Maturità: il colloquio come ascolto attivo e incontro tra generazioni

Maturità: il colloquio come ascolto attivo e incontro tra generazioni

Ogni anno l’esame di Stato del secondo ciclo (o di maturità, come tornerà ad essere chiamato) rappresenta per migliaia di studenti italiani un rito di passaggio. È un momento carico di significato, non solo per ciò che certifica, ma per ciò che simbolicamente racchiude. Tra tutte le prove, il colloquio orale è quella più specifica dell’esame stesso, muovendosi tra uno spunto di partenza, argomenti diversi e le riflessioni sul cosiddetto PCTO.

Il colloquio assume una valenza particolarmente intensa, che viene manifestata, in questi ultimi anni, dalle varie forme di festeggiamento che seguono le prove dei candidati, rispetto alle quali, oltre alle considerazioni di colore, tra mazzi di fiori, calici di Prosecco, corone d’alloro, vanno fatte anche delle riflessioni sulla latente domanda di senso generazionale che esse implicano.  In questi giorni d’esame, mi è capitato spesso di riflettere su questi aspetti generazionali e su come il colloquio sia non solo una doverosa forma di verifica, ma come spazio di parola, di espressione, di riconoscimento: un tempo in cui la scuola ha l’opportunità di ascoltare davvero chi ha accompagnato per cinque anni.

L’Ordinanza Ministeriale n. 67 del 31 marzo 2025, che ha disciplinato quest’anno l’Esame di Stato, richiamando la normativa che vige da anni sottolinea chiaramente la portata del colloquio: esso ha carattere multidisciplinare e serve ad accertare “il conseguimento del profilo educativo, culturale e professionale dello studente”, ponendo l’accento sulla “capacità di argomentazione, di pensiero critico e riflessivo, nonché di collegamento tra le conoscenze acquisite”. Sono parole che delineano non una semplice interrogazione, ma un’occasione formativa profonda, che si realizza pienamente solo se sostenuta da un ascolto attivo: un ascolto che accoglie, che rispetta i tempi e i modi con cui ogni studente sceglie di raccontare sé stesso. Perché è proprio questo che accade nel colloquio, quando è autentico: lo studente prende parola non solo per mostrare ciò che ha studiato, ma per far emergere chi è diventato lungo il cammino.

L’ascolto che educa

Nel mondo della scuola, l’ascolto è spesso sacrificato alla necessità di misurare, valutare, classificare. Ma il colloquio ci ricorda che educare significa prima di tutto saper ascoltare. Come scrive Duccio Demetrio, “chi ascolta davvero educa due volte: perché custodisce la narrazione dell’altro, e perché apre lo spazio in cui quella narrazione può trasformarsi in consapevolezza”. Ascoltare uno studente che collega un testo letterario a una questione etica, che rielabora un’esperienza personale a partire da un concetto di fisica o di storia, significa offrirgli la possibilità di dare forma al proprio pensiero, di assumersi la responsabilità di ciò che dice, e quindi di ciò che è.

Ma l’ascolto attivo, per essere tale, implica una presenza reale da parte dell’adulto. Significa lasciarsi interrogare, sospendere il giudizio, essere disposti a restare in silenzio per dare valore a ogni parola, anche a quelle più esitanti. Il colloquio è anche questo: un esercizio di attenzione reciproca, che educa alla democrazia, alla responsabilità, alla cura della relazione.

Un incontro tra generazioni

Il colloquio è inoltre uno spazio prezioso di incontro tra generazioni. Da una parte il giovane che si affaccia alla vita adulta, dall’altra docenti che rappresentano la scuola come comunità educante. In quel dialogo si gioca qualcosa di profondo: la possibilità che avvenga una trasmissione simbolica, un riconoscimento che non si limita alla prestazione scolastica, ma tocca la persona.

Francesco Stoppa, ne La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, scrive che la rottura generazionale nasce quando gli adulti smettono di trasmettere e i giovani smettono di ricevere. Recuperare quel patto significa costruire scene in cui la parola dei giovani trovi spazio, ascolto e legittimità. Il colloquio di maturità può diventare proprio una di queste scene di restituzione: uno spazio in cui lo studente restituisce ciò che ha ricevuto, e l’adulto restituisce riconoscimento e fiducia.

Una comunità che ascolta

A offrire un’altra prospettiva illuminante è bell hooks, teorica dell’educazione e del pensiero critico. Nel suo Teaching to Transgress, afferma che “la classe resta lo spazio più radicale di possibilità” e che una comunità educativa è tale solo quando si fonda sull’interesse reciproco, sulla valorizzazione delle voci, sulla reale presenza degli uni per gli altri. Scrive:

“La nostra capacità di generare entusiasmo è profondamente influenzata dal nostro interesse reciproco, dal desiderio di ascoltarci davvero, dal riconoscere la presenza dell’altro.”

Il colloquio, se vissuto con questo spirito, può diventare l’esercizio più alto di comunità scolastica. Non un rituale burocratico, ma un tempo in cui l’adulto si fa testimone e non solo giudice, e in cui il giovane può sentirsi finalmente riconosciuto come soggetto di pensiero, di parola, di storia.

Un’occasione educativa più ampia

In questo senso, il colloquio è molto più che una prova d’esame. È una scena educativa che coinvolge tutti i protagonisti della scuola.

Per lo studente, è un’occasione per riappropriarsi della parola, per collegare saperi e vissuto, per dire la propria storia attraverso ciò che ha imparato. È un gesto di responsabilità, ma anche un atto di libertà.

Per la commissione e per i docenti, è un tempo per riconoscere la singolarità di ogni percorso. Un invito ad ascoltare, non per misurare, ma per comprendere. Perché ogni discorso, ogni scelta, ogni esitazione è carica di significato e merita attenzione.

E per la scuola intera, è il momento per mettere in atto ciò che afferma nei documenti, ma che troppo spesso rischia di restare sulla carta: centralità della persona, personalizzazione dei percorsi, valorizzazione delle competenze trasversali. Il colloquio di maturità è la verifica finale anche di quanto la scuola è stata capace di educare all’interiorità, alla riflessione, alla relazione.

Lentezza, ascolto, cura

In un tempo che spesso premia la velocità, l’efficienza e la prestazione, il colloquio ci ricorda il valore della lentezza, dell’ascolto e della cura. È una soglia che si attraversa insieme: chi lascia la scuola lo fa con le proprie parole, chi vi resta lo accompagna con lo sguardo di chi sa riconoscere.

Se al termine del colloquio uno studente può dire, anche solo dentro di sé, “mi hanno ascoltato davvero”, allora la scuola avrà fatto ciò per cui esiste: educare alla vita, attraverso l’incontro.

quattro passi nella costruzione della socialità

Attraversare la “mia” scuola (quella della quale, giusta un’espressione latina esattissima, sono Dirigente pro tempore) significa muoversi lungo tre edifici, collegati tra di loro da due piccoli cortili.

Mi piace muovermi in questi spazi la mattina presto, quando non c’è ancora nessuno.  Ma è più bello muoversi qui dopo, quando cominciano ad arrivare insegnanti e studenti. Arrivano, si aggregano, iniziano a chiacchierare, poi, secondo ritmi loro o secondo il suono delle campanelle, salgono nelle classi, nei laboratori. Lasciano vuoti i corridoi.

I giorni, sono quelli che sono, in Italia, oggi. Come che vada, decisivi, ad ogni modo, per questo angolo di mondo. Angolino sempre più -ino, ma angolino dove si muove la vita che vivo. Vent’anni fa, ne avevo meno di trenta, e ci furono giorni decisivi, che in effetti decisero molto della mia età adulta. Questi di adesso decideranno l’età verso la mia vecchiaia, immagino; soprattutto, gli anni che accompagnano l’arrivo tra gli adulti dei “miei” studenti. E dei miei figli.

Si parla molto, e giustamente, di tutti i “patti” fondativi, scritti e no, del nostro vivere civile, che si sono deteriorati o sfaldati. Di quelli da riscrivere. Ogni mattina, in mezzo ai corridoi, entrando nelle aule, attraversando i cortili, sento di stare in un posto quanto si voglia complicato, mal raccontato, affaticato -sì, certo-: ma un posto dove ogni mattina si fonda e si vive -con tutte la fatiche del caso- il patto della socialità.

La scuola.

 

 

piccole cose sacre (continuando un discorso con Roberto Cescon)

Mi è successo di scriverci sopra qualche pagina, tanto tempo fa (davvero tanto tempo fa): tutte le volte che provo a raccontare il mio lavoro, le parole mi suonano immediatamente ben misera cosa, rispetto all’esperienza.   Capita con amici (e conoscenti e non conoscenti) che fanno altri lavori, e questo, in fondo, può essere. Capita anche, però, quando scrivo quello che faccio in relazioni, progettazioni, programmazioni e rendicontazioni delle cose scolastiche ad uso di lettori, per così dire, esperti, come sono allievi e colleghi. Provvisoriamente, in proposito penso questo: durante la giornata di scuola capita a noi docenti di essere talora catalizzatori, talora promotori, talora testimoni, talaltra ostacoli ad un processo, silenzioso, misterioso e necessario, di trasformazione: dei nostri allievi. E nostra. (Ed è forse questo che spiega la contemporanea esperienza di vuoto e di pieno che si prova alla conclusione di una giornata di lezioni -si è dato tutto, e che cosa sia di questo tutto, chi lo sa davvero). Dentro contenitori austeri anche nella loro versione più elegante (o se si preferisce: dotati di una fascinosa austerità anche se scalcinatissimi), dentro spazi che simbolicamente si comprendono a colpo d’occhio davvero da Aosta a Lampedusa (e oltre), dentro l’alternanza di momenti gioiosi e di distese di noia: lì dentro, dico (provvisoriamente, di nuovo, per quel che ne ho capito per ora con le mie piccole forze) si svolge un rito. Un rito, appunto, di trasformazione, che prescinde da tutto l’apparato materiale e si sostanzia invece dei robusti fondamenti simbolici (spazi, ruoli, tempi) e che, come tutti i riti, fonda una comunità. La scuola, insomma, è un luogo dotato di sacralità. Una sacralità antropologica, connettiva, il cui più chiaro segno è proprio il fatto che -come tutte le cose sacre e misteriose, come tutti i riti fondativi- essa risulti, in ultima analisi, non raccontabile.

E’una sacralità del quotidiano, una liturgia di piccole cose, anzi, la liturgia delle piccole cose sacre, come dice benissimo, in un testo cui questo mio vuole collegarsi, Roberto Cescon qui. Una sacralità di quelle che forniscono un tessuto connettivo ad una comunità -preziosa, specie di questi tempi, nei quali i fili che tessano, appunto, tra senso e nonsenso quotidiano, il vivere sociale, sono fragili.

Ed è per questo che, qualunque ne sia la causa (criminalità, follia, gelosia, megalomania, vendetta, terrorismo o altro ancora: una causa che, sia beninteso, è dovere trovare), quanto è avvenuto ieri a Brindisi  ha il segno, scandaloso, della profanazione. Nel pieno senso del termine.

Dopo le profanazioni, dopo lo sbigottimento, il sacro necessita di cura, i luoghi vanno riconsacrati, secondo i riti. Domani -pertanto- torneremo a scuola, ciascuno nella sua -fatta della stessa pasta di questa– a compiere un piccolo prodigio quotidiano, a riconsacrare il rito della piccola paziente cura delle piccole pazienti cose, in attesa (un po’ catalizzatori, un po’ testimoni, un po’ ostacoli, com’è umano che sia) delle mirabili trasformazioni. Che solo così, a partire da piccole aule quotidiane, avvengono.

approssimarsi

Quest’anno mi trovo a insegnare in due classi parallele, due terze Liceo del Classico, quaranta creature piene di voglia, idee, passioni e intelligenza avviate con trepidazioni classiche e perplessità nuove verso l’esame di Stato e quel che ne verrà poi. Se leggete l’elenco degli argomenti da proporre alle due classi, nei documenti di programmazione, potrete naturalmente pensare che si tratti delle stesse cose. Ma le vicende reali non sono così, in ognuna delle classi c’è un’intenzione, un’attenzione, una condivisione che orientano tutta la grammatica dell’ora di lezione in maniera assolutamente peculiare, mettono alla luce snodi, risvolti, connessioni tutte proprie. Come mai accada, ce l’hanno spiegato meglio i costruttivisti, che i cognitivisti: i nessi si che creano tra le persone, in un contesto di apprendimento situato, strutturano impalcature di senso specifiche, producono -detto in altri termini- delle cornici narrative con la loro propria tonalità, e le cornici rafforzano vieppiù la nota di specificità. Ed insomma, si tratta di storie di scuola totalmente diverse: volte a che cosa, si potrebbe chiedere? Mi convinco, diventando vecchio, che siano volte non già a dare la dimostrazione (autoassolutoria rispetto ad ogni manchevolezza) che gli argomenti non si stringono, né si stringerannno mai del tutto; piuttosto, invece, a dare luce sempre nuova alle vie infinite dell’approssimazione: che non è, etimologicamente, confusione o genericità, ma (appunto) ad-prossimarsi, farsi sempre più asintoticamente vicini a ciò che riconosciamo come prossimo. E nelle sue variabilissime e variatissime vie, l’inevitabile cammino dell’approssimazione -che è fatto di tutti i passi per conquistare maggiore vicinanza- mette più in chiaro, per contrasto, lo spazio inviolabile nel quale ciò cui ci avviciniamo diventa (non saprei dire diversamente) mistero: luogo degno di rispetto, pieno di senso proprio nel suo mobilitare il nostro avvicinarci e nel suo renderci certi di una sostanziale inattingibilità. Farle, viverle, capirle insieme, in un’aula scolastica, permette anche di sopportarle, queste cose, di caricarsele sulle spalle e farle diventare qualcosa. Like ·

nella testa della stessa persona

(Ci abbiamo lavorato oggi, a lezione)

Tito Livio, in qualche modo forse imparentato con Ottaviano stesso, comincia la sua opera monumentale  dicendo(si): la storia di Roma è grande, le sue origini sono mitiche, pazienza se sono un po’ esagerate, Roma è la padrona del mondo e quindi si può concedere qualche esagerazione (e qui si capisce perché Machiavelli, a proposito dell’uso delle posizioni di forza, guardasse tanto a Livio).

Comunque, procede Livio, adesso vi racconterò una storia meravigliosa, con grandi e sobri inizi, all’insegna della povertà e della parsimonia; poi, poco a poco c’è stato un decadimento nel lusso, portato da fuori (e ci mancherebbe…), fino ai nostri tempi nei quali…nei quali…

….e ci aspetteremmo: nei quali è arrivato Ottaviano ed ha rimesso le cose a posto. E invece, no: nei quali, dice Livio, non siamo capaci nè di reggere ai mali, né di sopportarne i rimedi.

Però. Insomma, nella stessa testa, due codici culturali, in conflitto tra di loro. Da una parte, la propria formazione, di cittadino colto della res publica, che non può che interpretare come decadimento le guerre civili e le loro conseguenze (Ottaviano, insomma); dall’altra parte, l’automitologia di un presente sfacciato, vincente ma ancora in corso di costruzione, che, non potendo fare appello ad altro per giustificarsi, si richiama ai mitemi delle origini, al luogo insomma dove si fonda l’identità, da prendere come valore autosufficiente e liquidatore di ogni dubbio residuo.

Tutto nella testa di una stessa persona.

Come oggi.

doppiare boe

Certo, hanno un nome scolastichese, ma è roba di scuola e dunque che male c’è? Li abbiamo fatti questa settimana, gli allievi del penultimo anno del mio Liceo si sono divisi per aree di interesse e hanno partecipato ad incontri, presentazioni, visite per farsi venire qualche idea in più in merito alle loro scelte future.

Io, con Roberto Cescon, ho seguito la combriccola degli umanisti, che pensano a Lettere, Filosofia, Storia, Pubbliche Relazioni, alla stravituperata Scienza delle Comunicazioni (ma vi ricordate, ed era appena il 1993, quando era una facoltà selettiva e ci andavano i bravissimi ? ci sarebbe da scrivere sopra una storia dell’Italia di questi anni…).

Son stati giorni. Il racconto delle cose d’editoria dal di dentro, di Federica Manzon e Alessandro Canzian, di cosa significhi fare cultura sul territorio, con Valentina Gasparet, gli scenari della trasformazione digitale nelle parole del guru gangherolo, le nuove vie dell’informazione nelle lucide analisi di Sergio Maistrello, una lezione di rigore che, dalle più immediate ed accessibili esperienze quotidiane porta alle vette dell’astrazione filosofica con Enrico Tommaso Spanio

Ci siamo salutati, stamattina, per riprendere da lunedì i nostri cammini nelle classi, sapendo che un’ideale boa è stata doppiata, adesso. Sapendolo loro, naturalmente, è la loro boa, il loro percorso, ma avere l’onore  (che altra parola si dovrebbe usare?) di accompagnarlo e vederlo sbocciare, e il dovere di fare pulito il terreno per questa fioritura -beh, insomma: è un bel segnale in un sabato di febbraio, bello come lo screziarsi delle luci di questa serata.

qualchevolta

Benedetta è tornata entusiasta da una lezione sull’alimentazione. Nessuno, in famiglia, ha potuto sottrarsi alla sua lezione sui cibi amici ed i cibi non amici.

 A metà pomeriggio, si è diretta come niente verso la tavoletta di cioccolato bianco, la schifezzona per la quale lei ed io stravediamo.

“E allora, come la mettiamo coi cibi amici? Questo mi sa che non lo è tanto.”

“Ma ci hanno detto che qualche volta si possono mangiare.”

“E allora?”

“Allora adesso è una qualchevolta“.

una perfezione

Mia figlia si è alzata ed è venuta a chiedermi un album per disegnare.

-E i compiti? Li hai finiti? (sono pur sempre un insegnante)

-Mi manca pochissimo, adesso ho una cosa più importante da fare. (una cosa più importante? Trasalisco: sono pur sempre un insegnante)

(dopo un quarto d’ora, mi affaccio da lei, che sta davanti all’album, chiuso, assorta)

-Finito il disegno? Posso vederlo?

-Non ancora papi. Devo aggiungere una perfezione.