(dal Capitolo XXXI)
“In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.
Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.”
Alla conclusione del capitolo, Manzoni ci offre le ragioni che lo hanno spinto ad interessarsi tanto a fondo alla vicenda della peste di Milano, tanto da dedicarle tutto un saggio storico, la “Storia della colonna infame” (che è un vero e proprio sviluppo laterale del romanzo): la concatenazione d’idee e di convincimenti sulla natura del contagio, dalla negazione, alla sottovalutazione, alla spiegazione minimizzante fino all’interpretazione complottistica, Un caso esemplare, aggiunge l’autore, che vale per tante più modeste faccende dell’umano agire e intepretare, quando invece quello giusto sarebbe fatto di quelle azioni (osservare, ascoltare, paragonare, pensare) che in buona sostanza sono il metodo scientifico.