Quaranta passi da “I promessi sposi”/37

(dal Capitolo XXXVI)

“– Figliuola, dunque; cos’è codesto voto che m’ha detto Renzo?

– È un voto che ho fatto alla Madonna… oh! in una gran tribolazione!… di non maritarmi.

– Poverina! Ma avete pensato allora, ch’eravate legata da una promessa?

– Trattandosi del Signore e della Madonna!… non ci ho pensato.

– Il Signore, figliuola, gradisce i sagrifizi, l’offerte, quando le facciamo del nostro. È il cuore che vuole, è la volontà: ma voi non potevate offrirgli la volontà d’un altro, al quale v’eravate già obbligata.

– Ho fatto male?

– No, poverina, non pensate a questo: io credo anzi che la Vergine santa avrà gradita l’intenzione del vostro cuore afflitto, e l’avrà offerta a Dio per voi. Ma ditemi; non vi siete mai consigliata con nessuno su questa cosa?

– Io non pensavo che fosse male, da dovermene confessare: e quel poco bene che si può fare, si sa che non bisogna raccontarlo.

– Non avete nessun altro motivo che vi trattenga dal mantener la promessa che avete fatta a Renzo?

– In quanto a questo… per me… che motivo…? Non potrei proprio dire… – rispose Lucia, con un’esitazione che indicava tutt’altro che un’incertezza del pensiero; e il suo viso ancora scolorito dalla malattia, fiorì tutt’a un tratto del più vivo rossore.

– Credete voi, – riprese il vecchio, abbassando gli occhi, – che Dio ha data alla sua Chiesa l’autorità di rimettere e di ritenere, secondo che torni in maggior bene, i debiti e gli obblighi che gli uomini possono aver contratti con Lui?

– Sì, che lo credo.

– Ora sappiate che noi, deputati alla cura dell’anime in questo luogo, abbiamo, per tutti quelli che ricorrono a noi, le più ampie facoltà della Chiesa; e che per conseguenza, io posso, quando voi lo chiediate, sciogliervi dall’obbligo, qualunque sia, che possiate aver contratto a cagion di codesto voto.

– Ma non è peccato tornare indietro, pentirsi d’una promessa fatta alla Madonna? Io allora l’ho fatta proprio di cuore… – disse Lucia, violentemente agitata dall’assalto d’una tale inaspettata, bisogna pur dire speranza, e dall’insorgere opposto d’un terrore fortificato da tutti i pensieri che, da tanto tempo, eran la principale occupazione dell’animo suo.

– Peccato, figliuola? – disse il padre: – peccato il ricorrere alla Chiesa, e chiedere al suo ministro che faccia uso dell’autorità che ha ricevuto da essa, e che essa ha ricevuta da Dio? Io ho veduto in che maniera voi due siete stati condotti ad unirvi; e, certo, se mai m’è parso che due fossero uniti da Dio, voi altri eravate quelli: ora non vedo perché Dio v’abbia a voler separati. E lo benedico che m’abbia dato, indegno come sono, il potere di parlare in suo nome, e di rendervi la vostra parola. E se voi mi chiedete ch’io vi dichiari sciolta da codesto voto, io non esiterò a farlo; e desidero anzi che me lo chiediate.

– Allora…! allora…! lo chiedo; – disse Lucia, con un volto non turbato più che di pudore.”

Il motivo fondamentale per cui fra Cristoforo scioglie Lucia dal voto è che lei ha scelto anche per un altro (Renzo), a cui si era obbligata: ma non si può disporre della volontà di un altro. In questo passaggio sta tutta un’idea della libertà, che è basata sul rispetto della volontà propria e altrui; cosa tanto importante, che non fanno conto decisivo i buoni motivi che hanno spinto Lucia.

C’è uno spazio, lo spazio dell’altro, del quale non disponiamo,e saperlo ci fa capire -e apprezzare- qualcosa di più di noi stessi, e dell’altro, di quello spazio che è fatto di libertà e precarietà. Del resto, come aggiungerà più avanti il cappuccino, da essere umani (e ciò vale non solo per gli innamorati), si è compagni di viaggio, col pensiero che può capitare prima o poi di lasciarsi, con la speranza di potersi ritorovare per sempre.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/36

(dal Capitolo XXXV)

“La prima cosa che si vedeva, nell’entrare, era un infermo seduto sulla paglia nel fondo; un infermo però non aggravato, e che anzi poteva parer vicino alla convalescenza; il quale, visto il padre, tentennò la testa, come accennando di no: il padre abbassò la sua, con un atto di tristezza e di rassegnazione. Renzo intanto, girando, con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti, vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte sur una materassa, involtato in un lenzolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta: lo fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece un passo indietro; ma il frate, facendogli di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo tirò appiè del covile, e, stesavi sopra l’altra mano, accennava col dito l’uomo che vi giaceva.

Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.

– Tu vedi! – disse il frate, con voce bassa e grave. – Può esser gastigo, può esser misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest’uomo che t’ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro giorni è qui come tu lo vedi, senza dar segno di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d’un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione… d’amore!

Tacque; e, giunte le mani, chinò il viso sopra di esse, e pregò: Renzo fece lo stesso.”

Fino a questo punto, i sntimenti di Renzo nei confronti di don Rodrigo non sono certo mutati: la volontà di rivalsa è restata intatta. Fra Cristoforo mette il protagonista di fronte a una vertiginosa questione: è la salvezza, dell’avversario, ma anche la propria stessa, a dipendere dalla sua scelta.

Renzo e Cristoforo hanno, ciascuno, legato la propria vicenda personale alla ricerca della giustizia: la trovano nel volto forse privo di consapevolezza di don Rodrigo, e scoprono che quel volto, in qualche modo, è il loro specchio, perché li rivela.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/35

(dal Capitolo XXXIV)

“Renzo non istette lì a pensare: gli parve subito miglior partito sbrigarsi da coloro, che rimanere a dir le sue ragioni: diede un’occhiata a destra e a sinistra, da che parte ci fosse men gente, e svignò di là. Rispinse con un urtone uno che gli parava la strada; con un gran punzone nel petto, fece dare indietro otto o dieci passi un altro che gli correva incontro; e via di galoppo, col pugno in aria, stretto, nocchiuto, pronto per qualunque altro gli fosse venuto tra’ piedi. La strada davanti era sempre libera; ma dietro le spalle sentiva il calpestìo e, più forti del calpestìo, quelle grida amare: “dàgli! dàgli! all’untore!” Non sapeva quando fossero per fermarsi; non vedeva dove si potrebbe mettere in salvo. L’ira divenne rabbia, l’angoscia si cangiò in disperazione; e, perso il lume degli occhi, mise mano al suo coltellaccio, lo sfoderò, si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più cagnesco che avesse fatto a’ suoi giorni; e, col braccio teso, brandendo in aria la lama luccicante, gridò: “chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l’ungerò io davvero con questo.””

Finalmente, il coltello, che in più occasioni Renzo ha portato con sé, serve a qualcosa: a minacciare, per salvare la pelle. Manzoni conosce bene la letteratura del Cinque/Seicento, e la tematica della “dissimulazione onesta”: siamo da queste parti, forse un po’oltre. Vale davvero per Renzo il passaggio di San Giovanni della Croce: “Per andare dove non sai, devi passare per dove non sai.” Anche “per quello che non sei”, si può aggiungere.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/34

(dal Capitolo XXXIII)

“E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d’albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri); diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna – nel luogo di quel poverino –, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.”

Mentre Manzoni pubblicava il romanzo, Leopardi scrisse questo pensiero, nello “Zibaldone”:

“Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagion dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è róso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro”.

(Bologna, 19 aprile 1826).

In entrambi i testi, un paesaggio naturale -un orto, un giardino.

Per Leopardi è un giardino curato: per quanto sia ben tenuto, esso dice comunque che la natura è sofferenza, basta guardarla. E la mano dell’uomo,spero ben tenere, aggiunge sofferenza.

Per Manzoni è un orto in disordine: non c’è la mano dell’uomo a tenerlo, e basta poco a ricreare la confusione: alla quale è rimedio, però, la precisione della parola, che minuziosamente s’addentra nella vegetazione.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/33

(dal capitolo XXXII)

“Da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia.”

La gente istruita è parte dei propri tempi, della cultura e della società in cui nasce e cui partecipa: pertanto, condivide coi tempi in cui vide modi d’intendere e comportamenti sociali. Manzoni ha un’idea complessa delle cose degli uomini, potremmo dire olistica e non piramidale -uno dei tratti francamente dirompenti del suo romanzo, e per questo, come sempre accade con don Lisander, intuibile solo di sfuggita, mai per esplicita asserzione.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/32

(dal Capitolo XXXI)

“In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.

Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.”

Alla conclusione del capitolo, Manzoni ci offre le ragioni che lo hanno spinto ad interessarsi tanto a fondo alla vicenda della peste di Milano, tanto da dedicarle tutto un saggio storico, la “Storia della colonna infame” (che è un vero e proprio sviluppo laterale del romanzo): la concatenazione d’idee e di convincimenti sulla natura del contagio, dalla negazione, alla sottovalutazione, alla spiegazione minimizzante fino all’interpretazione complottistica, Un caso esemplare, aggiunge l’autore, che vale per tante più modeste faccende dell’umano agire e intepretare, quando invece quello giusto sarebbe fatto di quelle azioni (osservare, ascoltare, paragonare, pensare) che in buona sostanza sono il metodo scientifico.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/31

(dal Capitolo XXX)

“Dopo un’altra po’ di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co’ loro occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera che fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati; strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via. Ne’ paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, paglia, cenci, rottami d’ogni sorte, a mucchi o seminati per le strade; un’aria pesante, zaffate di puzzo più forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per chieder l’elemosina.”

La devastazione, che gli uomini fanno -in questo caso le varie armate mercenarie susegguitesi- ha questa, tra le altre caratteristiche: azzera tutto, lascia solo il segno di sé, e Manzoni addensa in queste righe, come fossero fotogrammi in rapida sequenza, i tratti dello scempio prodotto su quella campagna ordinata, risultato, come lo scrittore nel capitolo iniziale aveva tratteggiato, di lunghe e pazienti cure di generazioni.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/30

(dal Capitolo XXIX)

“– E tu, – disse a un ragazzo, – va’ nell’orto, a dare una scossa al pesco, da farne cader quattro, e portale qui: tutte, ve’. E tu, – disse a un altro, – va’ sul fico, a coglierne quattro de’ più maturi. Già lo conoscete anche troppo quel mestiere –. Lui andò a spillare una sua botticina; la donna a prendere un po’ di biancheria da tavola. Perpetua cavò fuori le provvisioni; s’apparecchiò: un tovagliolo e un piatto di maiolica al posto d’onore, per don Abbondio, con una posata che Perpetua aveva nella gerla. Si misero a tavola, e desinarono, se non con grand’allegria, almeno con molta più che nessuno de’ commensali si fosse aspettato d’averne in quella giornata.”

Non avere quasi niente, e condividerlo. La socialità ricomincia così.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/29

(dal Capitolo XXVIII)

“Nel tribunale di provvisione vien proposto, come più facile e più speditivo, un altro ripiego, di radunar tutti gli accattoni, sani e infermi, in un sol luogo, nel lazzeretto, dove fosser mantenuti e curati a spese del pubblico; e così vien risoluto, contro il parere della Sanità, la quale opponeva che, in una così gran riunione, sarebbe cresciuto il pericolo a cui si voleva metter riparo.”

Il Capitolo XXVIII è quello delle scelte politiche sbagliate che si accatastano l’una sull’altra, ognuna presa a rimedio della precedente, ciascuna di più breve effetto di quella prima assunta, tutte destinate all’inefficacia o all’oblio o, più frequentemente, a entrambe le cose. Se la scelta politica -assunta per momentaneo ripiego o per pressione dell’opinione pubblica- è lontana da una comprensione della realtà, intende Manzoni, la realtà stessa travolgerà la scelta politica, senza riguardo.

Manzoni ha modo anche per raccontarci una di quelle decisioni che, oggi diremmo, sono assunte per “razionalizzare”: la raccolta di tutti i mendicanti al lazzaretto, contro ogni avviso degli organi di sanità, scelta politica, presa dopo la scadenza dell’ultimo momento buono, e per tirare al risparmio dell’ultimo momento. Come andrà a finire? Come sempre, allora e prima e poi, in questi casi: male.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/28

(dal Capitolo XXVII)

“Ma per avere un’idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato.

Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell’arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l’informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell’altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c’è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po’ a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt’altro: accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell’abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d’intendere; perché l’interessato, fondandosi sulla cognizione de’ fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l’incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un’interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso; se c’entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c’è stata anche l’intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr’ore disputassero sull’entelechia: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto.”

Nel Capitolo XXVII l’azione rallenta e s’arresta, tanto che qui si pone la prima decisa ellissi narrativa, che porterà la narrazione in avanti di quasi un anno. In compenso, s’interpreta molto.

Interpreta don Ferrante le cose del mondo, alla luce di una cultura saldamente abbarbicata a ciò che ha più consenso e moda, e che quindi non è detto che duri.

Interpreta donna Prassede le cose di Lucia, e quelle sue proprie, con scarsa soddisfazione di tutti.

E si interpretano i carteggi tra Renzo e Agnese, tanto che tra chi detta, quello che chi detta vuole dettare, chi scrive, quello che chi scrive vuole intendere, chi legge, chi ascolta la lettura e intende quello che vuole, le cose s’ingarbugliano un bel po’.

Resta il fatto che Lucia vuole dimenticare Renzo, si impone di dimenticare Renzo: e non ci riesce.