Ancora capirò (la vacanza di luglio a Sud) Quinta (e ultima) parte: le cose cambiano

(La prima parte è qui)

(La seconda parte è qui)

(La terza parte è qui)

(La quarta parte è qui)

Quelli che tornano da Nord, per l’estate, li chiamavano, quando eri piccolo, “i milanesi”, una definizione generica fondata su un fatto certo, il gran numero di biscegliesi emigrati nel capoluogo lombardo. A Milano ci hai passato degli anni pure tu, ed eri “milanese” però anche per lungo tempo dopo, quando ormai stavi al Nordest. I segni di Milano erano dappertutto, ricordi, perfino nei nomi delle attività (la “Milan SeccoJet”, ad esempio, pulitura a secco il cui logo erano le guglie del Duomo); adesso te ne accorgi bene per il mutare di accenti, che si avvia nella seconda metà di luglio e si fa più intenso con l’approssimarsi della festa dei Santi Patroni.

Il viaggio da giù per Milano, comunque, lo fai, ma non è nei treni strapieni, coi sedili in similpelle e gli orari indefiniti; lo fai in auto, col climatizzatore ben avviato -è sera e fuori stanno ancora 35 gradi-, comodo; lo fai per faccende non tue, ma dei tuoi figli -un passaggio, tutto sommato sei abbastanza di strada. Anche Milano è tua storia, e quando vedi, all’alba manca poco, appena dopo Melegnano, i profili dei suoi edifici più alti, confronti quest’immagine con quella che avevi da piccolo, conti le nuove figure che si sono aggiunte nel tempo.

Le cose cambiano, infatti. Mimmo e Tommaso hanno ceduto la gestione dei due negozi vicini a casa -Mimmo che sapeva che tipo di mozzarella o ricotta tosta o burrata o caciocavallo volevi, e in che giorni; Tommaso che ricordava i quotidiani che prendevi, nei vari giorni della settimana- ai loro figli. Hanno ceduto anche sapere e saper fare: la figlia di Mimmo s’informa sulle preferenze per i formaggi, e il figlio di Tommaso ha imparato presto quelle sui quotidiani (che tu, qui a Sud, ti ostini a prendere, anche se pure loro, i quotidiani, non li riconosci mica più tanto, e la Gazzetta del Mezzogiorno finisce subito). Altri negozi invece cambiano gestioni più volte, chiudono e ti lasciano la loro mancanza (come la pasticceria di Trani dove eri solito fare la prima colazione dopo l’arrivo qui). Le cose cambiano: le case attorno alla Cattedrale, che erano zona quasi in degrado, ora sono ristrutturate e giustamente ricercate sul mercato.

Pensi a queste cose, mentre entri in una Milano imprevista, alberi abbattuti, strade allagate, un cielo smaltato.

Mentre esci da Milano e cerchi la A4, pensi che tutte le volte che torni, il tuo Sud ti fa misurare il mutare delle cose, delle vite, e ti ricorda quello che ne è un’intima caratteristica. Lo hai visto bene a Metaponto, nell’incredibile museo dentro il silenzioso centro moderno a mezza via tra il mare e i campi di pomodoro (con le loro dure storie di lavoro).

La vita: un equilibrio delicato, tenuto da un filo sottile. E se sei solo, aggiunge il vaso, quell’equilibrio non ce la fai mica a tenerlo. Una cosa che sai da tempo, ma non è che tu sia sempre stato all’altezza di questa saggezza.

Le cose cambiano, le generazioni si trasmettono case, negozi, attività, saperi e passioni. Ti arriva una foto milanese da tua figlia.

Bisceglie a Milano, certo, è un capolinea della metropolitana, un segno di una presenza che si vede soprattutto nel commercio della frutta; che si vedeva, nella tua infanzia, nelle fabbriche milanesi.

Insomma, pensi, qualcosa va avanti, muta forse ma si trasmette, coi tempi propri della campagna, però, non con i tempi sbriciolati della nostra impazienza.

Sono i tempi di questo tratto di strada tra Venosa e Melfi.

Le cose cambiano, e qual è la foto che riassume quello che hai imparato in questa vacanza? Una foto di Matera.

Hai passato la vita a pensare di essere al centro di responsabilità, aspettative, doveri. Qui sei di lato, ti stai defilando, ed è giusto così, si vede molto meglio tutto il resto, e poi: le cose cambiano.

Ti dici: ancora capirò.

Scritto a:
Bisceglie, Venosa, Matera, Trani, Taranto, Metaponto, Milano, Pordenone

12 luglio-26 luglio 2023

Pasquetta

Il sole che finalmente entra in camera, il silenzio che si protrae nella mattinata, dagli appartamenti del condominio, dalla strada: Pasquetta. Mi metto in auto, imbocco il viale, rallento per svoltare verso casa dei miei. Parcheggio. Rifletto. Ho incrociato, fin qui, cinque persone: un signore che, contromano, risaliva il viale col suo girello; una signora, appoggiata ad una badante dell’Europa dell’Est, davanti al panificio; un’altra signora, a braccetto con una delle figlie, davanti alla farmacia. Conosco tutte e tre le persone anziane che ho incontrato, le conosco da quando non erano anziane (trent’anni? più?) e io abitavo da queste parti.

Dalla stradina dove stanno i miei ritorno sul viale. Il signore col girello si è fermato, sta davanti alla fontana asciutta della chiesa del Beato Odorico. Parla con un signore della sua età, che pure conosco, appoggiato al suo mezzo di movimento. Chissà di cosa.

Una mattina di sole come questa, ma più fresca -era metà marzo ed eccezionalmente non c’era lezione all’Università-, accompagnai mio nonno a trovare le sue sorelle. Salimmo sul 7 di fronte a casa, in via del Carso, e scendemmo in piazza Castello. Prima di rifare il percorso per tornare, sostammo da un ferramenta del centro. Appena scesi, di nuovo in via del Carso, mi disse che gli era proprio piaciuto quel giro non previsto in centro, ma che faceva troppa fatica a salire i gradini del tram. Il nonno aveva percorso cauto, ma con passo regolare, le scale che portavano all’appartamento delle prozie, ma quei tre scalini di acciaio erano troppo alti e senza appigli sicuri, per come la vedeva. Può essere che sia stata l’ultima volta che si è mosso in tram, non so, devo chiedere ai miei cugini.

Però era contento. Io lo ero appena partiti, verso casa invece mi prese uno sconforto, che aumentò man mano che si andò avanti nella giornata, Ero contento per il nonno e per la giornata di sole, ma tutto il gusto se lo portava via la sera che avanzava. Avevo vent’anni e mi aspettavo dalla vita risposte piene e confortanti, che non trovavo.

Mentre il signore col girello ha salutato il suo conoscente e ancora sta fermo, si fa forza sulle sbarre ma non si muove, la signora con la badante attraversa la strada, sulle strisce davanti alla chiesa, e imbocca la laterale. Parlano, chissà di cosa. Io fingo di consultare il telefonino, per darmi una giustificazione dell’essere lì, fermo.

In realtà, ci fu un’altra passeggiata col nonno, un’altra mattina, una domenica nuvolosa di febbraio. Era un po’ meno freddo dei giorni precedenti, accompagnai il nonno a fare un giretto attorno all’isolato, credo duecento metri. Lui non parlava gran che, badava a muoversi senza inciampare, io lo tenevo a braccetto. La nonna ci aspettava, di sopra, coi miei. Era la prima volta che si era dimenticata del mio compleanno, capitato in quei giorni. Mi pareva impossibile, lei che ricordava, di nove figli e una ventina di nipoti, date di nascita e onomastici. La volta successiva, che tornai in quella casa, era per la morte di lei, neanche tre mesi dopo. Poi il nonno andò in casa di riposo.

Il signore col girello si è mosso, torna indietro, la fontana senz’acqua era evidentemente la sua meta per questa passeggiata. La signora e la badante sono in fondo alla stradina, adesso piegano a sinistra, in un’altra via interna. Guardo indietro, sul viale; la signora che passeggiava con la figlia è passata dall’altro alto della strada, ora cammina davanti all’edicola chiusa. Parlano tra loro, chissà di cosa.

A vent’anni mi aspettavo risposte dalla vita.

Le risposte, lo so bene ora, me le sarei dovuto faticare io, e non sarebbero mai state così nette come mi sarebbe piaciuto. Una, è questa: c’è un senso, c’è molto senso, a Pasquetta, con le fatiche di tanti anni addosso, muoversi per un viale quieto della piccola città e parlare con qualcuno. Chissà di cosa.

Idee elementari per il futuro di un sapere di città

L’edizione odierna del Messaggero Veneto di Pordenone riporta, a p. 24, un mio intervento, nell’ambito della discussione sul futuro della città. Il titolo del contributo, sul quotidiano, è “Città insieme infrastruttura e contenuto della conoscenza”; come sottotitolo, io aggiungerei quello di questo post: sono idee elementari in merito al futuro di un tipo di sapere particolare, che leopardianamente chiamerei “sapere cittadino” (eco dell’ “onesto e retto conversar cittadino” che ci viene dalla “Ginestra”, versi 151-152). Ecco, di seguito, il mio intervento.

La domanda sul futuro di una comunità -frutto, sempre, di un periodo di crisi di fondamenti precedenti- impone di chiedersi, prima di tutto, di quale comunità si stia parlando, di quale sia l’idea condivisa che le si adatti. “Pordenone” è una città; è  un territorio più o meno corrispondente alla sua provincia (chiamiamola ancora così); è un insieme dinamico di relazioni che vanno oltre i suoi confini fisici (i “Pordenonesi altrove”, come li si erano chiamati anni fa); è,  infine, una serie di significati metaforici riconoscibili nell’immaginario collettivo (Pordenonelegge, Giornate del Muto, Dedica, Electrolux,  tanto per restare ai primi riferimenti che mi vengono in mente). Tutto questo è “Pordenone”, e ci chiediamo dunque “come” sarà. Il “come” viene prima del “cosa”, perché la condizione, per la quale possiamo parlare del destino di una comunità, è che essa si riconosca, in quanto tale, attorno ad un’idea e ad un progetto di sé (che è cosa ben diversa dalla somma delle singole attività che la attraversano).
La mia tesi di fondo, che proporrò, a partire dal mio angolo visuale, che è quello di una persona che lavora nelle istituzioni scolastiche, è questa: la conoscenza condivisa è la condizione che salda l’identità di un territorio (reale e simbolico) e che costituisce le condizioni per la sua evoluzione. Proverò a esporre, in breve, cosa ciò possa voler dire per “Pordenone”.

Punto primo. La conoscenza condivisa è la chiave dell’identità di una comunità.
Esiste un “sapere di città”, che è l’insieme delle esperienze, delle attività, delle comunicazioni di coloro i quali vivono un territorio e sentono di crescere, anche nella loro identità, attraverso questo sapere. La formulazione di cosa sia questo sapere è antica, e ci viene fino dal discorso di Pericle, come ce lo riporta Tucidide, in cui Atene è addirittura definita “scuola” e “spettacolo” dell’Ellade.
Ciò presuppone che la città stessa sia infrastruttura e contenuto della conoscenza: infrastruttura, in quanto l’insieme di luoghi e relazioni, fisiche e non, fa circolare il sapere (un esempio, che tutti conosciamo, è quello offerto dalle strade del centro durante Pordenonelegge); contenuto, in quanto il sapere di una città si giova delle relazioni, per circolare e crescere.

Punto secondo. L’infrastruttura di condivisione è la Rete.
Ci sono molti modi per condividere il sapere, ma ce n’è, oggi, uno veloce, simultaneo, capace di raggiungere un gran numero di persone, capace di dar visibilità ad ogni buona idea, capace di creare le condizioni per soppesare e discutere ogni idea, e quel luogo è la Rete.
Questo, per “Pordenone”, significa avere un approccio cittadino alla rete: e questo significa decidere di avere una buona rete, e quindi investire (come? con scelte della polis, politiche quindi, prima di tutto) nella qualità e nella stabilità della banda (Giorgio Jannis, tra i protagonisti del tavolo da cui nacque Wireless Naonis, parla di “diritto di banda” da sancire costituzionalmente, e non scherza).
Questo significa assumere, come compito della polis, che la massima parte possibile di cittadini acceda alla rete con consapevolezza e cognizione.
Ma “approccio cittadino” significa pensare anche a come la Rete possa mettere a sistema le esperienze di conoscere sociale e cittadino, valorizzarle, condividerle, ampliarle.
Ci sono quattro domande, a questo punto, in merito, e le porrò di seguito.

a. Perché?
Il “perché” questo e non altro è rappresentato dalla correlazione tra disponibilità di banda larga, conoscenza e sviluppo (che non sia quello prodotto da contingenze, quali lo sfruttamento di forza lavoro a basso prezzo). La rete è l’infrastruttura della crescita, e su questo c’è poco da dire (anche a livello governativo ciò si sta imponendo come tema ineludibile, proprio in questi giorni).
“Perché”, però, vuol dire anche: perché abbiamo una comunità occidentale, colta e aperta, checché ne pensiamo di noi stessi, e la rete vissuta consapevolmente è un risvolto dell’evoluzione moderna della nostra storia.

b. Perché no?
Certamente, ci sono paradigmi culturali che vanno mutati: in buona sostanza, sono quelli legati ad un immaginario (e a tutti i suoi correlati) costruito televisivamente.
E forse, per il nostro territorio, c’è da liberarsi (pur se molto si è già fatto) un altro paradigma, quello che vede con circospezione tutto ciò che ha a che fare, in qualche modo, col sapere.

c. Perché noi?
Perchè abbiamo le condizioni per farlo:
-un sistema scolastico di buona qualità;
-esperienze culturali e imprenditoriali che creano aspettativa di sapere ed identificazione;
-la mancanza di strutture rigide del sapere, come le Università;
-la presenza, sul territorio, di esperienze di costruzione di socialità condivisa (il progetto Genius Loci narrato magistralmente in quello che dovrebbe essere il breviario della nuova polis, “Istituire la vita” di Francesco Stoppa);
-le persone che sanno come si fa, e ne cito tre, diverse per età, interessi e cultura: Sergio Maistrello, Matteo Troia, Federico Morello.

d. Perché ora?
Perché il passaggio storico richiede, ora, delle scelte qualificanti, che vengano dal vissuto intero di una comunità.

Uniti dalla crisi

Mi fermo al forno vicino a casa per comprare pane e focaccia.

Il proprietario mi saluta, ci si aggiorna: che piacere rivedersi dopo un anno, che novità ci sono. Inevitabilmente si parla della crisi. Eh, fa lui.. Fino all’ anno scorso la domenica incassavo 500 euro, adesso 150: in un mese la differenza è l’affitto. Poi le tasse, l’IMU, le banche che faticano a darti credito (usura e gratta e vinci vanno alla grande, invece): insomma, se va così a dicembre si chiude e vado a fare pane in Germania, dice.
Ci salutiamo, e penso che, più o meno, lo stesso discorso di questo fornaio pugliese l’ho sentito a Pordenone diverse volte, di questi tempi.

Twittami e dimenticami (a margine di piccoli equivoci in riva al Noncello)

È capitato anche nella piccola sfera naoniana, che un protagonista delle, grandi o piccole che siano, vicende politiche locali abbia espresso live i suoi giudizi cinguettosi su una discussione in corso , e che dopo qualche ora li  abbia cancellati -quando ormai quei giudizi avevano trovato i loro lettori e prodotto le loro conseguenze. È capitato e continua a capitare, a Pordenone e ovunque, in politica e ovunque.
Cose che capitano, appunto, come effetto della combinazione tra un intento comunicativo nuovo e una sociologia comunicativa secolare. L’intento comunicativo è quello impressionistico, situazionale che origina il Tweet; la sociologia è quella che accompagna la parola scritta dai tempi, come voleva Havelock, di Platone, per cui le parole posano e michelstaedterianamente pesano.
Insomma, io affido al Tweet la parola che dovrebbe sciogliersi e volare, ma essa, una volta scritta, resta, perché un lettore e una cache di Google ci saranno sempre a dare una forma diversa a quanto comunicai. Un bell’affare, e forse anche per questo a #sotn2012 si è parlato molto del diritto all’oblio come di una dimensione irrinunciabile.

quattro cose (dopo una cena di maturità)…

…ai miei allievi di III B, dopo la cena di classe di ieri sera  (una cena di buona conversazione, aneddoti, riflessioni serie -non entreremo in nessun cast di film del sottogenere maturità, temo). Ma prima delle quattro cose, grazie per tutti i momenti nei quali, in questi tre anni, mi avete dato da riflettere, su come fare -ed essere- in un’altra maniera. E poi, lo so: ciascuno di voi ha il suo momento -personale- in cui ha fatto fatica a capire che volessi da lui: ma anche il momento in cui ci si è capiti -anche sorprendentemente, magari (e magari vi capiterà anche più avanti, o capiterà a me).

Insomma, le quattro cose, per il futuro, che riprendo dalla nostra conversazione dell’ultimo giorno di scuola.

Prima cosa. Datevi da fare per dire sempre parole di cui siate pronti a rispondere senza esitare: parole vostre, precise e discernenti, intrise del vostro senso di responsabilità. Le parole giuste da dire nel momento in cui vanno dette -non ho detto quelle “vere”, ho detto (ed è roba più importante) quelle “giuste” (e voi che avete fatto il classico sapete che Dike non scherza).

Seconda cosa. Non presumete mai di sapere tutto -su niente. Nemmeno sulla cosa che sapete meglio e più di tutti. C’è sempre un dettaglio di mondo che racconta daccapo un mondo (abbiamo letto Gadda, no?).

Terza cosa. Fate esercizio a tenere, sempre, un angolino di voi che si permetta di guardarvi da fuori, che non si faccia schiacciare dall’infinita e pavloviana serie di reazioni automatiche alle cose del mondo.

E, quarta: fate sempre il vostro meglio. Non la perfezione, ché quella alla lunga finisce col diventare una scusa per non fare. Il meglio, laddove siete, con quello che avete, con quelli che avete.

Bene: in bocca al lupo per l’esame, e poi fuori, a conquistare il mondo, che ha bisogno che voi gli vogliate bene: e ne siete capaci.

approssimarsi

Quest’anno mi trovo a insegnare in due classi parallele, due terze Liceo del Classico, quaranta creature piene di voglia, idee, passioni e intelligenza avviate con trepidazioni classiche e perplessità nuove verso l’esame di Stato e quel che ne verrà poi. Se leggete l’elenco degli argomenti da proporre alle due classi, nei documenti di programmazione, potrete naturalmente pensare che si tratti delle stesse cose. Ma le vicende reali non sono così, in ognuna delle classi c’è un’intenzione, un’attenzione, una condivisione che orientano tutta la grammatica dell’ora di lezione in maniera assolutamente peculiare, mettono alla luce snodi, risvolti, connessioni tutte proprie. Come mai accada, ce l’hanno spiegato meglio i costruttivisti, che i cognitivisti: i nessi si che creano tra le persone, in un contesto di apprendimento situato, strutturano impalcature di senso specifiche, producono -detto in altri termini- delle cornici narrative con la loro propria tonalità, e le cornici rafforzano vieppiù la nota di specificità. Ed insomma, si tratta di storie di scuola totalmente diverse: volte a che cosa, si potrebbe chiedere? Mi convinco, diventando vecchio, che siano volte non già a dare la dimostrazione (autoassolutoria rispetto ad ogni manchevolezza) che gli argomenti non si stringono, né si stringerannno mai del tutto; piuttosto, invece, a dare luce sempre nuova alle vie infinite dell’approssimazione: che non è, etimologicamente, confusione o genericità, ma (appunto) ad-prossimarsi, farsi sempre più asintoticamente vicini a ciò che riconosciamo come prossimo. E nelle sue variabilissime e variatissime vie, l’inevitabile cammino dell’approssimazione -che è fatto di tutti i passi per conquistare maggiore vicinanza- mette più in chiaro, per contrasto, lo spazio inviolabile nel quale ciò cui ci avviciniamo diventa (non saprei dire diversamente) mistero: luogo degno di rispetto, pieno di senso proprio nel suo mobilitare il nostro avvicinarci e nel suo renderci certi di una sostanziale inattingibilità. Farle, viverle, capirle insieme, in un’aula scolastica, permette anche di sopportarle, queste cose, di caricarsele sulle spalle e farle diventare qualcosa. Like ·

C. e la cura

Ho conosciuto C. al mio ultimo anno di corso all’Università: sono passati ventitré anni, dunque. Frequentava anche lui le lezioni del geniale e burbero Pier Franco Beatrice, col quale stavo preparando la tesi, e lo vedevo spesso nello scricchiolante stabile che ospitava il Dipartimento di Storia Medievale. Non eravamo in tanti (né alle burbere e geniali lezioni, né nel periclitante Dipartimento): insomma, facemmo conoscenza molto presto. Del resto, C. possedeva una caratteristica che attirava tutti quelli che gironzolavano da quelle parti: aveva un bel po’ di anni più di noi, gli studenti “regolari”. -Ho passato i quaranta- ci disse dopo una lezione, mentre stavamo commentandoi ragionamenti di Beatrice concernenti quosdam Platonicorum libros. Ed era pure di Pordenone, appresi subito dopo; anzi, viveva abbastanza vicino a casa dei miei.

Quell’anno C. venne a qualche lezione ancora; con regolarità, ogni settimana passava in Dipartimento a colloquiare col docente che gli aveva concesso la tesi. Dai brandelli di conversazione degli incontri fatti tra aule e biblioteche appresi che gli mancava un paio di esami per il completamento del libretto, e che aveva ripreso gli studi dopo un intervallo di parecchi anni. Da altri, e successivi, frammenti di discorso emersero schegge di storia sua: l’Università di fine anni Sessanta, l’impegno politico, una piega più personale di eventi successiva, cui si connetteva la lungaggine negli studi, che lo aveva portato ad assumere quell’aria di mitezza totalmente disinteressata che colpiva chiunque, a guardarlo, e che faceva ipotizzare una qualche forma di sua adesione monastica (il che non era: era vera, invece, come mi disse dopo che le conversazioni furono molte, una sua convinta vita di fede religiosa). C. veniva da un mondo adulto, da un mondo di scelte comunque fatte, di prezzi comunque pagati, ed era più indietro di me con gli esami. Non pensavo di potere avere con lui conversazioni più lunghe di quelle brevi che facevamo (i nostri mondi erano diversi, lo intuivo), ma quegli spicchi di parole erano sempre una sorpresa.

Negli anni a venire, ci siamo incrociati per le vie della nostra città: aggiornati -a schegge e frammenti, com’è ovvio- sulle  rispettive vicende. Lui, con un po’ di tempo, è arrivato a laurearsi, a cominciare da precario la vita dell’insegnante, poi la vita gli ha riservato una malattia tignosa, che si mangia la memoria delle parole e dei gesti. Me ne ha parlato, la prima volta che l’ho visto dopo che lei (la malattia) gli si è presentata, e, mite come sempre, mi ha detto determinato che non aveva nessuna intenzione di dargliela vinta, se lo doveva (aggiunse): -Devo tirare fuori il meglio, anche se quello che ho è poco. lo devo alla cura per l’umanità che porto in me -aggiungeva. Dopo di allora, ci siamo incontrati qualche altra volta; la malattia insiste, ma lui tiene duro, e quando ci salutiamo e compita il mio nome e quello dei miei figli, il sorriso di soddisfazione per la prova di memoria, che C. sfodera, mi riempie la giornata.

Stamane sono andato a pranzo dai miei genitori, ed ho incrociato C.  Era in scarpette da ginnastica, maglietta, e pantaloni della tuta. E correva. Correva tutto contenuto, contratto nei gesti, tirato a scatti verso il suolo dalla sua malattia, ma, inequivocabilmente correva, e sorrideva. -Continuo a prendermi cura, a tirare fuori il meglio, anche se è poco- mi ha detto, tutto sudato.

Hai ragione, C.

sole e narrazioni

Nel mio cauto approccio al primo sole della mia stagione, ieri, -mentre i miei piccoli ritrovavano curiosi (e abbronzati da giorni e giorni di piscina) il mare-, ho ripreso la
lettura del bell’articolo di Giuseppe Granieri ispirato da un denso testo di Sergio Maistrello. Cambiano le tecniche di lettura, ma (quello che Granieri e Maistrello giustamente dicono) è che il punto sta nella curiosità del lettore e, soprattutto, nella sua volontà di farsi protagonista non solo dell’atto della fruizione, ma di un universo di possibilità e di condivisioni sociali che la lettura con i nuovi mezzi implica. Una co-lettura, insomma, che parte dalla lettura di un testo e arriva a quella del mondo; un atto di fiducia in sé e negli altri, in quello che si costruisce insieme.

Intanto, mentre il sole s’alzava ed io assecondavo l’area coperta dall’ombrellone, sono passato alla lettura dei giornali: cartacea, da spiaggia imbiancata dai sassi e dal sole.
La faccia di Tremonti e la manovra economica, insomma, e la faccia assente, quella  del Presidente del Consiglio, a marcare (per chi non lo avesse ancora saputo) l’idea che nell’universo semiotico berlusconiano non ci sia campo per leggere e narrare certe notizie, nella mesmerica convinzione che farle narrare ad altri sia delegarne la responsabilità (re-spon-sa-bi-li-tà, la parola tabù). Davvero, una povera narrazione questa, falsa perché è la narrazione che vuole essere epica e riesce grottesca, è la narrazione che non si fa, perché non vuole nemmeno provarci, testo-mondo -pensavo.

Ed intanto, mentre il mio intrepido esploratore portava sassi levigati, bianchissimi o nerissimi, sul telefonino mi son messo a leggere cose delle mie parti, e una dietro
l’altra, in dichiazioni politiche e commenti di anchorman, ho trovato narrazioni nostalgiche dell’epica protoleghista: la sicurezza minata, i forconi della protesta, in una dimensione sempre più concentrica, di risoluta selezione dei confini del mondo, di ostinata attenzione al passato bucolicamente riscritto, di delimitazione del dicibile e, per conseguenza, di delimitazione di sé. Non è nemmeno la nostalgia delle favole, quelle erano testi-mondo (cattiveria, malattia, dolore, prove da affrontare, mica son cose che le favole nascondono), è la nostalgia dei una propria dimensione di fuga dal presente e dal futuro.

Ma io? La mia narrazione diversa, più conscia? La domanda mi ha accompagnato mentre siamo risaliti a pranzo, mentre aggiungevo di nascosto la ricotta salata al sugo di pomodori, ché mia figlia non mi vedesse (e poi ne ha voluta ancora, di pasta, e alla fine quella ricotta -dopo al rivelazione del trucchetto- se l’è pure assaggiata).

E forse la cosa che cercavo mi ha raggiunto verso sera, sulla spiaggia progressivamente abbandonata dai biscegliesi che a mare fanno giornata presto, poi hanno altro da combinare, e lasciano le -per me- incantevoli ore di mezzo meriggio a
pochi.

E’stato quando i piccoli, sulla strada per risalire a casa, mi hanno chiesto di raccontare della bisnonna che non hanno conosciuto, mia nonna Gina. Parlandone, ad un certo punto, mi son fermato. Piangevo. Io, quelle lacrime, le avevo cercate
invano quando vent’anni fa, la nonna ci ha lasciati. Le ero affezionatissimo, ma non riuscivo, non c’era verso, a piangerla, avevo il groppo in gola, ma queste lacrime non arrivavano.

E son venute invece tanti anni dopo, e mentre venivano le due creature meravigliose cui ho il dono di essere padre (sul fatto che avermi per padre sia dono per loro, ho dubbi) mi hanno detto, sorridendo, che si vedeva che volevo bene a mia nonna.

Eccome, bambini.

E raccontandovi la nonna, mi è venuto in mente questo: che le storie che contano sono quelle che si raccontano da una generazione all’altra, sapendo di essere, ogni generazione, un passaggio tra chi c’è prima e chi c’è dopo. E sono le storie in cui non abbiamo paura di condividere, con chi le ascolta, le nostre lacrime.

Ed è un programma etico-sociale-politico, altrochè.

ricordatelo, nina

Piazza Risorgimento. Pordenone. Poco prima delle due del pomeriggio.

Sedute ad una delle panchine-con-schienale della piazza, due donne: è una coppia anziana-badante dell’Est, una delle tante che s’incrociano per questa e altre piazze.

La signora più anziana è composta, in ordine, seduta appoggiata ad un bastone. Ascolta.

Ascolta l’altra, una signora sui trenta, che legge, in un italiano scandito a voce alta, con una musicalità che identifico per vicinoslava. Croata, direi.

Non vedo il titolo che la donna più giovane legge, però colgo (più o meno) una scheggia di lettura: “Voler possedere la persona amata è distruggere l’amore”. La giovane donna guarda l’altra. E lei, appoggiata al bastone, guarda un momento in avanti, da qualche parte, più nel tempo che in questo spazio. E dopo un po’ dice: “Vero. Ricordatelo, nina”.