Gli altri finali, necessariamente al plurale
(dal capitolo XXXVIII)
“Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. – Ho imparato, – diceva, – a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere –. E cent’altre cose.
Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, – e io, – disse un giorno al suo moralista, – cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, – aggiunse, soavemente sorridendo, – che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.”
1. La modifica del titolo originario del romanzo ha messo al centro dell’attenzione il principale nodo narrativo (il matrimonio già organizzato) e ha dato al protagonista un nome più confacente alla sua vicenda movimentata, però ha distolto l’attenzione dal fatto che la storia è quella di due personaggi che, per quanto impegnatissimi a realizzare la loro unione, hanno anche attitudini e pensieri propri. Manzoni lo sa bene, ce lo ha raccontato in tutto il romanzo, ha fatto dipendere lo scioglimento del voto dalla consapevolezza che non si decide per l’altro o per l’altra, anche se è la persona che più amiamo al mondo; coerentemente, c’è un finale di Renzo, e c’è un finale di Lucia, e non si tratta dello stesso finale: è un tratto di quella dimensione romanzesca che, da Bachtin in poi, chiamiamo polifonia.
Renzo e Lucia sono una coppia, ma restano due persone. Un secolo e mezzo dopo “I promessi sposi”, un autore lontanissimo dai riferimenti di Manzoni sulle cose ultime, e pure su tante altre, ce lo ha raccontato bene, descrivendo l’amplesso tra i due protagonisti (a metà del romanzo, e non è un anticlimax, perché la natura intima della loro unione se la dovranno conquistare ancora) in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”:
“In entrambe le situazioni certamente non esistete che in funzione l’uno dell’altro, ma, per renderle possibili, i vostri rispettivi io devono anziché annullarsi occupare senza residui tutto il vuoto dello spazio mentale, investirsi di sé col massimo d’interessi o spendersi fino all’ultimo centesimo. Insomma, quello che fate è molto bello ma
grammaticalmente non cambia nulla. Nel momento in cui più apparite come un voi unitario, siete due tu separati e conchiusi più di prima.”
(L’unione intima conquistata sarà: nel letto matrimoniale, leggere ognuno il proprio libro.)
Insomma, siete sempre due, niente androgini platonici che riconquistano l’unità originaria: siete Renzo e Lucia, Ludmilla e il Lettore, e chi volete.
2. Il finale di Renzo: l’eroe, che ha inseguito la giustizia, ha verificato che non basta volerla, o cercarla, perché le cose degli uomini non se ne fanno facilmente regolare; le faccende mondane richiedono una certa accortezza, ed in effetti la grande lezione che il protagonista apprende è fatta di cautele; essa sa, e il tono amaro si avverte, di accomodamento (Raimondi, non a caso, ne “Il romanzo senza idillio” intitola il magnifico capitolo su Renzo “La ricerca incompiuta”).
3. E infatti, a Lucia non basta. Il suo finale, non a caso, viene dopo quello di Renzo, con l’effetto di un crescendo: sorridendo soavemente in direzione del marito, dopo che questi ha espresso la sua non del tutto soddisfacente -perché non soddisfacente è tutto il presupposto di Renzo, la giustizia al mondo- intuizione sulle vicende occorse (sa un po’ della Beatrice dantesca, certo, la movenza è quella; mica si chiama Lucia per niente, lei), dice una cosa antichissima, mai del tutto chiara, forse per la sua eccessiva evidenza (“Il resto è per i pazzi”, si potrebbe chiosare, citando Patrizia Cavalli), nelle avventure umane, e cioè che ci cacciamo nei casini per una sola, validissima ragione. L’amore.
4. Inizia la settimana di Pasqua, finiscono i quaranta giorni quaresimali, si conclude questo “fioretto” quotidiano, fatto di passi di un libro che ad ogni lettura si rinnova, e di modeste riflessioni personali. C’è una cosa che mi piace raccontare, ancora: questa, che segue.
La mattina, andando al lavoro, io attraverso il cortile della Fiera Vecchia di Pordenone, incrociando studenti che vanno verso altre scuole del Centro Studi, In questo periodo, in particolare ce n’erano due -un lui e una lei, sui sedici/diciassette- che un mese fa pareva si affiancassero per caso, poi hanno cominciato a fermarsi un po’, quando si incontravano, poi hanno preso a parlare fitto e a camminare piano; qualche mattina i toni della voce erano più alti e irritati; in queste ultime giornate, con la primavera che si fa sentire, mi passano accanto tenendosi per mano.
Non sono una persona di grande originalità: tra me e me li ho chiamati, in tutti questi giorni, Renzo e Lucia. Non l’ho fatto apposta.