Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/25

Oggi: le incurie pubbliche, e chi ne è causa.

Capitolo 4, pp. 90-95

Al termine dell’interrogatorio, mentre viene ricondotto in prigione, Piazza fa i nomi di alcune persone a suo dire amiche del barbiere Mora. Quest’affermazione giunge improvvisa e incongrua, come nota lo scrittore:

Quelle nuove denunzie in aria, o que’ tentativi di denunzie volevan dire apertamente: voi altri pretendete ch’io vi renda chiaro un fatto; come è possibile, se il fatto non è?” (p. 90)

Ma gli eventi ormai corrono così. Altrettanto irragionevole è la conduzione del nuovo interrogatorio di Mora: gli viene chiesto come mai avesse offerto il vasetto di unguento a Piazza, se lo conosceva così poco, dopo che la scarsa conoscenza non è stata ritenuta motivo di dubbio nell’accogliere la versione del commissario di Sanità, che, come si ricorderà, aveva detto che Mora lo aveva incrociato per strada e gli aveva offerto l’unto. Questa incoerenza, nota Manzoni, non è segno di quei tempi: è una conseguenza della scelta, fatta all’inizio della vicenda, di seguire non la ragione,  ma la rabbia e la paura, le passioni pubbliche cui dare risposta:

“Eppure, si devono naturalmente usar meno riguardi nel cercare un complice necessario a una contravvenzion leggiera, e per una cosa in sé onestissima, che a cercarlo, senza necessità, per un attentato pericoloso quanto esecrabile: e non è questa una scoperta che si sia fatta in questi due ultimi secoli. Non era l’uomo del secento che ragionava così alla rovescia: era l’uomo della passione.”(p. 92)

Manzoni si sofferma ancora sull’interrogatorio di Mora, che affronta anche un primo confronto con Piazza, restando sulla sua posizione. Qui, lo scrittore fa cenno a come la cosa fosse poi riferita allo Spinola, reticentemente e parzialmente, come per altri fatti del processo: ma Spinola, nota ancora Manzoni, aveva per la testa solo l’assedio di Casale, che per di più non gli riuscì. Qui lo scrittore propone un rapido inciso:

“Gli avevan fatto peggio, col dargli un posto a cui erano annesse tante obbligazioni, delle quali pare che a lui ne premesse solamente una: e probabilmente non gliel avevan dato che per questa.” (p. 94)

I giochi della politica in tre righe: Spinola aveva tante incombenze -tra le quali, è implicito, quella di badare alle cose di Milano-, ma gli interessava solo una cosa (l’assedio, e il suo onore di conquistatore di città); e chi gli aveva dato l’incarico, sapeva bene che a lui interessasse solo l’azione militare.

 

Dopo l’inciso su Spinola, la narrazione torna sugli interrogatori; tocca di nuovo a Piazza, che dichiara di avere prove del fatto di essere stato a casa di Mora. Si tratta di una novità, rispetto al confronto tra i due del giorno prima, e Manzoni la mette in evidenza, per comprenderla:

Era venuto a fare una tal dichiarazione, di suo proprio impulso? O era un suggerimento fattogli dare da’ giudici? Il primo sarebbe strano, e l’esito lo farà vedere; del secondo c’era un motivo fortissimo.” (p. 96)

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/24

Oggi: la luce della verità è un’altra cosa.

Capitolo 4, pp. 86-90

Per accontentare gli scrupoli degli inquirenti, il commissario di Sanità Piazza s’ingegna d’inventarsi un incontro fortuito, durante il quale il barbiere Mora gli avrebbe dato appuntamento per consegnargli il materiale per ungere i muri. Tutta la storia ha una inverosimiglianza che Manzoni fa giganteggiare semplicemente riportandola e che collide con gli effetti perniciosi (la diffusione del contagio) che pur quella consegna avrebbe recato. I magistrati non dicono nulla e aggiungono l’ulteriore assurdità di torturare di nuovo Piazza, perché la sua testimonianza sia confermata:

“Chi fossero, non lo sa; sospetta che dovessero essere vicini del Mora; come fossero vestiti, non se ne rammenta; solo mantiene che è vero tutto ciò che ha deposto contro di lui. Interrogato se è pronto a sostenerglielo in faccia, risponde di sì. È messo alla tortura, per purgar l’infamia, e perché possa fare indizio contro quell’infelice.” (p. 87)

 

Manzoni spiega che questa forma di tortura, fatta perché il reo confermasse la sua versione, era consueta; egli aggiunge che, comunque,  ebbe molta meno drammaticità di quella precedentemente inflitta all’accusato:

Del resto, è facile indovinare che la tortura datagli per fargli ritrattare un’accusa, non dovette esser così efficace come quella datagli per isforzarlo ad accusarsi. Infatti, non ebbero questa volta a scrivere esclamazioni, a registrare urli né gemiti: sostenne tranquillamente la sua deposizione.” (p. 89)

 

Un dubbio resta ai giudici, come mai Piazza non abbia raccontato prima la versione che accusa lui stesso e Mora. Il commissario di Sanità attribuisce la sua esitazione iniziale all’influsso sui di lui dell’acqua che aveva bevuto; si tratta di una fragile spiegazione, che i giudici non possono che farsi bastare:

Gli domandaron due volte perché non l’avesse fatta ne’ primi costituti. Si vede che non potevan levarsi dalla testa il dubbio, e dal cuore il rimorso, che quella sciocca storia fosse un’ispirazion dell’impunità. Rispose: fu per l’impedimento dell’aqua che ho detto che haueuo beuuta. Avrebbero certamente desiderato qualcosa di più concludente; ma bisognava contentarsi.” (p. 89)

 

Del resto, nota lo scrittore, i giudici non potevano sperare di trovare nella bizzarra storia di Piazza la soddisfazione che deriva dall’aver trovato la verità:

potevan pretendere di trovarci quella soddisfazione che può dar la verità sinceramente cercata? Spegnere il lume è un mezzo opportunissimo per non veder la cosa che non piace, ma non per veder quella che si desidera.” (p. 90)

Sviare, falsare, manipolare consentono, certo, di distogliere lo sguardo da quello che non piace vedere e che non torna con la propria versione precostituita, ma di certo non gettano luce su niente di vero.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/23

Oggi, contenuto extra: La storia di Lucia, l’untrice

[Don Lisander perdoni l’ardire]

 

1.

Lucia salutò il giovane carabiniere, che le restituì, dopo aver scribacchiato una firma, il foglio di autodichiarazione. Si sporse sulla sua destra, aprì la borsa a sacco che teneva sul sedile del passeggero, piegò il foglio, lo schiacciò dentro. Sfiorando il portafogli, le venne in mente che le serviva un po’ di denaro liquido, per quelle due cose da prendere senza usare la carta.

 

La giornata di lavoro era stata pesante, Roberto si era dimenticato di prendere le sigarette, si era fatto tardi, non aveva i contanti giusti per il distributore che stava nel palazzo di fronte a casa sua, dove stava l’edicola-tabacchi.

C’era lo sportello Bancomat: avrebbe preso un taglio piccolo, venti euro, giusto per l’acquisto. Parcheggiò davanti al POS, c’era un’altra auto lì vicino, ne stava uscendo una ragazza.

 

Il POS era sulla strada principale, che portava verso casa sua. Lucia aprì lo sportello, sentì pruderle il naso. La sua allergia stagionale: doveva scrivere al medico per farsi girare la ricetta per lo spray.

Si avvicinò allo sportello, era uno di quelli che davano direttamente sulla strada. Mise la tessera nella fessura, digitò il PIN; lo schermo le comunicò che l’operazione era sospesa.

Tirò su col naso.

Riprovò.

Ancora operazione sospesa, si prega di provare più tardi.

Va bene, si disse Lucia, domattina. Il naso le pizzicava, si sfregò la narice con l’indice destro e tornò in auto, per rincasare.

 

Roberto attese che la ragazza finisse, ci stava mettendo un po’. Bene o male, se ne andò; lui scese.

Prelievo momentaneamente non disponibile.

Vabbè, domani.

 

2.

La mattina dopo c’era un bel sole, l’aria era fresca e l’allergia di Lucia stava, ovviamente, progredendo. Uscì di casa un po’ prima del solito per fermarsi al POS. Mise su la mascherina prima di chiudere la porta del suo appartamento, tenne fuori dalla borsa il portafogli, per averlo pronto per la sosta allo sportello.

Arrivò, parcheggiò, le squillò il telefono. Il naso le prudeva e si era pure tappato. Sollevò la mascherina, rispose. Sua madre le chiedeva come stesse, come ogni mattina. Lucia vide che un’altra auto parcheggiava, uscì per finire la conversazione e arrivare per prima a fare il prelievo.

 

Roberto fermò l’auto. C’era una ragazza che stava andando allo sportello; sembrava quella della sera prima, stava telefonando.

 

Lucia chiuse la conversazione, si avvicinò allo sportello, iniziò la sequenza del PIN. Il naso era sempre più chiuso. Apparve la schermata per la scelta dell’importo, lei toccò il tasto dei 50 euro. Sternutì.

Gli schizzi s’infransero sulla tastiera e sul monitor. Si era dimenticata di calare la maschera, lo fece. Il POS ronzava per emettere la banconota, lei frugò nella borsa, trovò le salviette umidificate, ne estrasse una dal pacchetto, iniziò a sfregare lo sportello, per pulirlo un poco.

 

-Cosa fai? Vergognati.

 

Lucia vide dietro di sé un signore, che era uscito da un’auto che era arrivata subito dopo la sua.

-Dice a me? Perché?

-Non ti vergogni, brutta stronza? Sternutisci e poi spalmi i germi sullo sportello. Ma ti rendi conto? Vuoi farci ammalare tutti? Vuoi contagiarci tutti?

La voce di Roberto si faceva più alta ad ogni frase. Lucia restò ferma, a guardarlo, non sapeva che dire.

Si affacciò l’edicolante, venne fuori anche il cassiere, che stava disponendosi all’apertura.

-Ma vi rendete conto che questa sternutisce e spalma i germi sullo sportello? Brutta stronza, ci vuoi fare ammalare?

Roberto le si avvicinò, l’edicolante e il cassiere fecero qualche passo verso di lei. Roberto era proprio vicino, adesso, spalma i germi spalma i germi continuava a ripetere.

Lucia tirò su col naso.

Roberto si fermò a due passi forse da lei. Lucia distolse lo sguardo e si diresse verso l’auto, spalma i germi spalma i germi continuava la voce, a Roberto si avvicinarono gli altri due uomini. Lucia li vide dallo specchietto dell’auto, vide l’uomo e uno degli altri due estrarre dalla tasca della giacca il cellulare.

 

3.

Era arrivata al lavoro da un quarto d’ora, forse, e le si avvicinò Giorgia, dall’altro ufficio.

-Ma sei tu su Facebook? Che hai fatto?

Lucia estrasse il suo telefono dalla borsa, andò sulla pagina che Giorgia le aveva indicato, “Noi di…”.

Il post era fatto di tre fotografie, lei di profilo vicino all’auto, la targa dell’auto, lei che entrava in auto. “Questa deficiente spalma il contagio ai Bancomat! Vergognati! Brutta stronza!” I like erano già 150, i commenti 70. Luisa lesse il primo, “Brutta scema, fermarli questi deficienti stronzi coglioni”, e si fermò.

Erano in pochi, negli uffici vicini: quelli che come lei dovevano per forza lavorare lì e non da casa, ma quel giorno nessuno si affacciò.

Il telefono continuò a vibrarle.

Il telefono, a un certo punto, suonò. Era un giornalista della redazione di un quotidiano locale, e le chiese cosa avesse da dire. Lucia si chiese come facesse ad avere il suo numero, non lo chiese però al giornalista.

-Non ho niente da dire.

Chiuse la conversazione, silenziò il telefono.

A metà pomeriggio i like erano 1300, i commenti 580, ma Lucia non li volle leggere. Le chiamate perse erano 10, tutte di numeri sconosciuti.

Poi, qualcosa cambiò.

 

4.

Aperta la porta di casa, Lucia andò in bagno a lavarsi, si rivestì con la tuta e, prima di iniziare a prepararsi la cena -a mettere in tavola una pizza surgelata, ecco cos’era-, decise che era il momento di affrontare Facebook, i commenti e tutto il resto.

La pagina di “Noi di…” aveva ora altri post, sopra quello che riguardava.

Altre foto.

Altre persone.

Altri deficienti stronzi coglioni che non si vergognavano.

La mattina dopo, ce n’erano ancora tanti di più.

A qualcuno iniziarono a fare del male.

Poi, a più di qualcuno.

E sempre più male.

 

A lei, nessuno fece più caso, ce ne erano altri da cercare.

Sempre nuovi.

Più male.

 

5.

Sette giorni dopo, la mattina, a Lucia salì un po’ la febbre.

Normale, si disse, con l’allergia.

Telefonò in ufficio, avvisò che non sarebbe andata, avrebbe chiamato il medico.

Poi, vennero il mal di gola, la tosse, la difficoltà a respirare, il ricovero.

 

6.

In qualche modo, da qualche parte, qualcuno le aveva trasmesso il contagio.

 

 

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/22

Oggi: gli esperti che sragionano e l’uso ingannevole del diritto.

Capitolo 4, 82-86

Due vasi di sterco e dei residui di lavatura sono i reperti della perquisizione in casa del barbiere Mora. Dei primi non si dice altro; sul ranno, invece, i giudici si sentono in dovere di chiedere perizia tecnica:

“Si fece esaminare quel ranno da due lavandaie, e da tre medici. Quelle dissero ch’era ranno, ma alterato; questi, che non era ranno; le une e gli altri, perché il fondo appiccicava e faceva le fila. “In una bottega d’un barbiere,” dice il Verri, “dove si saranno lavati de’ lini sporchi e dalle piaghe e da’ cerotti, qual cosa più naturale che il trovarsi un sedimento viscido, grasso, giallo, dopo varii giorni d’estate? (p. 82)

Cinque esperti non arrivano a formulare una considerazione logica. Il piano inclinato del giudizio precostituito procede attraverso piccoli e coerenti slittamenti.

 

Lo sguardo dello scrittore si sposta ora, di nuovo, sul commissario di Sanità Piazza, che viene convocato dai giudici per approfondire un loro scrupolo: come può il barbiere avergli affidato il compito di ungere i muri, se ha dichiarato di conoscerlo solo superficialmente? L’intento degli accusatori è quello di ottenere da Piazza ulteriori rivelazioni, pertanto essi rimettono in circolo la promessa dell’impunità, la quale potrebbe essere revocata se il commissario non dirà la verità; quella, beninteso, che essi attendono. Qui Manzoni nota:

E qui si vede, come avevamo accennato sopra, cosa poté servire ai giudici il non ricorrere al governatore per quell’impunità. Concessa da questo, con autorità regia e riservata, con un atto solenne, e da inserirsi nel processo, non si poteva ritirarla con quella disinvoltura. Le parole dette da un auditore si potevano annullare con altre parole.” (p. 86)

Piazza non poteva sapere queste cose, Manzoni le sa; dietro le sue asciutte parole, si delineano tutti gli episodi d’uso parziale e artefatto del diritto, che attraversano I promessi sposi, a partire dal primo, goffo, messo in opera da don Abbondio per confondere Renzo.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/21

Oggi: lo sterco, il sapone, gli inganni alla povera gente.

Capitolo 4, pp. 79-82

La vicenda dell’arresto e dell’imputazione del barbiere Mora ripropone, in una chiave ancora più grottesca, quella che ha riguardato il commissario di Sanità: passa anch’essa attraverso l’incredulità iniziale del sospettato, e si sviluppa attraverso il rilievo esagerato dato a elementi secondati. Se per Piazza tutta l’accusa s’incentra su un pennino e un vasetto, su Mora essa si fonda su due ancor più umili basi: lo sterco e il ranno (il miscuglio fatto di cenere e acqua che si usava per il bucato).

All’inizio, il barbiere si preoccupa che l’accusino di esercizio abusivo del mestiere, per aver preparato il vasetto d’unguento senza licenza:

“Credeva l’infelice, che il suo reato fosse d’aver composto e spacciato quello specifico, senza licenza.”(p. 79)

Poi, inizia la ricerca degli indizi sospetti: il primo, è costituito da due vasi di sterco, prodotto -Manzoni nota la cosa senza aggiungere nemmeno un cenno di commento, il che, come accade spesso nelle sue pagine, fa risaltare ancora di più l’elemento tragico- dell’isolamento che il barbiere, in tempo di peste, soè imposto dal resto della sua famiglia:

Si trovaron perciò in una stanzina dietro la bottega, duo vasa stercore humano plena, dice il processo. Un birro se ne maraviglia, e (a tutti era lecito di parlar contro gli untori) fa osservare che di sopra vi è il condotto. Il Mora rispose: io dormo qui da basso, et non vado di sopra.” (p. 80)

 

Il secondo indizio d’accusa è il contenitore con il ranno avanzato dagli usi per il bucato della famiglia del barbiere. Su questo, gli accusatori si concentrano negli interrogatori, in particolare quando ascoltano il figlio di Mora; sarebbe stato facile allora, nota lo scrittore, fare al ragazzo delle domande risolutive:

“Ma”, soggiunge, “temevano di non trovarlo reo”. E questa veramente è la chiave di tutto.” (p. 82)

 

Si cerca quello che si vuole trovare e si scorda quello che non si vuole trovare. E questa vicenda di vasi di sterco e di sapone per bucato, le povere cose della pulizia della povera gente -le cose che ovunque si sarebbero potute trovare, nelle dimore di povera gente- si manifesta, senza tante parole di commento da parte dell’autore, in tutta la sua ingiustizia.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/20

Oggi: La compassione, che è una bella cosa, ma che in sé non è giustizia.

Capitolo 4, pp. 77-79

Manzoni avvia il nuovo capitolo mostrandoci subito l’auditore di giustizia nella bottega del Mora, per procedere all’arresto. Qui, però, lo scrittore si ferma, e lascia il passo alla sua fonte principale, Pietro Verri che, egli nota, si è premurato di investigare bene la condizione del barbiere, scoprendone anche il nuemro dei figli:

Ed è bello il vedere un uomo ricco, nobile, celebre, in carica, prendersi questa cura di scavar le memorie d’una famiglia povera, oscura, dimenticata: che dico? infame; e in mezzo a una posterità, erede cieca e tenace della stolta esecrazione degli avi, cercar nuovi oggetti a una compassion generosa e sapiente.” (p. 76)

 

Ed è bello, esordisce lo scrittore, con una notazione estetica, è bello vedere emergere la compassione dello studioso nobile e famoso nei confronti dell’umile, per di più screditato.

Qui, Manzoni sta in realtà invitando il lettore a non prendere l’ovvia strada della compassione. Una cautela che suona molto buona anche per chi vive i tempi d’oggi, nei quali l’istanza emotiva configura le prese di posizione spesso prima di un ragionamento sul merito. Si trattasse solo di questo, scrive invece Manzoni, potrebbe trattarsi, infatti, della compassione per un colpevole, che andrebbe a confliggere con la giustizia:

 Certo, non è cosa ragionevole l’opporre la compassione alla giustizia, la quale deve punire anche quando è costretta a compiangere, e non sarebbe giustizia se volesse condonar le pene de’ colpevoli al dolore degl’innocenti. Ma contro la violenza e la frode, la compassione è una ragione anch’essa.” (p. 77)

In realtà, la contrapposizione non è con la giustizia, ma con la frode e la violenza, e per questo la compassione può avere il suo corso.

 

Ma la compassione è un’attitudine complessiva; la sostanza, per Manzoni, è la dimostrazione minuziosa della congerie di illegalità che si snodarono ancora, dopo quelle già avvenute: per il Mora, tutte a partire da quella fondante, cioè il fatto che l’accusa ottenuta promettendo l’impunità non aveva, per gli studiosi di diritto (gli scrittori spesso citati), nessuna validità

Ma non ce n’è bisogno; perché, quand’anche fossero state adempite tutte a un puntino, c’era in questo caso una circostanza che rendeva l’accusa radicalmente e insanabilmente nulla: l’essere stata fatta in conseguenza d’una promessa d’impunità.” (p. 78)

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/19

Oggi: un interrogatorio inverisimile ed il tribunale della coscienza.

Capitolo 3, pp. 70-75

L’interrogatorio di Piazza, deliberatosi a confessare qualcosa che non ha fatto, pur di aver l’impunità, si snoda attraverso una serie di incongruenze che Manzoni annota in progressione. La prima, decisiva per la rovina di altri, sta nell’attribuire al barbiere Mora la responsabilità di avergli dato l’unguento:

Ma il disgraziato, che, mentendo a suo dispetto, cercava di scostarsi il possibile meno dalla verità, rispose soltanto: a me l’ha dato lui l’unguento, il Barbiero.” (p. 71)

La bugia, una volta innescata, fa riscrivere a Piazza tutto, a partire dalla sua relazione con Mora:

Gli domandano se detto Barbiero è amico di lui Constituto. E qui, non accorgendosi come la verità che gli si presenta alla memoria, faccia ai cozzi con l’invenzione, risponde: è amico, signor sì, buon dì, buon anno, è amico, signor sì; val a dire che lo conosceva appena di saluto.” (p. 71)

Continuando, Piazza inventa una motivazione inverisimile: il barbiere gli avrebbe dato l’unguento perché egli lo applicasse ai muri. Lo scrittore rileva come anche Verri abbia palesemente enfatizzato l’illogicità delle parole del commissariod i Sanità:

Mi disse: pigliate questo vasetto, et ongete le muraglie qui adietro, et poi venete da me, che hauerete una mano de danari. “Ma perché il barbiero, senza arrischiare, non ungeva da sé di notte!” postilla qui, stavo per dire esclama, il Verri. E una tale inverisimiglianza avventa, per dir così, ancor più in una risposta successiva.” (p. 72)

Le incongruenze si accrescono, Verri nota ancora come fosse semplice coglierne una macroscopica, cioè il fatto che il barbiere si esponesse al rischio, quando avrebbe potuto ungere di nascosto, a partire da casa sua:

Nemmeno l’uscio suo proprio aveva unto il barbiere!” postilla qui di nuovo il Verri. E non ci voleva, certo, la sua perspicacia per fare un’osservazion simile; ci volle l’accecamento della passione per non farla, o la malizia della passione per non farne conto, se, come è più naturale, si presentò anche alla mente degli esaminatori.” (p. 73)

E qui Manzoni interviene, richiamando il lettore al ruolo delle passioni, che accecano (come sanno i tragici greci) a agiscono per malizia (come è più vicino all’orientamento cristiano dell’autore).

 

Resta da capire come mai Piazza non abbia confessato prima: qui l’accusato allude ad un intruglio datogli a bere dal Mora; Manzoni nemmeno commenta, tanto è palese, l’illogicità di questo passaggio:

Risponde: io non l’ho detta, perché non ho potuto, et se io fossi stato cent’anni sopra la corda, io non haueria mai potuto dire cosa alcuna, perché non potevo parlare, poiché quando m’era dimandata qualche cosa di questo particolare, mi fugiva dal cuore, et non poteuo rispondere. Sentito questo, chiuser l’esame, e rimandaron lo sventurato in carcere.” (p. 74)

A questo punto, con Piazza riportato in custodia, inizia, o riprende un altro processo, che è quello della coscienza, e che allo scrittore, come si è notato più volte, interessa altrettanto. Manzoni si chiede quanto possa essere scusato il commissario di Sanità: verrebbe da dire parecchio, se non che la calunnia, che egli costruisce ai danni di Mora, non può mutare dall’essere colpa. Nel proprio spazio di libertà -e di assunzione di tutte le sue conseguenze- Piazza ha potuto decidere, e non c’è, su questo punto, spazio per la compassione:

Ma costretta a rispondere, la coscienza deve dire: fu anche colpevole; i patimenti e i terrori dell’innocente sono una gran cosa, hanno di gran virtù; ma non quella di mutar la legge eterna, di far che la calunnia cessi d’esser colpa. E la compassione stessa, che vorrebbe pure scusare il tormentato, si rivolta subito anch’essa contro il calunniatore: ha sentito nominare un altro innocente; prevede altri patimenti, altri terrori, forse altre simili colpe.” (p. 75)

Questo vale, come tutta la tessitura relativa al perimetro del diritto, svoltasi in questo capitolo, ha dimostrato, anche per gli accusatori:

E gli uomini che crearon quell’angosce, che tesero quell’insidie, ci parrà d’averli scusati con dire: si credeva all’unzioni, e c’era la tortura?” (p. 75)

Lo scrittore lo ha già mostrato all’inizio del capitolo: una volta messa in moto la macchina delle menzogne, essa procede sempre più veloce, alimentandosi di menzogne ulteriori. Chiudendo il capitolo, egli anticipa come il seguito della vicenda sia chiara evidenza di quella premessa:

Se, per impossibile, tutto quello che venne dopo fosse stato un concorso accidentale di cose le più atte a confermar l’inganno, la colpa rimarrebbe ancora a coloro che gli avevano aperta la strada. Ma vedremo in vece che tutto fu condotto da quella medesima loro volontà, la quale, per mantener l’inganno fino alla fine, dovette ancora eluder le leggi”. (p. 76)

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/18

Oggi: Contenuto extra

La storia e la persona

Con le pagine centrali del terzo capitolo, lo scrittore, come si è visto, abbandona quasi repentinamente l’ampia analisi delle fonti storiche per portarci vicini ad una persona che si trova davanti ad una scelta. Questo movimento richiama, con al forza della sua repentinità, l’assunto fondamentale che sostiene tutto il lavoro, cioè l’esistenza di uno spazio tra i condizionamenti esterni nei quali si svolge la vicenda degli uomini e la loro azione.

La convinzione che regge le pagine introduttive dalla Storia è che il complesso delle leggi, e delle interpretazioni delle leggi, disponibili ai giudici al tempo della peste non spiega la vicenda del processo agli untori, sia nella sua origine, che nei suoi movimenti. C’è un di più: il di più è stato rappresentato dalle scelte che di volta in volta hanno orientato gli eventi. Le pagine fin qui lette argomentano l’assunto: a partire dall’evento inziale, in cui la supposizione della prima testimone si trasforma rapidamente, per via di ingigantimento collettivo della diceria, in dato di fatto, per proseguire via via con l’uso irregolare della tortura, con la sua irregolare reiterazione, con la relazione artefatta allo Spinola e, infine, con l’altrettanto irregolare proposta d’immunità, in cambio di una confessione, all’accusato, il commissario di Sanità Piazza.

In tutto questo, fino al punto in cui è giunta la narrazione, il potente lievito che ha agito è stata la spinta dei desideri e delle passioni collettive, di quell’entità che Manzoni chiama pubblico: desideri e passioni che cercano sbrigativamente colpevoli e soluzioni. Fin qui, tutti gli atti irregolari presentati sono stati atti disposti da qualche soggetto più o meno collettivo, ma non diversamente individuato.

Il primo atto davvero personale, che Manzoni ci presenta guardandolo dal di fuori (perché, come si è detto, questa è una storia e non un romanzo) è la scelta, portatrice di nuove sventure, di un perseguitato, lo stesso Piazza. Abbiamo notato le simmetrie tra la vicenda del commissario di Sanità e quelle della monaca di Monza; in entrambe le vicende, all’autore interessa mettere il lettore di fronte al dramma della scelta perniciosa e forzata, pur sempre però, per lo scrittore, scelta.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/17

Oggi: la storia, il romanzo, la scelta che è data a una persona.

Capitolo 3, pp. 64-70

Manzoni si concentra per alcune pagine a mettere in chiaro le incongruenze giuridiche connesse all’evento decisivo per lo sviluppo del processo: la promessa d’impunità fatta dai giudici a Piazza, in cambio di qualche rivelazione. Essa non aveva fondamenti, come lo scrittore ritiene di dimostrare attraverso le fonti. Di qui, egli si sposta velocemente dal contesto generale al commissario di Sanità in carcere: il perso della storia si pone sopra le spalle di un solo individuo.

Manzoni prepara così il cedimento di Piazza alla proposta di rivelare qualcosa, in cambio dell’impunità:

Ma chi può immaginarsi i combattimenti di quell’animo, a cui la memoria così recente de’ tormenti avrà fatto sentire a vicenda il terror di soffrirli di nuovo, e l’orrore di farli soffrire! a cui la speranza di fuggire una morte spaventosa, non si presentava che accompagnata con lo spavento di cagionarla a un altro innocente! giacché non poteva credere che fossero per abbandonare una preda, senza averne acquistata un’altra almeno, che volessero finire senza una condanna.” (p. 69)

Chi può immaginarsi: bisogna ricordare che la Storia è, appunto, la ricostruzione di come andarono dei tristi eventi di uomini; per immaginare, lo spazio è un altro: quello del romanzo, dove personaggi portati dal contesto in cui si trovano allo stremo sono seguiti dallo scrittore nei moti interiori (certo: Gertrude è la prima di questa lista). Ma la storia è la storia, il romanzo è il romanzo.

Cedette, abbracciò quella speranza, per quanto fosse orribile e incerta; assunse l’impresa, per quanto fosse mostruosa e difficile; deliberò di mettere una vittima in suo luogo.” (pp. 69-70)

Cedette; assunse; deliberò: non sappiamo quali siano stati i pensieri di Piazza, ma certo essi condussero a questo triplice movimento, che è quello -di ascendenza aristotelica- che conduce alla deliberazione, dalla quale deriva l’azione. La chiave della lettura della storia, per Manzoni, converge sempre verso un punto, il foro interiore dell’individuo e lo spazio della sua scelta.

“Ma come trovarla? a che filo attaccarsi? come scegliere tra nessuno? Lui, era stato un fatto reale, che aveva servito d’occasione e di pretesto per accusarlo. Era entrato in via della Vetra, era andato rasente al muro, l’aveva toccato; una sciagurata aveva traveduto, ma qualche cosa. Un fatto altrettanto innocente, e altrettanto indifferente fu, si vede, quello che gli suggerì la persona e la favola.” (p. 70)

Piazza deve trovare qualcuno da incolpare al suo posto, e Manzoni prova, per inferenze, a seguirlo nelle prime conseguenze della sua deliberazione: la ricostruzione, nella memoria, degli eventi, e l’appiglio ad un piccolo fatto.

Volevan dal Piazza una storia d’unguento, di concerti, di via della Vetra: quelle circostanze così recenti gli serviron di materia per comporne una: se si può chiamar comporre l’attaccare a molte circostanze reali un’invenzione incompatibile con esse.” (p. 70)

Un piccolo fatto, come un piccolo fatto è quello che ha innescato tutta la vicenda: Piazza ricorda il barbiere cui aveva commissionato un unguento, e tanto basta -l’unguento- a comporre una vicenda inverisimile, ma ben accetta alle aspettative dei giudici. Si mette così in moto una nuova macchina accusatoria.

Quaranta giorni con la Storia della colonna infame /16

Oggi: la cattiva coscienza, che moltiplica azioni per non renderne conto.

Capitolo 3, pp. 62-64

Poiché la tortura non produce effetto, gli inquisitori cambiano tattica, facendo apparire al Piazzi l’eventualità dell’impunità, a patto che dica la verità; quella, beninteso, nota l’autore, che sta bene a loro:

l’auditor fiscale della Sanità, in presenza d’un notaio, promise al Piazza l’impunità, con la condizione (e questo si vede poi nel processo) che dicesse interamente la verità. Così eran riusciti a parlargli dell’imputazione, senza doverla discutere; a parlargliene, non per cavar dalle sue risposte i lumi necessari all’investigazion della verità, non per sentir quello che ne dicesse lui; ma per dargli uno stimolo potente a dir quello che volevan loro.” (p. 62)

A questo punto Manzoni introduce un nuovo reperto in questa vicenda di costruzione di verità posticce: la lettera che il Capitano di Giustizia scrive al generale Ambrogio Spinola, impegnato in quell’assedio di Casale che spesso torna come sfondo nei Promessi sposi. Si tratta di una lettera in cui le cose sono mezze taciute e mezze rimodellate, poiché, scrive l’autore,

era che avevan fatta una cosa da non potersi raccontare nella maniera appunto che l’avevan fatta; era, ed è, che la falsa coscienza trova più facilmente pretesti per operare, che formole per render conto di quello che ha fatto.” (p. 64)

Una volta avviato il suo percorso, la falsa coscienza non può far altro che produrre situazioni che le consentano di creare ancora fatti, piuttosto che disporsi a rendere conto delle sue azioni, secondo un percorso di confusione e sviamento che può fare affidamento sulla distrazione umana: perché lo Spinola era tutto concentrato sull’assedio della città piemontese, e disattento al resto:

Ma sul punto dell’impunità, c’è in quella lettera un altro inganno che lo Spinola avrebbe potuto, anzi dovuto conoscer da sé, almeno per una parte, se avesse pensato ad altro che a prender Casale, che non prese.” (p. 64)

E in quel “che non prese” si avverte la forza dell’autore, di chiudere in un breve giro di parole, dal sapore ironico, una constatazione che ha del tragico.