Un sabato del mese di marzo dell’anno dei Mondiali di Roberto Baggio rincasai da scuola accompagnato da ragioni di costernazione pubblica e privata. Per entrambe le sfere, la costernazione, beninteso, era roba mia; per altre persone ciò che metteva me in perplessità era, e nel giro di poche settimane sarebbe stato, invece, ragione di soddisfazione, privata e pubblica. Non ero, ad ogni modo, disposto in maniera così equanime,e per farmi passare il nervoso privato e pubblico che fosse, ricorsi a una delle forme di rimedio a me note, nella specie della visita alla libreria che preferivo della città in cerca di ispirazione. Non c’è più, adesso, quella libreria, in quel posto ora si comperano dei vestiti di catena giovanile (del resto, negli anfratti di Draghi-Randi a Padova, dove ordinavo le mie Belles Lettres, ora i tocchi di franciosità vengono da Chanel); allora, però, c’era, e tra gli espositori con le novità mi diressi verso un libro dalla copertina bianca, con la foto dei tavolini bianchi di un locale chiamato “A Brasileira”. Comperai quel libro, che accompagnò, diede uno sfondo e una prospettiva a quel periodo, pubblico e privato -naturalmente a me, per altri valgono ragioni e riflessi diversi. Mi parlò di una fedeltà a motivi miei che non necessariamente a quel tempo ero in grado di capire (né la fedeltà né i motivi), ma che forse avrei capito col tempo e con un po’ di umile fiducia in quella fedeltà (ho col tempo capito che è effettivamente così, il guaio è che spesso me ne dimentico).
Quel libro cominciava con queste parole:
“Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava.”