quattro cose (dopo una cena di maturità)…

…ai miei allievi di III B, dopo la cena di classe di ieri sera  (una cena di buona conversazione, aneddoti, riflessioni serie -non entreremo in nessun cast di film del sottogenere maturità, temo). Ma prima delle quattro cose, grazie per tutti i momenti nei quali, in questi tre anni, mi avete dato da riflettere, su come fare -ed essere- in un’altra maniera. E poi, lo so: ciascuno di voi ha il suo momento -personale- in cui ha fatto fatica a capire che volessi da lui: ma anche il momento in cui ci si è capiti -anche sorprendentemente, magari (e magari vi capiterà anche più avanti, o capiterà a me).

Insomma, le quattro cose, per il futuro, che riprendo dalla nostra conversazione dell’ultimo giorno di scuola.

Prima cosa. Datevi da fare per dire sempre parole di cui siate pronti a rispondere senza esitare: parole vostre, precise e discernenti, intrise del vostro senso di responsabilità. Le parole giuste da dire nel momento in cui vanno dette -non ho detto quelle “vere”, ho detto (ed è roba più importante) quelle “giuste” (e voi che avete fatto il classico sapete che Dike non scherza).

Seconda cosa. Non presumete mai di sapere tutto -su niente. Nemmeno sulla cosa che sapete meglio e più di tutti. C’è sempre un dettaglio di mondo che racconta daccapo un mondo (abbiamo letto Gadda, no?).

Terza cosa. Fate esercizio a tenere, sempre, un angolino di voi che si permetta di guardarvi da fuori, che non si faccia schiacciare dall’infinita e pavloviana serie di reazioni automatiche alle cose del mondo.

E, quarta: fate sempre il vostro meglio. Non la perfezione, ché quella alla lunga finisce col diventare una scusa per non fare. Il meglio, laddove siete, con quello che avete, con quelli che avete.

Bene: in bocca al lupo per l’esame, e poi fuori, a conquistare il mondo, che ha bisogno che voi gli vogliate bene: e ne siete capaci.

2 giugno, il “mio” articolo

Con alcuni frequentatori della pagina Facebook della mia scuola ci siamo proposti, per il 2 giugno, di “adottare” ognuno un articolo della Costituzione, e di spiegare perchè.

Io ho scelto l’articolo 5, quello che suona così:

“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.”

La parola-chiave di questo articolo, ripetuta due volte, è “autonomia”. Una parola antica, e seguirne un po’ l’etimologia (attività cui, per formazione, sono incline), ne mostra una densa articolazione. Essa si compone, prima di tutto, infatti, del prefisso “auto” che rimanda al greco “autòs”, il pronome della riflessività, il che richiama dunque il fatto che il concetto veicolato cade nell’ambito di quanto dipende dal soggetto. In secondo luogo, c’è un’altra parola greca, “nomos”: e su questa qualche riflessione in più sta bene.

Dunque: “nomos” è il “pascolo”. Ed il pascolo è il posto dove si portano pecore e capre a nutrirsi. Non roba da Heidi e Fiocchi di Neve, storicamente: ma ambiente di fiere contese, in alcuni casi cruente. Bisogna mettersi d’accordo sull’uso del pascolo: se si vuole sopravvivere, prima di tutto.

Ecco. “nomos” è questo. Il pascolo, dove ci si trova più volte con pecore e capre, e dove dai e dai, a furia di trovarsi (e magari scontrarsi) si cominciano a negoziare regole, turni, condivisioni. “Pascolo” diventa “abitudine” e abitudine diventa “norma”. Niente di rigido, insomma, anzi: il lavorio paziente delle relazioni.

Dunque: “autonomia” è, per etimologia, il trovare dentro di sé le ragioni che consentono di vivere la socialità, nell’ambito delle relazioni tra me e gli altri, in tutte le loro implicazioni.  Qualcosa di molto kantiano, per gli appassionati di filosofia: o, se vogliamo, qualcosa di molto vicino alla nostra capacità, fin da piccoli, di regolarci, e di giocare a pallone con gli amici senza arbitro.

Così, perché ad imbrogliare, il pascolo va in rovina, e con lui, noi.