il Sempre di apertura, così come gli interminati spazi, i sovrumani silenzi, la profondissima quiete; il passato, perduto in maniera irrevocabile (le morte stagioni); la nostra collocazione precisa nel tempo (la presente/e viva, con la forte sottolineatura data dall’inarcatura), per tornare ancora al suono, come nel verso 8b, in una sorta di anularità.

Versi 13b-15b

Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Leopardi ci ha suggerito il movimento in corso, ed ora, senza dirci quando e come avvenga, ci mette a parte delle sue conseguenze. L’avverbio Cosi risulta essere il centro dinamico del componimento, definisce quelle che potremmo chiamare le istruzioni per l’uso dell’esperienza d’infinito.

L’oscillazione tra il qui e adesso e l’infinito giunge al suo compimento, che è l’annegare del pensiero nel mare dentro il quale si è mosso: questo naufragio è dolce (secondo uso del lessico del piacere, dopo il caro del verso iniziale), perché è un modo di esperire l’infinito, l’anelito fondamentale del pensiero leopardiano.

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(Il manoscritto di Visso)

Stare e partire

Ieri sera, seguendo il filo di alcune situazioni e conversazioni dellla giornata, pensavo -con la scarsa originalità dell’ora e delle limitate risorse intellettuali disponibili- a come, nella giornata, avessi incontrato persone che volevano andare, e dovevano restare, e persone che volevano restare, e dovevano andare. Poco prima di dormire, mi è rapidamente passato per la mente che questa cosa ha a che fare con la prima Bucolica di Virgilio. In altre età della mia vita, magari, mi sarei arrovellato subito su questa tarda considerazione; in questa, di età, abbastanza è stato che stamane me ne sia ricordato. Durante uno dei miei consueti percorsi pendolareschi sulla tratta Pordenone-Maniago, ci ho riflettuto un po’ su.

La prima Bucolica è il testo più noto di Virgilio; ogni liceale italiano, che abbia latino nel suo corso di studi, a meno di particolari estrosità dei suoi docenti s’imbatte in questo testo.  Lo si riassume in poche parole: c’è un pastore, Melibeo, in fuga, con quel che resta del suo gregge; va esule perché i suoi campi ora li tiene un soldato; ce n’è un altro, Titiro, che invece ha ricevuto da un potente giovane, per lui simile a un dio, la possibilità di tenersi il suo campo. Melibeo se ne va, Titiro può rimanere, scende la notte e il secondo invita il primo a restare, prima di ripartire. Fine.

Fine? Forse per un’interrogazione di rapina, di quelle frettolose di fine anno. Ma, in realtà: neanche per sogno, naturalmente. A parte tutte le questioni di contestualizzazione storica (il giovane è Ottaviano, il soldato che diventa padrone dei campi di Melibeo rimanda alle spartizioni tra i veterani di guerra che Ottaviano stesso fece), quando ci si addentra nella dimensione micro, quella del farsi del testo, verso dopo verso, parola dopo parola, ci si accorge ben presto di essere dentro un mondo d’enigmi (come il tavolo sul quale sto scrivendo: bello solido al tatto, ma se andiamo a livello subatomico, è ben altra cosa).  Dentro questi enigmi sta un fatto, incontestabile: Titiro racconta le sue disgrazie, ad un certo punta le lamenta, pure, e, per converso, Melibeo enumera doviziosamente tutti i motivi per i quali è fortunato. Al lettore moderno, appena appena sia dotato di un muscolo cardiaco, bisogna dire che Melibeo fa perdere la pazienza; Titiro no, continua le sue lamentazioni e caso mai si associa all’altro nel decantarne la felice condizione.

Perché mai accade questo?

Perchè Titiro non si arrabbia, almeno un pochetto, e perché Melibeo non si mostra un po’ più discreto? La risposta è: perché non possono. E non possono perché il loro ruolo nel gioco è stato già deciso da altri, e non possono fare altro che stare nella parte che altri ha loro assegnato. Altri è il giovane che ha dato il beneficio a Titiro e che, al contempo, ha privato della terra Melibeo: è la stessa persona -Ottaviano-, la cui logica va su livelli al di sopra delle disponibilità dei due. Sicché ad uno non resta che constatare la propria fortuna, e dirsene contento, e all’altro non resta che fare i conti con la propria disgrazia.

Basterebbe già così, un testo che al contempo mette insieme immagini meravigliose e la durezza brutale della storia dei potenti.

Ma Virgilio è Virgilio -anche se quando scrive questo testo ha suppergiù trent’anni-, e non si accontenta mica.

Allla fine del testo, negli ultimi cinque versi, ecco: scende la sera. E Titiro dice a Melibeo di fermarsi, condividere un pasto frugale, la semplicità dell’abitazione, mentre le ombre si allungano.

I potenti fanno quello che vogliono, decidono sopra le nostre teste: ma la sera scende per tutti -e Virgilio ne ha da dire, sulla sera, in tutta le sue opere- e noi abbiamo, almeno, lo spazio per un gesto, provvisorio, limitato, semplice e umile -ma cos’è del resto la nostra vita?- per un amico.

E questo fa la differenza.