Quaranta passi da “I promessi sposi”/18

(dal capitolo XVII)

“Ma prima di tutto, bisogna che t’avverta d’una cosa. Sai come ci chiamano in questo paese, noi altri dello stato di Milano?

– Come ci chiamano?

– Ci chiaman baggiani.

– Non è un bel nome.

– Tant’è: chi è nato nel milanese, e vuol vivere nel bergamasco, bisogna prenderselo in santa pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è come dar dell’illustrissimo a un cavaliere.

– Figliuolo mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto, non far conto di poter viver qui. Bisognerebbe esser sempre col coltello in mano: e quando, supponiamo, tu n’avessi ammazzati due, tre, quattro, verrebbe poi quello che ammazzerebbe te: e allora, che bel gusto di comparire al tribunal di Dio, con tre o quattro omicidi sull’anima!

– Lo diranno, m’immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire.

– E un milanese che abbia un po’ di… – e qui picchiò la fronte col dito, come aveva fatto nell’osteria della luna piena. – Voglio dire, uno che sappia bene il suo mestiere?

– Tutt’uno: qui è un baggiano anche lui. Sai come dice il mio padrone, quando parla di me co’ suoi amici? “Quel baggiano è stato la man di Dio, per il mio negozio; se non avessi quel baggiano, sarei ben impicciato”. L’è usanza così.

– L’è un’usanza sciocca. E vedendo quello che sappiam fare (ché finalmente chi ha portata qui quest’arte, e chi la fa andare, siamo noi), possibile che non si sian corretti?

– Finora no: col tempo può essere; i ragazzi che vengon su; ma gli uomini fatti, non c’è rimedio: hanno preso quel vizio; non lo smetton più. Cos’è poi finalmente? Era ben un’altra cosa quelle galanterie che t’hanno fatte, e il di più che ti volevan fare i nostri cari compatriotti.

– Già, è vero: se non c’è altro di male…

– Ora che sei persuaso di questo, tutto anderà bene. Vieni dal padrone, e coraggio.”

Renzo ha passato l’Adda, ha dato in elemosina i suoi ultimi denari, ed ora davvero ricomincia tutto daccapo. Non ne è ancora consapevole appieno: avrebbe già voglia di attaccar briga per i soliti futili motivi campanilistici che tanto piacciono storicamente nelle lande italiche. Il cugino Bortolo lo richiama, senza tanti orpelli, ad un dato di realtà; nel bel posto che rimpiange, belle galanterie gli volevano fare.

L’educazione sentimentale di Renzo ha inizio.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/17

(dal capitolo XVI)

“– E per questo, – disse uno della brigata, – io che so come vanno queste faccende, e che ne’ tumulti i galantuomini non ci stanno bene, non mi son lasciato vincere dalla curiosità, e son rimasto a casa mia.

– E io, mi son mosso? – disse un altro.

– Io? – soggiunse un terzo: – se per caso mi fossi trovato in Milano, avrei lasciato imperfetto qualunque affare, e sarei tornato subito a casa mia. Ho moglie e figliuoli; e poi, dico la verità, i baccani non mi piacciono.”

Non così, i buoni e bravi e cauti avventori dell’osteria, poche pagine sopra, all’arrivo di Renzo: tutto un desiderio d’essere a Milano, al centro delle cose, invece. Bastano i racconti truci del mercante per spegnere i bollori; intanto, però, Manzoni ha notato finemente questo, la quantità di rabbia repressa che abita nella buona e brava e cauta gente. Renzo sta in un angolo, attento a non tradirsi, eppure (anche se non lo sa) giganteggia: lui, in fondo, era in città in cerca della giustizia. Ma finirà per trovare, e i segnali stanno già alla fine del capitolo, quando egli si alza, qualcosa di meglio.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/16

(dal capitolo XV)

“– Badate a voi; giudizio, figliuolo; peggio per voi vedete; non guastate i fatti vostri; l’onore, la riputazione, – continuava a susurrare il notaio. Renzo faceva peggio. I birri, dopo essersi consultati con l’occhio, pensando di far bene (ognuno è soggetto a sbagliare), gli diedero una stretta di manichini.

– Ahi! ahi! ahi! – grida il tormentato: al grido, la gente s’affolla intorno; n’accorre da ogni parte della strada: la comitiva si trova incagliata. – È un malvivente, – bisbigliava il notaio a quelli che gli erano a ridosso: – è un ladro colto sul fatto. Si ritirino, lascin passar la giustizia –. Ma Renzo, visto il bel momento, visti i birri diventar bianchi, o almeno pallidi, “se non m’aiuto ora, pensò, mio danno”. E subito alzò la voce: – figliuoli! mi menano in prigione, perché ieri ho gridato: pane e giustizia. Non ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m’abbandonate, figliuoli!

Un mormorìo favorevole, voci più chiare di protezione s’alzano in risposta: i birri sul principio comandano, poi chiedono, poi pregano i più vicini d’andarsene, e di far largo: la folla in vece incalza e pigia sempre più. Quelli, vista la mala parata, lascian andare i manichini, e non si curan più d’altro che di perdersi nella folla, per uscirne inosservati. Il notaio desiderava ardentemente di far lo stesso; ma c’era de’ guai, per amor della cappa nera. Il pover’uomo, pallido e sbigottito, cercava di farsi piccino piccino, s’andava storcendo, per isgusciar fuor della folla; ma non poteva alzar gli occhi, che non se ne vedesse venti addosso. Studiava tutte le maniere di comparire un estraneo che, passando di lì a caso, si fosse trovato stretto nella calca, come una pagliucola nel ghiaccio; e riscontrandosi a viso a viso con uno che lo guardava fisso, con un cipiglio peggio degli altri, lui, composta la bocca al sorriso, con un suo fare sciocco, gli domandò: – cos’è stato?”

Diciamocelo: su un sito di notizie, o su un quotidiano, leggeremmo più o meno una cosa di questo tipo:

“-Milano.

Approfittando della confusione, un filatore di Lecco, Lorenzo Tramaglino, fermato per il suo coinvolgimento nell’assalto ai forni dei giorni scorsi, è riuscito ad eludere l’arresto. Le ricerche sono in corso in tutto il territorio dello Stato. Secondo alcune fonti, il Tramaglino, noto già alle forze dell’ordine del lecchese, sarebbe sospettato di essere uno dei capi dei rivoltosi.”

Mettiamola come vogliamo, ma Renzo si salva andando contro la giustizia: quella rappresentata in carne ed ossa, dal giudice e dai due birri, e quella esercitata dalle autorità milanesi.

Dentro il capitolo XV, il protagonista del romanzo ha il modo di verificare concretamente che, a questo mondo, non è detto che ci sia giustizia: anzi, ad attenderne docilmente il corso, il “finalmente” che Renzo pronuncia tra sé e sé per darsi coraggio dopo l’avventura con l’Azzeccagarbugli avrebbe, per lui, qualcosa di tristemente definitivo. Con la giustizia mondana bisogna cavarsela, conoscendo le cose del mondo e regolandosi di conseguenza: Manzoni ci ha già messi sull’avviso, quando l’onesto servitore di don Rodrigo origlia di nascosto le conversazioni del suo principale e le riferisce a fra Cristoforo, che giustamente lo ringrazia: c’è, insomma, un’altra giustizia, che non va sempre d’accordo con quella quotidiana, e che anzi ogni tanto si fa furba rispetto a quella.

Ma non è che sia una giustizia meno esigente (e Renzo ha ancora strada da fare, uscendo da Milano, per capirlo); è una giustizia che prende sul serio quello che Renzo dice per farsi aiutare, e che viene dai più preso ironicamente, o al contrario (come quando, nel capitolo XIV, affermava tra le risa che avrebbe volentieri pagato al produttore il pane raccolto da terra): “mi menano in prigione, perché ieri ho gridato: pane e giustizia. Non ho fatto nulla.” Ogni parola è vana e risibile per la giustizia degli uomini; è vera, per quell’altra giustizia, ed è ciò che, per l’autore, conta di più.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/15

(dal capitolo XIV)

“Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: “noi eravamo stamattina nella ciotola d’un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt’intento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private”. Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. S’alzò, al rumore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista ch’ebbe la guida, “maledetto!” disse tra sé: “che tu m’abbia a venir sempre tra’ piedi, quando meno ti vorrei!” Data poi un’occhiata in fretta a Renzo, disse, ancora tra sé: “non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti conoscerò”. Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell’oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi.”

In queste righe, Manzoni predispone la scena per la recita sgangherata di Renzo, destinata al fallimento fin dall’inizio, incentrata com’è -sia nella parte sobria, che in quella etilica- sull’idea fissa del protagonista, la giustizia, in un locale che gronda l’esatto contrario di cio ch’è giusto in ogni anfratto. L’unica giustizia, che al momento sta in attesa, è quella, ufficiale, del birro che vuole arrestare Renzo, ed è anch’essa manifestazione di somma ingiustizia. Tutto è pronto per la rovina di Renzo. E -noi sappiamo- per il fragoroso scarto che invece avverrà.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/14

(dal capitolo XIII)

“E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Chi con ciottoli picchiava su’ chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l’unghie, non avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s’ingegnavano di levare i mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata de’ lavoranti: giacché, per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento.”

L’eterogenesi dei fini all’opera: chi vuole catturare il vicario di provvisione, chi (come Renzo) vuole difenderlo. Ognuno porta il suo contributo, che si traduce soprattutto in impiccio su impiccio, a rallentare il deprecabile intento dei più: come, nota l’autore, capita putroppo (e spesso) anche quando si cerca di fare il bene.

Buona intenzione, buoni mezzi, buona scelta dei tempi: in filigrana, una piccola lezione d’etica aristotelica.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/13

(dal capitolo XII)

“I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d’alcune derrate, d’intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d’attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore.”

La “moltitudine”: già Manzoni ne ha seguito le dinamiche, già l’ha intesa come soggetto collettivo nel capitolo IX, quando essa, come s’era agitata per lo scampanio, poi si era acquietata, convinta da un passaparola. Qui, ci accostiamo al versante eminentemente politico dei comportamenti della massa, e l’autore ci propone subito alcuni avvertimenti: la moltitudine vive i problemi e vuole le soluzioni, subito; poco importa siano praticabili. E se la moltitudine trova chi la assecondi in questo senso, iniziano i problemi: compiacere ai sentimenti di massa non è politica, intende lo scrittore.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/12

(dal capitolo XI)

“Dati tali ordini, don Rodrigo se n’andò a dormire, e ci lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi, dalle quali traspariva evidentemente l’intenzione di risarcirlo degl’improperi precipitati coi quali lo aveva accolto.

Va a dormire, povero Griso, che tu ne devi aver bisogno. Povero Griso! In faccende tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader sotto l’unghie de’ villani, o di buscarti una taglia per rapto di donna honesta, per giunta di quelle che hai già addosso; e poi esser ricevuto in quella maniera! Ma! così pagano spesso gli uomini. Tu hai però potuto vedere, in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo. Va a dormire per ora: che un giorno avrai forse a somministrarcene un’altra prova, e più notabile di questa.”

Nella partitura romanzesca, il capitolo XI è uno snodo, nel quale si preparano parecchi guai per Lucia e Renzo (il quale da subito, e l’autore mette sull’avviso in tal senso, fornisce un buon contributo alle proprie molestie): eppure, l’autore si permette un piccolo inciso, che contiene anche un’ellittica anticipazione, per una figura secondaria, il Griso, il fedele (per ora) scagnozzo di don Rodrigo, molto indaffarato a quest’altezza del testo. Le recenti vicende (la mancata riuscita del rapimento di Lucia, sembrerebbe di capire) sono, per la voce narrante, una manifestazione del fatto che qualche volta (qualche volta! perché la regola mondana è un’altra, come già ha chiosato a proposito di Renzo nel IV capitolo) la giustizia fa capolino: e il Griso, dice l’autore, ne darà una prova maggiore più avanti. Poiché il contesto delle azioni del Griso è sempre connesso a don Rodrigo, siamo avvisati che sarà su questa relazione che dovremo prestare la nostra attenzione: e, forse, non sarà cosa così semplice, come adesso ci appare.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/11

(dal capitolo X)

“Poco dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell’educande; ora pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina. Le sue antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di quel tempo; e, in un modo o in un altro, l’allieve dovevan portarne il peso. Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrattava, faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno. Chi avesse sentito, in que’ momenti, con che sdegno magistrale le gridava, per ogni piccola scappatella, l’avrebbe creduta una donna d’una spiritualità salvatica e indiscreta. In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l’ubbidienza, scoppiava in accessi d’umore tutto opposto. Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma l’eccitava; si mischiava ne’ loro giochi, e li rendeva più sregolati; entrava a parte de’ loro discorsi, e li spingeva più in là dell’intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia; contraffaceva il volto d’una monaca, l’andatura d’un’altra: rideva allora sgangheratamente; ma eran risa che non la lasciavano più allegra di prima.”

La storia della monaca di Monza è, si sa, un romanzo nel romanzo: Manzoni comprese di avere tra le mani qualcosa d’importante, e ne aveva dato una versione molto più ampia, in quella sua prima redazione, che chiamiamo “Fermo e Lucia”. È una storia tragica, il Romanticismo europeo ai suoi massimi livelli, che lo scrittore asciuga nella versione pubblicata, lasciando insoddisfatti alcuni lettori contemporanei. La questione tragica è di quelle antiche, a Gertrude tocca un destino che non ha niente a che vedere con le sue inclinazioni, e non c’è cristiana pazienza che la plachi. Lungo il piano inclinato che la porta al momento decisivo della sua storia, troviamo Gertrude fatta maestra delle educande -non una scelta avveduta delle sue superiori. Lei oscilla tra vessazione e condiscendenza, senza mai trovare l’equilibrio tra distanza e vicinanza: ha una forma di potere, ma del potere lei ha subito un’esperienza che glielo ha fatto vivere come arbitrio e costrizione, in totale conflitto con le proprie inclinazioni. L’avere un potere non le basta a trovar quiete, né la rassegnazione alla sua condizione: è un gioco senza senso e soddisfazione, un precario stato d’equilibrio che sarà rotto con l’apparire di un qualunque Egidio. Prima che prendere la piega più squisitamente personale, che riguarda solo e soltanto Gertrude, la sua vicenda è dunque quella del potere fatto solo per replicarsi, che non ha considerazione per ciò che diciamo essere lo specifico umano. Sarà la prima vera scelta, sventurata, a fare umana Gertrude, ed è proprio il nodo che la riguarda -quello spazio indicibile in cui l’uomo si qualifica perché sceglie- a renderla tragica -come la Medea di Euripide, per intendersi- e non dimenticabile.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/10

(dal capitolo IX)

“– La signora, – rispose quello, – è una monaca; ma non è una monaca come l’altre. Non è che sia la badessa, né la priora; che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d’Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la chiamano la signora, per dire ch’è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perché dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile; e i suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di quelli che hanno sempre ragione, e in Monza anche di più, perché suo padre, quantunque non ci stia, è il primo del paese; onde anche lei può far alto e basso nel monastero; e anche la gente di fuori le porta un gran rispetto; e quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo; e perciò, se quel buon religioso lì, ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v’accetti, vi posso dire che sarete sicure come sull’altare.”

Non come le altre.

Son di quelli che comandano.

I suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto.

E son di quelli che hanno sempre ragione.

Il primo del paese.

Può far alto e basso.

La gente di fuori le porta un gran rispetto.

Quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo.

Ah, la rassicurante saggezza del potere, delle regole di forza su cui si regge la mondana quotidianità: un sillogismo alla volta, per dire che, se ci si mette nelle mani di chi può…

sarete sicure come sull’altare.

Qui Manzoni è proprio al massimo della sua ironia romanzesca: l’altare, quello che Lucia non ha avuto; quello che dovrà conquistarsi -nonostante Gertrude, il potere suo, della sua famiglia, e dei suoi affini.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/9

(dal capitolo VIII)

“Nuova consulta e più tumultuosa: ma uno (e non si seppe mai bene chi fosse stato) gettò nella brigata una voce, che Agnese e Lucia s’eran messe in salvo in una casa. La voce corse rapidamente, ottenne credenza; non si parlò più di dar la caccia ai fuggitivi; e la brigata si sparpagliò, andando ognuno a casa sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un picchiare e un aprir d’usci, un apparire e uno sparir di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un rispondere dalla strada.”

Il movimentato (fino alla quieta e malinconica pagina conclusiva, il saluto al microcosmo che mai più tornerà tale e quale) capitolo, oltre alle frenetiche azioni dei singoli, introduce nel romanzo un protagonista collettivo, in questo caso gli abitanti del borgo richiamati da schiamazzi e campane: protagonista che potremmo anche chiamare massa, entità pulviscolare ma dotata di propri movimenti, come nel passo qui riportato, in cui da un avvio non meglio definito si produce un solido, ancorché erroneo, convincimento, che segnerà le azioni successive: un assaggio -come per tante cose che si susseguono nei primi otto capitoli del romanzo- di ciò che avverrà in seguito, e altrove.