Nel mio cauto approccio al primo sole della mia stagione, ieri, -mentre i miei piccoli ritrovavano curiosi (e abbronzati da giorni e giorni di piscina) il mare-, ho ripreso la
lettura del bell’articolo di Giuseppe Granieri ispirato da un denso testo di Sergio Maistrello. Cambiano le tecniche di lettura, ma (quello che Granieri e Maistrello giustamente dicono) è che il punto sta nella curiosità del lettore e, soprattutto, nella sua volontà di farsi protagonista non solo dell’atto della fruizione, ma di un universo di possibilità e di condivisioni sociali che la lettura con i nuovi mezzi implica. Una co-lettura, insomma, che parte dalla lettura di un testo e arriva a quella del mondo; un atto di fiducia in sé e negli altri, in quello che si costruisce insieme.
Intanto, mentre il sole s’alzava ed io assecondavo l’area coperta dall’ombrellone, sono passato alla lettura dei giornali: cartacea, da spiaggia imbiancata dai sassi e dal sole.
La faccia di Tremonti e la manovra economica, insomma, e la faccia assente, quella del Presidente del Consiglio, a marcare (per chi non lo avesse ancora saputo) l’idea che nell’universo semiotico berlusconiano non ci sia campo per leggere e narrare certe notizie, nella mesmerica convinzione che farle narrare ad altri sia delegarne la responsabilità (re-spon-sa-bi-li-tà, la parola tabù). Davvero, una povera narrazione questa, falsa perché è la narrazione che vuole essere epica e riesce grottesca, è la narrazione che non si fa, perché non vuole nemmeno provarci, testo-mondo -pensavo.
Ed intanto, mentre il mio intrepido esploratore portava sassi levigati, bianchissimi o nerissimi, sul telefonino mi son messo a leggere cose delle mie parti, e una dietro
l’altra, in dichiazioni politiche e commenti di anchorman, ho trovato narrazioni nostalgiche dell’epica protoleghista: la sicurezza minata, i forconi della protesta, in una dimensione sempre più concentrica, di risoluta selezione dei confini del mondo, di ostinata attenzione al passato bucolicamente riscritto, di delimitazione del dicibile e, per conseguenza, di delimitazione di sé. Non è nemmeno la nostalgia delle favole, quelle erano testi-mondo (cattiveria, malattia, dolore, prove da affrontare, mica son cose che le favole nascondono), è la nostalgia dei una propria dimensione di fuga dal presente e dal futuro.
Ma io? La mia narrazione diversa, più conscia? La domanda mi ha accompagnato mentre siamo risaliti a pranzo, mentre aggiungevo di nascosto la ricotta salata al sugo di pomodori, ché mia figlia non mi vedesse (e poi ne ha voluta ancora, di pasta, e alla fine quella ricotta -dopo al rivelazione del trucchetto- se l’è pure assaggiata).
E forse la cosa che cercavo mi ha raggiunto verso sera, sulla spiaggia progressivamente abbandonata dai biscegliesi che a mare fanno giornata presto, poi hanno altro da combinare, e lasciano le -per me- incantevoli ore di mezzo meriggio a
pochi.
E’stato quando i piccoli, sulla strada per risalire a casa, mi hanno chiesto di raccontare della bisnonna che non hanno conosciuto, mia nonna Gina. Parlandone, ad un certo punto, mi son fermato. Piangevo. Io, quelle lacrime, le avevo cercate
invano quando vent’anni fa, la nonna ci ha lasciati. Le ero affezionatissimo, ma non riuscivo, non c’era verso, a piangerla, avevo il groppo in gola, ma queste lacrime non arrivavano.
E son venute invece tanti anni dopo, e mentre venivano le due creature meravigliose cui ho il dono di essere padre (sul fatto che avermi per padre sia dono per loro, ho dubbi) mi hanno detto, sorridendo, che si vedeva che volevo bene a mia nonna.
Eccome, bambini.
E raccontandovi la nonna, mi è venuto in mente questo: che le storie che contano sono quelle che si raccontano da una generazione all’altra, sapendo di essere, ogni generazione, un passaggio tra chi c’è prima e chi c’è dopo. E sono le storie in cui non abbiamo paura di condividere, con chi le ascolta, le nostre lacrime.
Ed è un programma etico-sociale-politico, altrochè.