Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/19

Oggi: un interrogatorio inverisimile ed il tribunale della coscienza.

Capitolo 3, pp. 70-75

L’interrogatorio di Piazza, deliberatosi a confessare qualcosa che non ha fatto, pur di aver l’impunità, si snoda attraverso una serie di incongruenze che Manzoni annota in progressione. La prima, decisiva per la rovina di altri, sta nell’attribuire al barbiere Mora la responsabilità di avergli dato l’unguento:

Ma il disgraziato, che, mentendo a suo dispetto, cercava di scostarsi il possibile meno dalla verità, rispose soltanto: a me l’ha dato lui l’unguento, il Barbiero.” (p. 71)

La bugia, una volta innescata, fa riscrivere a Piazza tutto, a partire dalla sua relazione con Mora:

Gli domandano se detto Barbiero è amico di lui Constituto. E qui, non accorgendosi come la verità che gli si presenta alla memoria, faccia ai cozzi con l’invenzione, risponde: è amico, signor sì, buon dì, buon anno, è amico, signor sì; val a dire che lo conosceva appena di saluto.” (p. 71)

Continuando, Piazza inventa una motivazione inverisimile: il barbiere gli avrebbe dato l’unguento perché egli lo applicasse ai muri. Lo scrittore rileva come anche Verri abbia palesemente enfatizzato l’illogicità delle parole del commissariod i Sanità:

Mi disse: pigliate questo vasetto, et ongete le muraglie qui adietro, et poi venete da me, che hauerete una mano de danari. “Ma perché il barbiero, senza arrischiare, non ungeva da sé di notte!” postilla qui, stavo per dire esclama, il Verri. E una tale inverisimiglianza avventa, per dir così, ancor più in una risposta successiva.” (p. 72)

Le incongruenze si accrescono, Verri nota ancora come fosse semplice coglierne una macroscopica, cioè il fatto che il barbiere si esponesse al rischio, quando avrebbe potuto ungere di nascosto, a partire da casa sua:

Nemmeno l’uscio suo proprio aveva unto il barbiere!” postilla qui di nuovo il Verri. E non ci voleva, certo, la sua perspicacia per fare un’osservazion simile; ci volle l’accecamento della passione per non farla, o la malizia della passione per non farne conto, se, come è più naturale, si presentò anche alla mente degli esaminatori.” (p. 73)

E qui Manzoni interviene, richiamando il lettore al ruolo delle passioni, che accecano (come sanno i tragici greci) a agiscono per malizia (come è più vicino all’orientamento cristiano dell’autore).

 

Resta da capire come mai Piazza non abbia confessato prima: qui l’accusato allude ad un intruglio datogli a bere dal Mora; Manzoni nemmeno commenta, tanto è palese, l’illogicità di questo passaggio:

Risponde: io non l’ho detta, perché non ho potuto, et se io fossi stato cent’anni sopra la corda, io non haueria mai potuto dire cosa alcuna, perché non potevo parlare, poiché quando m’era dimandata qualche cosa di questo particolare, mi fugiva dal cuore, et non poteuo rispondere. Sentito questo, chiuser l’esame, e rimandaron lo sventurato in carcere.” (p. 74)

A questo punto, con Piazza riportato in custodia, inizia, o riprende un altro processo, che è quello della coscienza, e che allo scrittore, come si è notato più volte, interessa altrettanto. Manzoni si chiede quanto possa essere scusato il commissario di Sanità: verrebbe da dire parecchio, se non che la calunnia, che egli costruisce ai danni di Mora, non può mutare dall’essere colpa. Nel proprio spazio di libertà -e di assunzione di tutte le sue conseguenze- Piazza ha potuto decidere, e non c’è, su questo punto, spazio per la compassione:

Ma costretta a rispondere, la coscienza deve dire: fu anche colpevole; i patimenti e i terrori dell’innocente sono una gran cosa, hanno di gran virtù; ma non quella di mutar la legge eterna, di far che la calunnia cessi d’esser colpa. E la compassione stessa, che vorrebbe pure scusare il tormentato, si rivolta subito anch’essa contro il calunniatore: ha sentito nominare un altro innocente; prevede altri patimenti, altri terrori, forse altre simili colpe.” (p. 75)

Questo vale, come tutta la tessitura relativa al perimetro del diritto, svoltasi in questo capitolo, ha dimostrato, anche per gli accusatori:

E gli uomini che crearon quell’angosce, che tesero quell’insidie, ci parrà d’averli scusati con dire: si credeva all’unzioni, e c’era la tortura?” (p. 75)

Lo scrittore lo ha già mostrato all’inizio del capitolo: una volta messa in moto la macchina delle menzogne, essa procede sempre più veloce, alimentandosi di menzogne ulteriori. Chiudendo il capitolo, egli anticipa come il seguito della vicenda sia chiara evidenza di quella premessa:

Se, per impossibile, tutto quello che venne dopo fosse stato un concorso accidentale di cose le più atte a confermar l’inganno, la colpa rimarrebbe ancora a coloro che gli avevano aperta la strada. Ma vedremo in vece che tutto fu condotto da quella medesima loro volontà, la quale, per mantener l’inganno fino alla fine, dovette ancora eluder le leggi”. (p. 76)

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