Pasquetta

Il sole che finalmente entra in camera, il silenzio che si protrae nella mattinata, dagli appartamenti del condominio, dalla strada: Pasquetta. Mi metto in auto, imbocco il viale, rallento per svoltare verso casa dei miei. Parcheggio. Rifletto. Ho incrociato, fin qui, cinque persone: un signore che, contromano, risaliva il viale col suo girello; una signora, appoggiata ad una badante dell’Europa dell’Est, davanti al panificio; un’altra signora, a braccetto con una delle figlie, davanti alla farmacia. Conosco tutte e tre le persone anziane che ho incontrato, le conosco da quando non erano anziane (trent’anni? più?) e io abitavo da queste parti.

Dalla stradina dove stanno i miei ritorno sul viale. Il signore col girello si è fermato, sta davanti alla fontana asciutta della chiesa del Beato Odorico. Parla con un signore della sua età, che pure conosco, appoggiato al suo mezzo di movimento. Chissà di cosa.

Una mattina di sole come questa, ma più fresca -era metà marzo ed eccezionalmente non c’era lezione all’Università-, accompagnai mio nonno a trovare le sue sorelle. Salimmo sul 7 di fronte a casa, in via del Carso, e scendemmo in piazza Castello. Prima di rifare il percorso per tornare, sostammo da un ferramenta del centro. Appena scesi, di nuovo in via del Carso, mi disse che gli era proprio piaciuto quel giro non previsto in centro, ma che faceva troppa fatica a salire i gradini del tram. Il nonno aveva percorso cauto, ma con passo regolare, le scale che portavano all’appartamento delle prozie, ma quei tre scalini di acciaio erano troppo alti e senza appigli sicuri, per come la vedeva. Può essere che sia stata l’ultima volta che si è mosso in tram, non so, devo chiedere ai miei cugini.

Però era contento. Io lo ero appena partiti, verso casa invece mi prese uno sconforto, che aumentò man mano che si andò avanti nella giornata, Ero contento per il nonno e per la giornata di sole, ma tutto il gusto se lo portava via la sera che avanzava. Avevo vent’anni e mi aspettavo dalla vita risposte piene e confortanti, che non trovavo.

Mentre il signore col girello ha salutato il suo conoscente e ancora sta fermo, si fa forza sulle sbarre ma non si muove, la signora con la badante attraversa la strada, sulle strisce davanti alla chiesa, e imbocca la laterale. Parlano, chissà di cosa. Io fingo di consultare il telefonino, per darmi una giustificazione dell’essere lì, fermo.

In realtà, ci fu un’altra passeggiata col nonno, un’altra mattina, una domenica nuvolosa di febbraio. Era un po’ meno freddo dei giorni precedenti, accompagnai il nonno a fare un giretto attorno all’isolato, credo duecento metri. Lui non parlava gran che, badava a muoversi senza inciampare, io lo tenevo a braccetto. La nonna ci aspettava, di sopra, coi miei. Era la prima volta che si era dimenticata del mio compleanno, capitato in quei giorni. Mi pareva impossibile, lei che ricordava, di nove figli e una ventina di nipoti, date di nascita e onomastici. La volta successiva, che tornai in quella casa, era per la morte di lei, neanche tre mesi dopo. Poi il nonno andò in casa di riposo.

Il signore col girello si è mosso, torna indietro, la fontana senz’acqua era evidentemente la sua meta per questa passeggiata. La signora e la badante sono in fondo alla stradina, adesso piegano a sinistra, in un’altra via interna. Guardo indietro, sul viale; la signora che passeggiava con la figlia è passata dall’altro alto della strada, ora cammina davanti all’edicola chiusa. Parlano tra loro, chissà di cosa.

A vent’anni mi aspettavo risposte dalla vita.

Le risposte, lo so bene ora, me le sarei dovuto faticare io, e non sarebbero mai state così nette come mi sarebbe piaciuto. Una, è questa: c’è un senso, c’è molto senso, a Pasquetta, con le fatiche di tanti anni addosso, muoversi per un viale quieto della piccola città e parlare con qualcuno. Chissà di cosa.

buon onomastico

Non gli dispiacevano i compleanni. Non che amasse andare al telefono a rispondere alle chiamate d’auguri, ma apprezzava le visite, specie quelle di noi nipoti, e tra queste in maniera specialissima quelle dei più piccoli, indisciplinati e schiamazzanti -e quindi, ai suoi occhi, indiscutibilmente adorabili (le loro mamme, le sue figlie, se ne facessero ragione). Con l’andare del tempo, ad ogni compleanno coglievamo il lampo d’orgoglio negli occhi, la vigorosa sorpresa di avere aggiunto un anno ancora ad una conta ragguardevole.

Non gli dispiacevano i compleanni, ma gli piaceva molto, molto di più il giorno del suo onomastico, il 29 giugno, che spesso festeggiavamo insieme. Penso -è una cosa, una delle tante, che non gli ho mai chiesto, e nemmeno credo avrei mai avuto idea di chiedergli, nei nostri pomeriggi a parlare dei tempi d’oro del ciclismo, della prigionia in Germania, dei leoni d’Etiopia e delle grondaie in rame- che fosse per come quel suo nome si declinasse nella trama di lingue che lo attraversavano.

In italiano suonava netto, secco, roccioso appunto, l’immagine del pater familias affidabile e inattaccabile che riteneva di dover rappresentare.

Nel dialetto di casa -vicentino dentro le mura-, privo della “t” aveva la rotondità blanda (e talora infida) delle conversazioni di famiglia, a partire dalla conversazione per eccellenza, quella con sua moglie, che Piero lo chiamava e che Gina veniva da lui chiamata, né mai diversamente tra loro si chiamavano.

E poi c’era la lingua peduta dell’infanzia, recuperata per noi nipoti nel retro di una fotografia datata 1912: “Piareto”, pronunciato con l’affetto dovuto alla piccola peste, quel bambino con lo sguardo gentile e sfrontato, coi calzoni corti e la zazzeretta impertinente, che stava ad annusare la vita, coi suoi 10 anni, tra le due severe ed impettite sorelle, i due austeri genitori, il bellissimo e malinconico fratello maggiore, il Leone ragazzo del 1899 e come tanti suoi coetanei destinato a venir inghiottito ragazzino dal fronte del Piave.

Portare, in testa al mio, un pezzo del tuo nome è una delle schegge scintillanti della vita che mi è capitata. Buon onomastico, Piareto.