Odisseo, Penelope, un po’ di scuola e la durata

Tempo di riletture, quest’estate l’Odissea nei bei volumi, retaggio dei tempi tra Liceo e Università, della Fondazione Lorenza Valla. Come sempre capita nelle riletture, attenzione nuova a passaggi che, in tempi passati, meno avevano stimolato curiosità, riflessione, bisogno di approfondimento.

In particolare, mi ha dato motivo di qualche riflessione l’episodio centrale del ventitreesimo libro (uno degli snodi di tutta la vicenda), quello del laborioso riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope.

Anzitutto, lei si aspetta che lui sia ben pulito e sistemato, anche se lo ha in fondo già riconosciuto (e ci sta tutta: la cura per l’incontro con l’altro e per ciò che di noi mostriamo in ogni incontro, anzi, in generale andrebbe rivalutata); poi, lo sottopone al famoso quiz sul segreto del talamo nuziale. A questo punto, gli Dei allungano la notte oltre misura per dare ai due il tempo di fare le loro cose -soprattutto di raccontarsi.

(En passant: rileggendo l’episodio, mi è parso di capire meglio una delle quartine di Patrizia Valduga, quella che conclude la prima centuria:

«Vuoi che tutto finisca e niente duri?
che ognuno vada a fare i fatti suoi?
stacco il telefono, chiudo gli scuri:
e che la notte ricominci! Vuoi?»

Ci sono Penelope e Odisseo, dietro, ho idea.)

La cosa che mi ha dato da pensare è proprio quest’ultima; non è ovviamente (come tutte le cose che penso) niente di che, ma è anche una cosa che mi è parsa sfuggirmi (o meglio: che mi è sfuggita senza accorgermene) spesso, quest’anno.

(Apro un altro inciso: quest’anno scolastico. Anno fatto di tantissime cose, di tantissime novità, tra la scuola di titolarità e la scuola di reggenza -l’anno vissuto da tanti dirigenti scolastici, insomma, una successione di impegni importanti e frenetici; se a qualcuno interessa, potrei anche, senza lamentazione, raccontarli.)

La cosa che ho pensato è: le cose degli uomini hanno bisogno di durata. Di tempo per svolgersi, dipanarsi, sedimentarsi, semplificarsi o complessifarsi (passatemela); di tempo per il racconto. Durata: aria, respiro, tempo e spazio. E niente fretta, banalizzazione, niente istantanee.

E non ci sono scorciatoie.

 

 

 

 

La cura del fragile equilibrio

Il.posto dove è stata scattata la foto è il Museo Archeologico Nazionale di Metaponto (che è già nel nome cosa su cui riflettere: “Oltre il mare”, la terra che tu,  miceneo,  acheo,  tessalo e altro ancora, trovi dopo essere sbarcato venendo via da carestie guerre contrasti politici) . Ci si arriva uscendo dalla Statale 106, passando in mezzo a casolari abitati da giovani africani che son qui per lavorare la terra, e tra le case anni Settanta figlie di una stagione di ottimismo di turismo da vacanza al mare.  

Il Museo è moderno e ben tenuto e le sale sono climatizzate; pure gli scavi archeologici di Metaponto e di Tavole Palatine sono ben in ordine. Gli scavi non hanno vigilanza,  il Museo non ha nessuna pubblicazione da fornire o vendere, salva la squisita cortesia dei bigliettai. Insomma, si fa il massimo con risorse palesemente limitate: ma si fa. Naturalmente di app per le visite non se ne parla (non ho fatto la prova dei PokemonGo): dico questo per segnalare delle possibilità, dato che Museo e scavi sono davvero straordinari. E in fondo Matera -quella che giustamente sarà capitale europea della Cultura nel 2019- dista poco più di mezz’ora.

E dico questo anche per dire che queste due cose -museo, scavi-, che a un classicista come me danno entusiasmi di vario tipo, le abbiamo raggiunte non già astraendo dal mondo (come una certa e bamboleggiante idea di classicismo ancora suggerirebbe), ma standoci ben dentro: dentro i difficili collegamenti stradali,  dentro le colate di cemento anni Settanta, dentro i raccoglitori senegalesi e i tagli ai fondi per i beni archeologici.

E tra le meraviglie esposte a Metaponto c’è il vaso di cui vedete sopra un’immagine. Sta nella sezione dedicata alle cose di vita quotidiana -qui è la sezione sul corteggiamento. Ma la metafora mi pare valga più in generale.

I due Eroti che vedete stanno su una specie di altalena appoggiata, si direbbe, sul niente.  Però, su questo niente stanno in equilibrio, guardandosi e tenendosi con un drappo: sottile e fragile, ma necessario.

È -per me- una bellissima immagine dell’amore di coppia, ma -appunto- la vedo anche come una metafora del nostro vivere umano: i rapporti, che ci danno un senso nel fragile equilibrio su qualcosa di ignoto, vanno curati. Guardandosi. Insieme.

Fare i bagagli

Carichi la macchina constatando riti che si mantengono -mettere in borsa meno roba possibile, per lasciare lo spazio a più libri possibili- e nuove attenzioni -le medicine ci son tutte? Il modem, i cavi, le batterie?-. Chiudi acqua gas luce secondo le consuetudini (di cui sorridevi) prese da tua madre; getti, prima di uscire, un’occhiata a una casa che senti provvisoria -come molte cose di questi anni-; ma l’ultima occhiata è ai libri sugli scaffali, e lì ti riconosci in tempi pensieri e attitudini che vengono da prima di adesso, e che sono molto più presenti (anche se spesso in silenzio) di quello che chiami presente.

Vai dai tuoi figli, che caricano borse che, col loro contenuto, raccontano meglio di ogni altra cosa l’anno che è passato dall’altro viaggio. Un’occhiata in controluce alla vetrata del portone d’ingresso della loro casa ti convince che bisogna fare qualcosa per questa inattesa panzetta. 

Ma è ora di muoversi; ti aspettano mare e cielo e sole, carichi di tutta la storia di gioie e dolori del mondo, di un pezzo della storia della tua famiglia, e di un punto di vista antico, che ti si è radicato dentro e che fiorisce nel tempo in cui ti muovi.

E comunque hai portato anche stavolta gli orsetti.