Il piano di studi della mia laurea in lettere (che, mica pochi anni fa, ho trovato definita di “vecchio ordinamento” -ora quindi cosa sarà: vecchissimo? vintage? antiquariato?) prevedeva che, qualunque indirizzo (moderno o classico che fosse) si scegliesse, per poter accedere all’insegnamento un esame in particolare era ineludibile, quello in geografia.
La vulgata che lo accompagnava lo faceva impegnativo e minuzioso e quindi non collocabile tra le più immediate priorità dei giovani letterati storici e filosofi. E mi regolai di conseguenza, rinviandolo tra gli ultimi del mio percorso.
Dopo che il nuovo Preside della Facoltà, interpellato in merito, escluse che per “Geografia” si potessero intendere gli esami di “Geografia turistica” e “Geografia politica”, i cui programmi apparivano più accattivanti, all’inizio del terzo anno di corso, orari delle lezioni alla mano, decisi che fosse il tempo di affrontare quell’esame.
Le lezioni erano pomeridiane -di precoce pomeriggio, di postprandiale pomeriggio-, in una grande aula al Dipartimento di Geografia, cioè per noi fuori casa, a Scienze Politiche (effetti collaterali di quelle lezioni in partibus, convivenze matrimoni figliolanze e divorzi tra letterati e politologi). In aggiunta alle ore della titolare, erano previsti dei settimanali approfondimenti di cartografia e climatologia da parte di una sua assistente; caratteristica interessante di queste ore era che la loro frequentazione avrebbe consentito di accedere al preappello di fine maggio, che si favoleggiava essere un po’ meno arcigno degli altri. in più, per chi volesse, c’erano pure dei gruppi di lavoro detti “seminari” i cui partecipanti avrebbero (si diceva) goduto di trattamenti vieppiù agevolati in sede d’esame.
Affidandomi a un saggio intendimento -affrontare per prime le incombenze più moleste- di cui non sempre (anzi quasi mai) ho dato prova nella mia vita, e al mio nerdico senso del dovere, mi accomodai a frequentare lezioni e seminari, in vista del preappello. Capitò dunque che, leggendo il primo romanzo di Ellis, fui presente nei due pomeriggi di approfondimento in cui si presero le firme da far valere per il diritto di preappello (il secondo coincise con lo scioglimento, nel libro del giovane prodigio statunitense, del mistero della terza superbugia – la più tremenda di tutte, e non ve la dico per non rovinarvi la lettura o la rilettura di quelle pagine di Less than Zero).
(Il corso come fu? Lezioni un po’ scialbe, ma bei libri da studiare, che mi fecero capire bene la geografia fisica e scoprire una passione, quella per la cartografia delle tavolette IGM comprate da Draghi-Randi, là, dove un tempo si ordinavano le edizioni oxoniensi ed ora si comprano profumi)
Insomma: il pomeriggio del 27 maggio di quella mia era antica mi presentai per quell’esame, un esame strano ed eccentrico, ma che andava fatto. La leggenda si rivelò non fondata, a riguardo delle facilitazioni per i frequentatori del seminario, molti dei quali furono tartassati; io me la cavai, meglio di quanto pensassi, grazie al fatto di aver capito le coordinate azimutali e a una lettura della tavoletta IGM delle risorgive naoniane. Me la cavai con l’impressione continua di essere in un terreno affatto diverso rispetto a quello cui ero abituato e cui avevo legato interessi, sogni e aspettative; e tuttavia, me la cavai attingendo a risorse che mi ero ritrovato tra le mani seguendo, e faticato su, interessi, sogni e aspettative.
Ma era proprio una giornata strana, di quelle inafferrabili. Del resto, quella sera il Porto vinse la Coppa dei Campioni con un gol di un giocatore scartato dall’Inter, Juary.
Non lo sapevo ancora, ma proseguendo negli anni scoprii che associare l’Inter alle bizzarrie sarebbe stato frequente.