Categoria: prima plurale
la casa e il posto giusto
Se c’è per me qualcosa che abbia la forza del simbolo di “casa”, è questa foto.
Ulivi, attraversati dal vento e animati dalle cicale. E la terra marrone intenso, secca, che si sgrana a toccarla. Non è fantasia, è un ricordo: mio nonno mi ci portava alle cinque del mattino, sulla sua Fiat Giardinetta. Mio nonno voleva che la terra fosse il nostro lavoro, di noi nipoti: ma ce ne siamo ben guardati, abbiamo guardato altrove, e il figlio del nonno, mio padre, che questa terra ha tanto amato ed ama, ha fatto di tutto perché fosse così (grazie, papà: non era così scontato e non è stato facile). La casa è un luogo a cui si torna, ma bisogna partirne.
Oggi pomeriggio, in cerca di un dolmen con i piccoli, tra gli ulivi, la vacanza di quest’anno ha trovato il suo centro. Per due settimane ho amato il mare di qui, come sempre, e l’ho insieme sentito, con sorpresa, per la prima volta, sfasato. Oggi ho capito perché: dopo avere, in questi anni, ripreso familiarità con il paese e il suo mare, dovevo tornare un pò più indietro, alla terra, radice della mia famiglia paterna. Era tempo: perché si viaggia in avanti, e andando avanti si cercano radici.
Per fare cosa: per guardare meglio avanti. I piccoli, con me, me ne davano la certezza, nella carne. Insieme a un dettaglio: oltre gli ulivi che sono in foto, c’è il mare. Che, oggi, per la prima volta in questa vacanza, ho sentito al suo posto giusto. Alla distanza giusta, visto a partire dal posto giusto, per essere il desiderio (desiderium: l’indizio di una mancanza) che è.
una non ben chiara forma di fedeltà
Un sabato del mese di marzo dell’anno dei Mondiali di Roberto Baggio rincasai da scuola accompagnato da ragioni di costernazione pubblica e privata. Per entrambe le sfere, la costernazione, beninteso, era roba mia; per altre persone ciò che metteva me in perplessità era, e nel giro di poche settimane sarebbe stato, invece, ragione di soddisfazione, privata e pubblica. Non ero, ad ogni modo, disposto in maniera così equanime,e per farmi passare il nervoso privato e pubblico che fosse, ricorsi a una delle forme di rimedio a me note, nella specie della visita alla libreria che preferivo della città in cerca di ispirazione. Non c’è più, adesso, quella libreria, in quel posto ora si comperano dei vestiti di catena giovanile (del resto, negli anfratti di Draghi-Randi a Padova, dove ordinavo le mie Belles Lettres, ora i tocchi di franciosità vengono da Chanel); allora, però, c’era, e tra gli espositori con le novità mi diressi verso un libro dalla copertina bianca, con la foto dei tavolini bianchi di un locale chiamato “A Brasileira”. Comperai quel libro, che accompagnò, diede uno sfondo e una prospettiva a quel periodo, pubblico e privato -naturalmente a me, per altri valgono ragioni e riflessi diversi. Mi parlò di una fedeltà a motivi miei che non necessariamente a quel tempo ero in grado di capire (né la fedeltà né i motivi), ma che forse avrei capito col tempo e con un po’ di umile fiducia in quella fedeltà (ho col tempo capito che è effettivamente così, il guaio è che spesso me ne dimentico).
Quel libro cominciava con queste parole:
“Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava.”
Rileggendo “I fiori blu”/2: vivere su una chiatta, chiatti chiatti, senza aspettare aggiornamenti di stato
Il Duca d’Auge s’addormenta, e dal sonno si scuote con gesti lenti l’abitatore di una chiatta in riva alla Senna, il pigro Cidrolin. Come tutti i pigri ha rituali precisi e accidiosi, tanto per cominciare (s)gradisce il cibo che gli viene preparato da una delle sue figlie. Da bravo pigro, gode dei vantaggi dello star fermo.
E aver la forza di star fermi, tante volte, è una solida virtù. Alla fin fine un punto di forza, Siddharta se n’era acconto ed enumerando le sue competenze (tanto per dirla da moderni) aveva messo il saper aspettare. Altri tempi. Magari adesso, con la velocità compulsiva degli aggiornamenti di stato, le cose sono diverse, e bisogna muoversi comunque, dar riflesso di uno spostamento. Lo chiamiamo “stato”, ma non è e non può essere statico, perché se è statico si imbalsama, e quello che davvero conta è l'”aggiornamento”. La coerenza è opzionale. E non solo la coerenza, cioè l’elementare correlazione tra le cose che ti sono attribuibili, ma anche la coesione, che lega le cose che dici e fai a un contesto. Puntiforme e sempre attuale, l’aggiornamento di stato rinuncia alla coerenza e punta dritto alla tua pancia. Ai tuoi sensi. Ai tuoi elementari e reattivi istinti.
A Cidrolin capita invece che, stando fermo, la fiera vanitosa del politically correct si mostri per quel che è, ma bisogna appunto, per vederla per quel che è, condividere il suo punto di vista, cioè riuscire un pochetto a stare fermi.
E non è facile. Inevitabilmente, se stai fermo, qualcosa comincia a lavorare dentro di te, e non si tratta solo delle tue parti luminose.
quattro passi nella costruzione della socialità
Attraversare la “mia” scuola (quella della quale, giusta un’espressione latina esattissima, sono Dirigente pro tempore) significa muoversi lungo tre edifici, collegati tra di loro da due piccoli cortili.
Mi piace muovermi in questi spazi la mattina presto, quando non c’è ancora nessuno. Ma è più bello muoversi qui dopo, quando cominciano ad arrivare insegnanti e studenti. Arrivano, si aggregano, iniziano a chiacchierare, poi, secondo ritmi loro o secondo il suono delle campanelle, salgono nelle classi, nei laboratori. Lasciano vuoti i corridoi.
I giorni, sono quelli che sono, in Italia, oggi. Come che vada, decisivi, ad ogni modo, per questo angolo di mondo. Angolino sempre più -ino, ma angolino dove si muove la vita che vivo. Vent’anni fa, ne avevo meno di trenta, e ci furono giorni decisivi, che in effetti decisero molto della mia età adulta. Questi di adesso decideranno l’età verso la mia vecchiaia, immagino; soprattutto, gli anni che accompagnano l’arrivo tra gli adulti dei “miei” studenti. E dei miei figli.
Si parla molto, e giustamente, di tutti i “patti” fondativi, scritti e no, del nostro vivere civile, che si sono deteriorati o sfaldati. Di quelli da riscrivere. Ogni mattina, in mezzo ai corridoi, entrando nelle aule, attraversando i cortili, sento di stare in un posto quanto si voglia complicato, mal raccontato, affaticato -sì, certo-: ma un posto dove ogni mattina si fonda e si vive -con tutte la fatiche del caso- il patto della socialità.
La scuola.
Un ricordo del “Maestro”
Se ne e’andato Vittorino Sebenico, maestro di pattinaggio artistico a rotelle che tutta una generazione, me compreso, chiamava semplicemente “Maestro”. Esponente di una formidabile leva di sportivi del Litorale (quella del Dopolavoro Ferroviario, dell’Edera…), il Maestro puo’ben dirsi uno degli inventori del pattinaggio artistico italiano. Le prime trattazioni teoriche su questo sport, i primi approcci che integrassero matematica, fisica e biomeccanica, sono contenuti nelle sue dispense per i corsi di formazione per allenatori. Appassionatissimo del singolo, Sebenico apprezzava anche le coppie artistico, mentre era piu’ tiepido nei confronti della danza (terra di scoperta di un altro gigante delle origini, Odoardo Castellari). Nel mio ricordo il Maestro resta legato al lavoro sul triplo salchow di Laura Mestriner, che ragazzino gli vidi fare nel Palamarmi pordenonese ai tempi del fondo in cemento. Generazioni di tecnici italiani delle rotelle sanno quello che gli devono. La terra gli sia leggera.
Le coppie che magari ancora non lo sanno ma iniziano
Il giorno prima c’era stato un generoso temporale, di quelli che rendono poi le mattine fresche e luminose.
Il treno per Padova, quel 25 luglio, lunedì mattina, era gradevolmente semivuoto. Qualche sedile oltre il mio, due giovani insegnanti parlavano del loro anno di supplenze -una premonizione, pensavo.
A Padova passai anzitutto a lasciare il borsone a casa degli amici che mi ospitavano e mi avevano lasciato le chiavi. Strano vedere vuoto quell’appartamentino, la cucinetta che aveva ospitato pomeriggi di studio condiviso e gran mangiate di crostatine del Mulino Bianco.
La biblioteca universitaria era pure lei torpidamente spopolata, buona per fare con calma ricerche e richieste di prestiti esterni. Pure surrealmente vuoto era l’androne della mensa della Pio X: svagato il cassiere, quasi estranei a se stessi i cibi.
Ma Lei, come speravo, arrivò. Si accorse di me, si liscio`pensierosa la canottiera Think Pink, si accorse che io manifestamente la aspettavo, ed io mi accorsi che pure Lei si aspettava di trovarmi lì. Dopo pranzo mi accompagnò a vedere il laboratorio dove stava facendo la ricerca per la sua, di tesi, e dopo camminammo per le piazze, nella direzione vaga e certissima delle coppie che magari ancora non lo sanno, ma iniziano. Dopo il caffè (nel bar con le tazze tirolesi) ci salutammo vaghissimi sui modi e tempi ma tacitamente sicuri sull’importanza del rivedersi.
Stamani, 25 luglio. Sulla via di scuola, una ragazza dell’età che si aveva noi allora, che si liscia pensierosa i pantaloni. Sono sicuro che si aspetta di vedere qualcuno che manifestamente la aspetta.
E infatti, dopo un po’, li vedo insieme, a camminare verso il chissà dove impreciso e certissimo delle coppie che, magari non lo sanno, ma iniziano.
Il posto da cui guardi le vacanze
Per ogni viaggio credo ci sia un posto, scoperto per caso o per caso fattosi avanti, che diventa il punto di osservazione per tutta l’esperienza.
Di questa vacanza pugliese, ho capito quale fosse, per me, quel punto, al ritorno, lungo l’ultimo pezzo di autostrada, la scorrevolissima e necessarissima (almeno un tempo) Conegliano- Portogruaro.
È il muretto che, di fronte a palazzo Ammazzalorsa, si affaccia sul porto di Bisceglie. Lì la sera terminavo la passeggiata per le intricate e sorprendenti viuzze di un centro storico meraviglioso, tutto o quasi ancora da sottoporre a manutenzione (fatti salvi angoli o tratti d’incanto, come quello che mena da via Tupputi alla Cattedrale).
Accompagnare di lì il digradare dela luce era come avvertire quanto si era depositato nelle ferree giornate di caldo: lo svuotamento di ogni altra intenzione che non fosse la cura dei cuccioli e l’essenzialità parca nei movimenti. In buona sostanza, le cose che veramente danno sapore, lo stesso processo che toccava ai sassi messi ad asciugare dai piccoli, sui quali restava la patina sapida del sale.
Lì fermo, prima di prendere la strada verso il gelato di Cova, ho più volte, girando lo sguardo, enumerato tutte le cose che, quando ero piccolo, turbavano le mie abitudini: gli orari sballati, le luminarie barocche per la festa dei Santi Protettori, gli accenti del dialetto biscegliese, i riflessi della pietra bugnata dei palazzi. Oggi, ho pensato, tutto questo, che mi inquietava, rappresenta l’unità di misura cui riconduco ogni altra cosa.
Una di queste ultime sere, dopo averlo pensato, mi sono voltato verso i cuccioli.
Sono le cose di mio padre, queste, mi sono detto. E dovevo diventare padre anch’io per capire.
Uniti dalla crisi
Mi fermo al forno vicino a casa per comprare pane e focaccia.
Il proprietario mi saluta, ci si aggiorna: che piacere rivedersi dopo un anno, che novità ci sono. Inevitabilmente si parla della crisi. Eh, fa lui.. Fino all’ anno scorso la domenica incassavo 500 euro, adesso 150: in un mese la differenza è l’affitto. Poi le tasse, l’IMU, le banche che faticano a darti credito (usura e gratta e vinci vanno alla grande, invece): insomma, se va così a dicembre si chiude e vado a fare pane in Germania, dice.
Ci salutiamo, e penso che, più o meno, lo stesso discorso di questo fornaio pugliese l’ho sentito a Pordenone diverse volte, di questi tempi.
Capri, colpe, responsabilità
I politici ovviamente.
Gli statali.
Quelli dell’ altra generazione (dalla propria).
Quelli che vogliono le province.
L’IMU.
Lo spread.
Quelli che non vogliono le province.
Il Sindaco.
Il Presidente della Provincia.
Quelli che non hanno capito e non ci hanno votato.
I vicini di casa.
Quelli dalla movida (movida movida???).
Quelli che vanno a nanna presto.
(Qui, aggiungete a piacere).
Mi basta leggere l’aggiornamento di status su Facebook dei miei contatti naoniani, in un domenica consueta di questo tempo inconsueto, per estrarre un breve elenco di colpevoli. Di cosa? Di un contributo di qualche genere a questo tempo che non va. Qualcuno da punire in qualche modo, e le cose andranno meglio.
È una roba seria e antica, la ricerca del capro espiatorio. Essa salda contro qualcuno una comunità: gli Ateniesi, nella loro geniale opera di costruzione della comunità sopra le ancestrali strutture antropologiche, lo avevano capito e si erano inventati l’ostracismo: una volta l’anno, votazione del capro dell’anno, via dalla polis per un anno e l’anno dopo nuovo giro.
Ma noi siamo postmoderni, e il capro espiatorio non fonda le comunità, ma solo lo spazio di sfogo solipsistico di un post e di
una manciata di like.
Prossimo giro, prossima colpa e prossimo sfogo nel prossimo post. Altrove, in Rete (che non è una roba sola) si parla di responsabilità e di costruzione di reti sociali, ma fa più difficile. Ma si sa, per aspera ad astra, no?

