Non sono stati quella i giorni (a proposito di un pacco di compiti in una borsa da viaggio)

Domenica 27 marzo 1994 c’era l’ora legale, la mattina il sole, robusto sole di primavera, squagliava la neve delle piste sopra Gressoney. A pranzo con gli amici, gli amici di tante gare di pattinaggio giudicate insieme, parlammo, anche, di politica, certo, ma giusto per esprimere, chi le espresse, un paio di simpatie, si sapeva d’avere idee diverse, ma stavamo lì insieme perché, ragazzi e indefiniti, ci eravamo trovati a condividere la passione per uno sport, dopo averlo praticato.
Ora eravamo un po’meno ragazzi,indefiniti più o meno ancora, rispetto a carriere lavorative appena iniziate, a famiglie appena abbozzate, o da abbozzare. Di questo, semmai, parlavamo; questo, semmai, segnava le differenze che tra noi avvertivamo: rispetto al lavoro, ai soldi, ai figli e ai genitori, ai gusti, ai desideri. E parlando insieme, la sera prima a cena e ora a pranzo, prendendo il davanti alla sciovia, che le nostre traiettorie cambiassero era ormai evidente.

Dopo pranzo ci salutammo, gli amici di Pavia mi accompagnarono in auto fino a prendere il treno per tornare a casa da Novara: a completare una settimana fatta di un gita scolastica a Firenze e poi di questa due giorni in Val d’Aosta, un sacco di ore di treno per leggere “Destra e sinistra” di Bobbio  e “Sostiene Pereira” di Tabucchi, appena usciti; ore per correggere pure il pacco di compiti di greco messi nella borsa da viaggio.
A sera fonda, ormai verso casa, ripassai l’elenco di cose da fare del giorno dopo, le cose del lunedì, con un pensiero agli amici che intanto tornavano pure loro nelle loro case, coi loro diversi pensieri, con le loro diverse agende. Coi loro sempre più diversi pensieri, con le loro sempre più diverse agende.

C’era anche da andare a votare, il lunedì, certo, in maniera diversa, lo sapevo, dagli amici con cui avevo passato quel sabato e quella domenica. Ma non era su quella differenza che avvertivo il senso delle differenze che c’erano tra di noi.
Non lo pensavo allora, e nemmeno in seguito l’ho pensato, e pure questo vuol dire qualcosa di una generazione. Non sono stati certo quelli i giorni che ci hanno cambiati. E più che quello che venne a partire dalla sera del 28, immagino che il senso di quelle differenze -grandi o piccole che fossero, per quello che possano voler dire, o aver voluto dire, quelle si avvertivano allora grandi e poi furono piccole, e quelle piccole che si vennero a scoprire grandi- stesse in quanto facemmo nei nostri viaggi di ritorno.
Ad esempio, in un pacco di compiti in un borsa da viaggio.

prima v’era

Tra tutte le contingenze, circostanze, evocazioni che si possono richiamare in questo inizio di primavera astronomica  (quella meteorologica abbia ad essere quel che sia), in questo scorcio di tempo sempre più urgente di politica (e sempre più inflazionato di retoriche ad locum), buona mi par comunque, forse per quegli studi fatti non si sa bene perché (e che andando nel tempo concesso non si sa ancora bene perché, ma si comprende che un perché c’era) la memoria di quella cittadina che sospendeva le sue attività e si mostrava a se stessa, e a chi volesse vedere, puntando dritto verso i propri nodi più oscuri e inesprimibili, ché solo mirando a quelli ogni qualchesivoglia discorso prende il suo pur fragile senso, soprattutto quello di comunità.

L’aere mutato, nuovo sì ma pure antico, impastava menti e corpi, dunque, alle Grandi Dionisie, sotto il cielo attico dei giorni di questo periodo del mese di marzo, ad Atene, ch’era in greco antico un nome plurale, e qualcosa pure questo vuol dire.