Nell’inverno tra il 1982 e il 1983 frequentai il corso per diventare giudice di pattinaggio artistico. Ero, neanche diciottenne, il più giovane in un gruppo di adulti che -come compresi molto tempo dopo, e li ringrazio ancora per questo- mi trattavano come un adulto (persone con cui avrei condiviso pezzi importanti di gioia e anche -proprio da adulti- alcuni dei dolori della vita). Passavamo i sabati pomeriggio a seguire, tra aula e pista, le lezioni del nostro istruttore trevigiano (lo snob Federico Biasin, che se n’è andato davvero troppo presto) negli spazi del Palamarmi.
Nello stesso inverno, ho cominciato a studiare i tragici greci, come da programma nella seconda liceo classico, sotto le stringate ed efficaci indicazioni di un professore indimenticabile (per ragioni più legate alla vita che alla scuola soltanto), Gianantonio Collaoni. Mio padre mi aveva regalato l’edizione in brossura della raccolta di tutte le tragedie greche di Sansoni, con la copertina rossa e la fulminante introduzione di Carlo Diano (“O la tyche o gli dei”), e avevo cominciato a inoltrarmi, o a perdermi (il che è forse lo stesso) in quel mondo d’intrighi, dolori, vendette e divinità sconcertanti, così lontano e così vicino.
Un sabato pomeriggio di profondo inverno, mentre la qualificazione agli Europei dei Campeones del Bernabeu incontrava un nuovo ostacolo sotto le fattezze di un improbabile pareggio a Cipro, arrivato al Palamarmi appresi che la lezione non c’era per un improvviso impegno dell’istruttore. Rincasai, facendo una deviazione verso la libreria Minerva, dove avevo visto, tra i volumi della Piccola Biblioteca Einaudi, un testo cui il nostro professore aveva fatto riferimento, durante una lezione. Lo trovai, lo comperai (ottomila lire). Lo portai a casa, iniziai a leggerlo in quel pomeriggio inatteso.
Il titolo del libro non era granché affascinante (nella mitica Einaudi non si dovevano essere sprecati, su questo punto): L’ideologia del potere e la tragedia greca. Ricerche su Eschilo. L’autore era un grecista della Normale e dell’Università di Pisa: Vincenzo Di Benedetto.
Il libro, che studiai nei dettagli nelle settimane successive, lo lessi tutto durante quel pomeriggio e nella serata. Si faceva leggere, denso sì di riferimenti testuali (e per questo molto invitante, per me) e di discussioni, ma anche dotato di una scrittura concreta, no frills, e di un’architettura argomentativa coerente. In quelle sorprendenti ore, tra Persiani Agamennone Coefore Eumenidi, seguii la storia di una città, dei nodi che la tengono insieme (o che la fanno scricchiolare), e degli interrogativi di un poeta che parla ai suoi cittadini, scandagliando la relazione tra individuo, stirpe, città e dei. Domande antichissime, e anche mie, però, sentivo.
E poi, ci fu l’estate successiva, quando cominciai a giudicare le mie prime gare di pattinaggio e mi ero definitivamente convinto che avrei studiato lettere antiche. Con qualche fatica, tra i Reprints Einaudi riuscii a trovare Euripide: teatro e società (altro titolo che, insomma…), che Di Benedetto aveva pubblicato nel 1971. Anche questo libro lo lessi, una prima volta, tutto intero: ne veniva fuori la guida per entrare nelle tragedie, a partire dalle formidabili eroine del paradosso su ciò che è bene (Alcesti Medea Fedra), la traiettoria della città durante la guerra del Peloponneso, ma, ancora di più (e, si capiva, era la cosa che forse maggiormente premeva all’autore, ma anche quella che andava detta più sottotraccia), il percorso di un individuo, il poeta, con i suoi interrogativi -sulla città, sull’uomo, sugli dei. Emblematico il finale, con il confronto tra Sofocle ed Euripide, il loro diverso modo di narrare il mito tebano, con la decisa preferenza dello studioso per la “più umana” (così lui scriveva) versione euripidea.
Più enigmatico e teso mi apparve invece il rapporto tra Di Benedetto e Sofocle, autore enigmaticissimo, oggetto di un volume della Nuova Italia (titolo, anche questo decisamente rivedibile: Sofocle) che comperai l’estate successiva, godendomi il piacere della rifilatura delle pagine. La lettura mi lasciò l’impressione della sfuggevolezza ieratica del tragediografo, che s’intrufolava nel groppo di questioni che andavo affrontando in quel momento: l’Università da cominciare, soprattutto, il che voleva dire soprattutto un esame da preparare.
Alla Normale, ovviamente. Pensai di andarci, proprio per sentire le lezioni di Di Benedetto, e poi tutti mi dicevano che ero così bravo, in greco e latino e italiano… Non mi ci vollero (altro discorso: su quello che mi mancava per poter passare quel concorso), e, nonostante i miei genitori mi proponessero di iscrivermi comunque a Pisa, decisi di andare a studiare a Padova. Qui mi comperai il giovanile studio di Di Benedetto sulla tradizione manoscritta euripidea, pubblicato, intonsissimo naturalmente, da Antenore. Bene, mi dissi, leggendolo: ogni cosa che proviamo a dire nasce da un accertamento: di fatti; di cose; di parole. Parlavo, tra me e me, di filologia -ora so che parlavo anche di altro.
Più avanti, quando ero già insegnante, quando avevo smesso di giudicare gare di pattinaggio, Di Benedetto fece una visita al tavolo di lavoro di Ugo Foscolo, andando a cercare le tracce della presenza dei classici nello scrittore: questi classici che trovano sempre il modo di rimettersi in circolo, di interrogare ed essere interrogati. C’era pure lì un tratto autobiografico, pensai, la domanda dello studioso allo scrittore sul senso del rapporto con questi lontani personaggi levantini.
Leggo ora che il Professor Di Benedetto se ne è andato da questo mondo. Non l’ho mai conosciuto, non l’ho mai visto, non so chi fosse, che persona fosse: ciò non toglie, che con quel pomeriggio d’inverno imprevisto, sia stata una figura che ha contato qualcosa per decisioni su di me che avrei poi -allora ancora non lo sapevo- preso. La terra gli sia leggera.