Fattore umano, algoritmi e memoria


Mi capita sempre più spesso di sentire frasi come: “Tanto adesso lo chiedo all’IA”, “Farà tutto l’algoritmo”, “Deciderà il sistema”.
È come se, lentamente, stessimo abituandoci all’idea che il pensare, il valutare, il ricordare possano essere “esternalizzati”, delegati a qualcosa di esterno a noi.

Proprio per questo, paradossalmente, il fattore umano diventa oggi più importante che mai.
Non come parola consolatoria, ma come domanda scomoda: che cosa rimane davvero umano, quando gli algoritmi sanno già fare così tante cose meglio di noi?

Oltre l’illusione del “cervello-computer”

Nel loro libro Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Ugo Morelli e Vittorio Gallese ci aiutano a spostare lo sguardo. Non descrivono l’umano come una macchina un po’ più complessa, né come un cervello che elabora informazioni in modo più raffinato degli altri animali.

Al centro del loro discorso non c’è l’individuo isolato, ma la relazione: siamo esseri che nascono incompiuti, fragili, dipendenti dagli altri. Il nostro cervello si sviluppa dentro una trama di sguardi, voci, gesti, contatti; l’intelligenza non è un software che gira su un hardware cerebrale, ma un processo incarnato, emotivo, intersoggettivo.
In questo senso, l’intelligenza umana ha un carattere radicalmente non algoritmico:
non segue istruzioni lineari,
non applica soltanto regole già date,
si muove in un mondo di ambiguità, conflitti, emozioni,
si costruisce nel tempo, nelle relazioni, nella storia personale.

Morelli e Gallese parlano di uno “spazio noicentrico”: non una somma di “io”, ma un campo condiviso di significati, credenze, valori, dentro cui ciascuno di noi si forma. Pensare, sentire, decidere non sono operazioni puramente interne alla scatola cranica, ma modi di abitare questo spazio comune; dove l’algoritmo organizza dati, l’umano abita un mondo.

Memoria: non un magazzino, ma una trama nel tempo

Qui si innestano in modo sorprendente le riflessioni della filosofa Victoria Trumbull. Nel suo recente saggio “Memory is not stored in the brain” contesta una delle metafore più radicate del nostro immaginario: l’idea che la memoria sia “immagazzinata” nel cervello come file in un hard disk.
La metafora è diventata quasi dogma: se c’è un ricordo, da qualche parte nel cervello ci deve essere il suo “file fisico”. Ma, osserva Trumbull, questa è già una scelta teorica, una scommessa materialista molto forte: si assume in partenza che ogni stato mentale sia identico a uno stato cerebrale. Le correlazioni tra attività neurale e ricordi non bastano a dimostrarlo, così come le impronte sulla sabbia non dimostrano che “il camminare è immagazzinato nelle impronte”.
La sua tesi è più radicale: la memoria non è collocata nello spazio, ma nel tempo.
Ricordare non significa recuperare un oggetto conservato da qualche parte, ma ri-attualizzare una continuità temporale, un filo narrativo che ci attraversa. Il ricordo è un modo di tenere insieme passato, presente e futuro, non una “cosa” archiviata in una zona del cervello.
Se prendiamo sul serio questa intuizione, di derivazione bergsoniana (e con richiami a Sant’Agostino), ne deriva qualcosa di decisivo per la nostra domanda sull’umano:
la mente non è un magazzino di contenuti;
l’identità non è una banca-dati;
la memoria è forma del tempo vissuto, non elenco di informazioni.
Ancora una volta, ciò che conta è il modo in cui abitiamo la nostra storia, non la quantità di dati che possiamo conservare o processare.

Perché l’intelligenza umana non si lascia ridurre ad algoritmo
Mettendo insieme Morelli–Gallese e Trumbull, si delinea un’immagine dell’umano molto diversa dall’immaginario informatico dominante.
1. Siamo corpo, non solo calcolo
Il pensiero nasce in un corpo vulnerabile, che si muove, si espone, si ferisce. Non esiste un “io” separato dalla sua postura, dal suo respiro, dai suoi tremori. Un modello algoritmico può simulare risposte intelligenti, ma non può sentire sulla propria pelle la paura, la vergogna, la gioia, il lutto che trasformano il nostro modo di pensare.
2. Siamo relazione, non individui autosufficienti
Il nostro cervello è letteralmente plasmato dall’incontro con gli altri. I neuroni specchio, a cui Gallese ha dedicato tanto lavoro, mostrano come già a livello neurale l’altro abiti in noi. Un algoritmo può essere connesso in rete, ma non appartenere a una comunità, non rischiare se stesso nel legame con qualcuno.
3. Siamo tempo, non solo memoria di dati
Il nostro pensiero è intriso di attese, rimpianti, promesse, anticipazioni: viviamo di ciò che non c’è ancora e di ciò che non c’è più. Una IA può gestire cronologie, ma non ha una biografia; può “ricordare” informazione, ma non può essere modificata nel profondo da un ricordo che fa male o che salva la vita.
Per questo parlare di “intelligenza artificiale” può essere fuorviante:
gli algoritmi sono potentissimi, ma restano sistemi di trasformazione di input in output secondo regole (anche molto complesse). L’intelligenza umana, invece, è la capacità di stare in un mondo che non obbedisce a regole chiare, di assumersi responsabilità sotto incertezza, di decidere anche quando non ci sono dati sufficienti.

Che cosa diventa prezioso nell’epoca dell’IA
Se tutto questo è vero, il fattore umano non è il “romantico di scorta” da tirar fuori quando l’algoritmo non basta ancora. È, al contrario, il criterio con cui dovremmo giudicare l’uso delle tecnologie intelligenti.
Alcune domande che dovremmo porci, ogni volta che introduciamo un nuovo sistema di IA nella vita sociale, nella scuola, nel lavoro:
Questo strumento libera tempo e energie per le relazioni umane o le impoverisce?
Aiuta le persone a comprendere meglio sé stesse e gli altri, o le spinge a funzionare come ingranaggi più efficienti?
Rafforza la nostra capacità di assumere decisioni responsabili, o ci abitua a delegare senza pensare?
Tiene conto della nostra dimensione corporea, emotiva, temporale, o riduce tutto a prestazione e performance?
In altre parole: stiamo usando l’IA per diventare più umani o per renderci un po’ più simili alle macchine che costruiamo?

Una possibile direzione
Non si tratta di contrapporre in modo ingenuo “umano buono” e “macchina cattiva”. Le tecnologie dell’IA possono aiutarci davvero: nella ricerca scientifica, nella cura, nell’organizzazione dei servizi, anche nei processi educativi. Ma possono farlo in modo fecondo solo se non accettiamo l’equivalenza tacita tra “mente” e “algoritmo”.
Prendere sul serio il carattere non algoritmico dell’intelligenza – come suggeriscono Morelli e Gallese – e la natura temporale della memoria – come propone Trumbull – significa ricordarci che:
nessun modello statistico può sostituire la responsabilità di un giudizio umano;
nessun sistema generativo può prendere il posto della ferita e della bellezza di una relazione reale;
nessuna “memoria esterna” può restituirci il lavoro paziente con cui, nel tempo, diventiamo la storia che raccontiamo di noi stessi.
Forse il vero compito, oggi, non è chiederci se l’IA “ci supererà”, ma quale umanità vogliamo coltivare in compagnia di questi nuovi strumenti.
E se abbiamo il coraggio di difendere, con ostinazione, tutto ciò che rimane irriducibile a un algoritmo: il corpo che trema, la voce che esita, il ricordo che ci cambia per sempre, lo sguardo che ci invita a dire “noi”.

Rileggendo Works di Vitaliano Trevisan

Quando si entra in Works, si ha la sensazione di varcare il cancello di un capannone: niente retorica d’ingresso, nessuna insegna luminosa. Un portone grigio, bulloni a vista, e dietro una lunga serie di turni, mansioni, licenziamenti, ripartenze. Il lavoro, per Trevisan, non è mai una categoria astratta, ma l’elenco testardo dei lavori concretissimi che ha fatto: magazziniere, muratore, gelataio in Germania, disegnatore tecnico, portiere di notte: una “prima vita” segnata dal passaggio da un’occupazione all’altra, sempre per necessità, mai per vera vocazione.

Qui sta già una prima forma di antropologia del lavoro: l’uomo non come “cittadino produttivo” in senso nobile, ma come detentore di competenze pratiche, fisiche, relazionali, sufficienti a “stare dentro” al mondo del lavoro senza mai davvero appartenervi. Si lavora non perché lo si desidera, ma perché bisogna “guadagnarsi da vivere, punto”.  Tutta la retorica del lavoro come autorealizzazione viene corrosa dall’interno, giorno dopo giorno, busta paga dopo busta paga.

Questa serie di impieghi, che potrebbe sembrare caotica, in realtà costruisce una precisa figura antropologica: l’individuo flessibile prima che la flessibilità diventasse parola d’ordine, il soggetto che dice sempre sì a qualsiasi lavoro, perché l’alternativa è la deriva – il “diventare barbone” che Trevisan contempla senza mai trovare il coraggio di sceglierlo davvero.  È un’umanità che non si riconosce nel mito dell’imprenditorialità di sé, ma nemmeno riesce a sottrarsi alle logiche di un Nordest che pretende disponibilità assoluta e in cambio offre precarietà cronica.

Su questo sfondo, Works è anche – e forse soprattutto – una straordinaria antropologia del paesaggio. Non c’è un “ambiente” neutro in cui il lavoro si svolge: il paesaggio del Nordest è una creatura del lavoro stesso. Capannoni, lotti industriali, villette addossate alle zone artigianali, strade di scorrimento, rotonde tutte uguali: la scrittura di Trevisan registra il territorio quasi come una mappa topografica deformata dalle esigenze della produzione.

La critica ha parlato, non a caso, di “scrittura geografica”: il lavoro disegna il mondo, lo corrode, lo occupa.  Le stesse dinamiche che sfruttano i corpi – profitto sopra tutto, sicurezza e dignità sempre in secondo piano – sono quelle che deturpano il paesaggio del Nordest: il rispetto per il territorio, come i contratti stabili, viene continuamente sacrificato.  Il risultato è una periferia diffusa, una “Los Angeles senza il cinema”, fatta di luci al neon, parcheggi vuoti, insegne spente: un paesaggio che sembra promettere movimento, e invece custodisce stanchezza e frustrazione.

Trevisan, da questo punto di vista, non è semplicemente il narratore di una vicenda biografica, ma lo spettatore malinconico di un naufragio: quello del Nordest e quello di se stesso, che in quel territorio è cresciuto e si è consumato.  Il libro diventa allora anche una “radiografia” di un certo capitalismo provinciale italiano: efficiente, vorace, feroce, ma incapace di trasformarsi in vera comunità di lavoro. Le figure che affiancano il protagonista sono spesso comparse, non compagni: nei tanti lavori attraversati, raramente ci sono colleghi che diventino davvero “classe”.

Eppure Works non è solo invettiva. Dentro l’invettiva scorre una domanda ostinata: che cosa resta di un uomo quando la sua vita è fatta di lavori che non lo rappresentano? La risposta non è consolatoria. Resta un corpo stanco, una mente piena di turni e orari, ma anche una sorta di sguardo eccedente, laterale. È da questo sguardo che nasce la “seconda vita”, quella della scrittura: Works è insieme bilancio della prima vita salariata e smisurato autocommento alla propria opera, tentativo di rimettere ordine nel caos degli anni precedenti.

In filigrana, si potrebbe dire che questa antropologia del lavoro e del paesaggio è una grande domanda politica, formulata però in forma narrativa: che tipo di società costruiamo quando il lavoro serve solo a sopravvivere, e il territorio è trattato come materiale di consumo? Le pagine di Trevisan non offrono risposte programmatiche, ma costringono a tenere insieme ciò che spesso separiamo: la storia di un singolo, la storia del lavoro, la storia di un pezzo d’Italia che ha creduto di potersi salvare solo lavorando di più e costruendo di più.

Alla fine della lettura, almeno per come la sento io, resta una doppia inquietudine: riguardo al lavoro – quanto di noi abbiamo sacrificato a occupazioni che non ci somigliano – e riguardo ai luoghi – che cosa dice di noi questo paesaggio di capannoni invecchiati male e strade sempre uguali. Works ci ricorda che non esiste antropologia del lavoro senza un’antropologia del paesaggio: ogni turno, ogni licenziamento, ogni “lavoretto” lascia un segno non solo sulle biografie, ma anche sul mondo che abitiamo. E forse, per iniziare a cambiare qualcosa, bisogna avere il coraggio di guardare entrambi quei segni senza distogliere lo sguardo.

Il flusso delle parole procede spesso per accumulo, come se il fraseggio seguisse il respiro affannato di chi racconta dopo il turno, non quello ordinato di un resoconto amministrativo. Periodi lunghi, elenchi, riprese, ripetizioni deliberate: la sintassi sembra masticata, rilavorata, continuamente sul punto di traboccare. È un flusso che non vuole essere elegante, ma esatto nella sua irregolarità, come una superficie di cemento mai del tutto liscia.

Dentro questo ritmo, gli incisi giocano un ruolo decisivo. Le parentesi, le frasi spezzate, le precisazioni improvvise, le auto-correzioni: sono come piccole digressioni mentali che emergono mentre si parla, non mentre si “comunica”. Ogni inciso apre una fessura: entra il dubbio, la memoria di un altro episodio, una nota laterale, una stizza, una constatazione amara. Più che un testo “rifinito”, Works dà spesso l’impressione di una conversazione interiore stenografata, in cui l’autore non cancella gli scarti, ma li lascia lì, visibili, come parte del problema. È anche così che l’antropologia del lavoro diventa antropologia dell’attenzione: il lettore è costretto a seguire deviazioni, ritorni, esitazioni, cioè quel movimento mentale che la comunicazione efficiente tende a sopprimere.

In  più di un passaggio, Trevisan distingue in modo netto tra “comunicazione” e “conversazione”. La comunicazione, per lui, è la parola dei nostri tempi: un sistema di tecniche che trasforma qualsiasi contenuto in merce, in qualcosa da vendere – un prodotto, un’opinione, una visione del mondo. Da questa industria della comunicazione, dice, escono “giovani mostri” addestrati a manipolare il linguaggio perché ogni scambio diventi una strategia persuasiva, un’operazione di marketing, mai un incontro gratuito.

Works è scritto esattamente contro questo modello. Lì la comunicazione è sempre funzionale, gerarchica, orientata al risultato. Riduce la persona a nodo di una catena: “risorsa”, “addetto”, “collaboratore”. Dentro la fabbrica, il cantiere, l’ufficio, la comunicazione non serve a capire chi hai davanti, ma a garantire che il meccanismo giri. È la stessa logica per cui anche le biografie diventano un “prodotto”, un memoir di formazione da impaginare bene, un racconto su cui “fare soldi sul proprio fallimento”, come Trevisan dice ironicamente in un’intervista.

La conversazione, invece, è per Trevisan un fatto umano, fragile, quasi anacronistico: una pratica di relazione che non parte dal desiderio di imporre o vendere qualcosa all’altro – neppure una verità o una sensazione – ma semplicemente di esprimersi e di essere ascoltati.  È in questo senso che Works è stato letto come una lunga conversazione con il lettore, una testimonianza che rinuncia all’“autorità” dell’autore e non vuole imporre nulla, ma solo mettere a disposizione un’esperienza.  Tutto quello che nella comunicazione deve essere levigato, accorciato, reso efficace, nella conversazione di Works viene lasciato grezzo: gli incisi, le digressioni, le ripetizioni, i ripensamenti sono i punti in cui il libro resiste alla logica della merce e dell’efficienza.

Se comunicare, nel mondo di Works, è un trasferimento di contenuti dentro un circuito produttivo (dell’azienda, dell’editoria, dei media), conversare è il tentativo di sottrarsi a quel circuito e di rimettere al centro la relazione, anche solo tra io narrante e lettore. In un contesto dove tutto – lavoro, paesaggio, perfino il racconto di sé – rischia di diventare “materiale” da usare e consumare, la conversazione è l’ultima forma di gratuità: un parlare che non serve a niente, nel senso in cui il mercato intende il “servire”, ma che serve a dire “io ci sono stato, questo è quello che ho visto, così mi ha fatto”.

E forse il libro nasce proprio da qui: dall’urgenza di dire almeno una volta la propria vita di lavoro non come “contenuto” ben confezionato, ma come conversazione rischiosa, interminabile, con qualcuno che – dall’altra parte della pagina – accetta di stare ad ascoltare senza comprare niente.

La riproduzione

La riproduzione è un grande classico della sociologia, un’opera in cui i due autori, Pierre Bourdieu e Jean-Claude Passeron, hanno provato nel 1970 ad analizzare il ruolo della scuola francese nella perpetuazione delle disuguaglianze sociali: siamo più o meno negli stessi anni di Lettera a una professoressa, che, tra le altre cose, pone le stesse domande alla scuola italiana.
Ho preparato una sintesi ragionata dei contenuti del libro, l’ho caricata su Notebook LM perché me ne producesse un podcast. Mi pare che il risultato sia interessante.

Su tre articoli a proposito di denatalità (e scuola)

Il tema della denatalità è tornato ieri, 18 agosto, in alcuni quotidiani: Carlo Cottarelli sul “Corriere della Sera” ha richiamato i rischi macroeconomici per l’Italia, mentre il “Messaggero Veneto” ha dedicato due pagine, a firma di Riccardo De Toma, al quadro regionale del Friuli Venezia Giulia, con un commento di Francesco Iori. In Friuli, nei primi cinque mesi del 2025, sono nati appena 2.563 bambini: meno di 500 al mese, un dato che porterà a superare il minimo storico toccato nel 2024. Nel 2007 i nati erano oltre diecimila: oggi si registra poco più della metà.

La stessa tendenza è evidente a livello nazionale: tra il 2008 e il 2023 le nascite sono scese da 576.000 a 379.000, con un tasso di fecondità che si attesta intorno a 1,2 figli per donna. Un calo strutturale, non ciclico, che si riflette già oggi nelle iscrizioni scolastiche.

Il tema ha ragioni e implicazioni complesse. Limitandomi alla scuola, le conseguenze sono chiare:
nei prossimi dieci anni la popolazione scolastica diminuirà di circa un milione di studenti;
in molte aree interne e montane sarà inevitabile accorpare o chiudere plessi scolastici;
il fabbisogno di personale docente e ATA andrà ridimensionato, con squilibri territoriali;
alcune comunità rischiano di perdere la scuola come presidio sociale e culturale.

Del resto, il Documento di Economia e Finanza del 2022 aveva già previsto queste dinamiche: meno studenti significa meno spesa per l’istruzione, ma anche un forte rischio di desertificazione educativa. Per questo si puntava su due linee strategiche: l’ampliamento dei servizi per la prima infanzia, con l’obiettivo del 33% di copertura dei nidi entro il 2027, e il rafforzamento dell’inclusione scolastica.

Di fronte a questi scenari, le scelte politiche sono cruciali (come Cottarelli e Iorio sottolineano): da un lato, gestire il declino con una razionalizzazione della rete scolastica, oppure trasformare la scuola in leva per politiche familiari e territoriali, investendo su nidi, tempo pieno, trasporti e servizi nei comuni più fragili.

Ovviamente, come detto, la questione della denatalità ha ragioni e implicazioni che vanno oltre, e che sollecitano un pensiero complesso e agganciato a prospettive che vanno oltre la contingenza.

La denatalità comunque non è più un dato lontano: è una realtà che cambia già oggi la vita delle scuole. I prossimi anni diranno se sarà gestita come riduzione inevitabile o affrontata come occasione per ripensare in profondità il sistema educativo e sociale.

Michelstaedter, l’IA, l’illusione dell’originalità


C’è qualcosa di profondamente attuale nel pensiero tragico di Carlo Michelstaedter. La sua opposizione tra persuasione e rettorica, lungi dall’essere solo una categoria etico-esistenziale, illumina oggi il cuore di una questione che tocca il nostro modo di scrivere, di conoscere, perfino di pensare, nell’epoca dell’intelligenza artificiale generativa.
Per Michelstaedter, la persuasione è l’adesione piena alla vita, un essere radicalmente presenti a sé stessi, rifiutando ogni forma di delega, ogni trucco per stare al mondo. La rettorica, al contrario, è la strategia dell’adattamento, del compromesso, del parlare per convincere piuttosto che per dire. È la forma della parola che si piega alle aspettative dell’altro, che usa il linguaggio non per vivere, ma per sopravvivere nel mondo degli altri. Scrive Michelstaedter:

“Essi parlano, e non vivono; persuadono gli altri e non se stessi; si contentano della parola perché non hanno la vita: sono i retori, i maestri della sicurezza” (La persuasione e la rettorica).

Ecco allora la frizione. L’AI, per sua natura, non può che essere retorica. Il suo compito non è vivere, né aderire alla vita, ma generare enunciati plausibili sulla base di immense collezioni di testi umani. L’intelligenza artificiale imita, ricompone, mescola: è uno specchio che riflette il modo in cui gli umani hanno già parlato, scritto, codificato la realtà. E più lo fa bene, più diventa performativa, utile, convincente. Appunto: retorica.
Chi cerca originalità nella risposta  dell’intelligenza artificiale dimentica che questa non ha un corpo, un dolore, un limite – insomma, un essere. La macchina non rischia nulla, non perde nulla. E proprio per questo non può mai “persuadere”, perché la persuasione richiede la perdita: è il frutto di un conflitto interiore, di una vita che si fa parola a costo di consumarsi. Come scrive ancora Michelstaedter:
“Chi è persuaso non ha bisogno di parole, né di mezzi, né di fine: egli è.
La parola che nasce dalla persuasione è silenziosa, radicale, opposta alla chiacchiera infinita della retorica. Per Michelstaedter, vivere persuasi significa non cercare giustificazioni nel linguaggio, non produrre discorsi che piacciano, non cercare l’applauso. È una resistenza all’automatismo del mondo, alla sua tendenza a sostituire la vita con il funzionamento. Che altro fa l’AI se non funzionare? E noi, quando scriviamo usando l’AI, stiamo funzionando o stiamo vivendo? E tuttavia, in modo paradossale, Michelstaedter ci insegna anche qualcosa su noi stessi, oggi che ci affidiamo con leggerezza agli strumenti generativi per produrre testi, idee, storie, discorsi. Quando deleghiamo il compito del dire all’AI, stiamo forse abdicando alla fatica della persuasione? Stiamo forse scegliendo, ancora una volta, la via più facile della retorica?

La lezione di Michelstaedter ci invita a un’etica della scrittura. Non tutto ciò che ha senso è ciò che funziona. Non tutto ciò che è nuovo è davvero originale. E non tutto ciò che si dice è necessariamente detto da qualcuno che vuole vivere con le parole e non sopravvivere dietro di esse. La vera sfida, allora, è questa: usare le macchine senza diventare macchine. Continuare a cercare, nella scrittura e nella vita, un punto di attrito, di esposizione, di rischio. Dove le parole non siano solo un modo per restare nel mondo, ma un tentativo radicale – anche fragile, anche fallibile – di esserci.


Il contrasto tra persuasione e retorica si rivela oggi particolarmente fecondo se confrontato con la riflessione critica sull’intelligenza artificiale generativa.

Emily Bender e Timnit Gebru, nel celebre On the Dangers of Stochastic Parrots (2021), mettono in guardia dal confondere l’apparenza di significato con la sua reale origine esperienziale: i LLM producono testo, ma non comprendono. Sono “pappagalli stocastici”, ripetitori plausibili ma privi di un’intenzione. Un’affermazione che risuona con quanto Michelstaedter afferma sui retori: “parlano, ma non vivono”.

Ilya Sutskever, uno dei fondatori di OpenAI, ha recentemente suggerito che i LLM potrebbero sviluppare una forma di coscienza linguistica. Ma qui la domanda michelstaedteriana si fa bruciante: può esserci coscienza senza perdita? senza esperienza della morte, del dolore, del limite?

Luciano Floridi  propone un’etica dell’AI fondata non sull’illusione dell’autenticità, ma sulla responsabilità epistemica di chi la usa. In altre parole: la posta in gioco non è l’originalità del testo generato, ma l’autenticità del soggetto che lo assume. Una visione in sintonia con l’idea che la persuasione, per Michelstaedter, non sia una tecnica, ma una forma di essere al mondo.

I giorni che segnano



La notte del 2 agosto 1980, passavo su un binario periferico della stazione di Bologna su un treno affollatissimo. Erano passate dodici ore da quando la  bomba aveva sventrato, per sempre, la stazione, uccidendo 85 persone. Ricordo bene l’aria densa che  impregnava i sedili, i finestrini, le valigie, ricordo bene il rombo dei generatori e la luce bianca delle fotoelettriche. Quel viaggio è  rimasto impresso nella mia memoria, come una delle tappe della storia della mia, precaria imprecisa quanto si voglia,  coscienza civile,  che si è formata a strappi, a sussulti, davanti all’ingiustizia e al dolore degli altri.

Il mio primo ricordo pubblico — forse il primo ricordo che ho— rimanda a piazza Fontana. Io sono piccolo, so che la mamma è molto tesa e papà è stato richiamato in caserma per giorni.
Poi la radio, una mattina del 1974: piazza della Loggia. Sono  tornato da scuola, e le parole “bomba” e “comizio” si incastrano nella mia testa. Sento parole alla radio, parole per dare coraggio, ma capisco che la vita di ogni giorno è diventata vulnerabile, improvvisamente fragile.
Il 16 marzo del 1978 ci rimandano a casa da scuola, e lo stesso succederà il 9 maggio. Come tutti i ragazzini delle medie vivo nell’intervallo di quei giorni facendo le cose di sempre, ma anche noi ragazzini delle medie pensiamo sempre a quello.
Il 27 maggio 1993 la bomba di via dei  Georgofili. Morte e macerie in un luogo di bellezza; li dietro avevo dormito, ai tempi del Liceo, prima di una delle cose belle di quando si è  giovani, un concorso studentesco. Ogni volta che vedo “Camera con vista” è un cortocircuito, un ossimoro difficile da reggere.
Molti anni più tardi, nel 2018, una campagna rossa di pomodori nel Foggiano, la campagna della mia infanzia, e un camioncino ribaltato. Raccoglitori stagionali, invisibili. Muoiono lavorando per pochi euro, in un’estate che pare indifferente. È ancora strage, ma senza clamore.
E poi, il 26 febbraio 2023. Un fiore in mezzo alla sabbia, a Cutro, davanti a un mare che ha visto di tutto, che ha memoria di tutto, che non è solo sfondo di miti e racconti e letteratura

Ognuna di queste date ha significato qualcosa nella mia educazione civile, che è fatta di domande che non hanno mai trovato risposta.
E oggi, ogni 2 agosto, ogni volta che passo in treno per Bologna, ogni volta che sento uno di quei nomi nome — Moro, Fontana, Loggia, Georgofili, Lesina, Cutro — so che lì, da qualche parte, sono diventato cittadino. Sto diventando cittadino.

Coltivare la motivazione implicita

(Riflessione a margine della lettura di Cristiano Corsini, “La fabbrica dei voti”)

Nel cuore di ogni percorso educativo autentico si cela una domanda che precede l’apprendimento stesso: perché imparare?. Non è una domanda che si pone a voce alta, né è necessariamente consapevole. Ma è lì, silenziosa e costante, come sottofondo emotivo e cognitivo di ogni atto scolastico. E proprio a questa dimensione intima e invisibile della motivazione si rivolgono Edward Deci e Richard Ryan con la loro teoria dell’autodeterminazione (Self-Determination Theory, SDT), che è tra le più influenti della psicologia motivazionale contemporanea.

La SDT parte da un presupposto semplice: gli esseri umani sono naturalmente curiosi, desiderosi di apprendere e orientati alla crescita. Scrivono Deci e Ryan:

> “When people are in conditions that support their autonomy, competence, and relatedness, they will be more motivated, more engaged, and more likely to thrive”
(Deci & Ryan, 2000, “The ‘What’ and ‘Why’ of Goal Pursuits”).

La motivazione, in questa prospettiva, non è un combustibile da fornire dall’esterno — tramite premi, punizioni o gratificazioni — ma una spinta interna che si sviluppa quando tre bisogni psicologici fondamentali vengono soddisfatti:

1. Autonomia – il bisogno di sentire che le proprie azioni sono auto-dirette e volontarie;
2. Competenza – il desiderio di sentirsi efficaci e capaci nel proprio ambiente;
3. Relazionalità (relatedness) – la necessità di sentirsi connessi agli altri e di essere riconosciuti.

Quando un contesto educativo ignora questi bisogni e si limita a fornire stimoli esterni (voti, premi, minacce), si sviluppa una motivazione estrinseca, fragile, condizionata, e spesso temporanea. Al contrario, un ambiente che nutre l’autonomia, che valorizza i progressi personali più che le classifiche, che offre rimandi costruttivi anziché giudizi sommari, favorisce quella motivazione intrinseca che nasce dal piacere stesso di apprendere, dal sentirsi coinvolti in un compito significativo.

Nel lessico di Deci e Ryan, è proprio questo il passaggio dalla motivazione controllata alla motivazione autonoma, che non è necessariamente spontanea, ma è “implicita”, nel senso che viene interiorizzata. L’alunno non obbedisce, non si adegua; sceglie, perché riconosce in ciò che fa un valore personale.

“Autonomy does not mean doing whatever one wants; it means acting with a sense of volition and having the experience of choice”
(Deci & Ryan, 1985, Intrinsic Motivation and Self-Determination in Human Behavior).

In questo senso, la scuola può essere — e spesso è — un luogo di disconnessione motivazionale. Laddove prevalgono forme di controllo (obblighi non negoziati, valutazioni giudicanti, assenza di voce studentesca), si spegne il desiderio di apprendere. Ma quando si costruisce una relazione educativa basata sulla fiducia, sull’ascolto e sul riconoscimento, si riattiva quella motivazione implicita che è già presente, come seme, in ogni studente.

Questa teoria ci chiede di ripensare il ruolo del docente non come somministratore di motivazioni, ma come facilitatore di ambienti favorevoli all’autodeterminazione. Ci chiede di superare la logica della performance a favore di una logica della crescita. E ci invita a restituire alla scuola la sua funzione più profonda: non il controllo dei risultati, ma la cura delle intenzioni.

In un’epoca in cui si misura tutto — voti, competenze, esiti — questa proposta può apparire ingenua. Eppure, non c’è apprendimento senza desiderio, e non c’è desiderio senza libertà. La motivazione implicita non si insegna, si coltiva, giorno dopo giorno, in una comunità che crede che ogni studente possa desiderare di sapere, a patto che venga riconosciuto come soggetto e non come oggetto della scuola.

“To be motivated means to be moved to do something”
(Ryan & Deci, 2000).


Il punto, oggi, è che cosa muove davvero i nostri studenti? E, ancora più radicalmente: che cosa fa muovere noi, come educatori?

“Bisogna far capire”: sulla differenza tra spazio della domanda ed esercizio di potere

Ho sentito per radio una persona dire, a proposito dei rapporti tra le generazioni, che bisogna far capire. Non mi interessa approfondire che cosa o in che contesto, mi interessa riflettere su questa stessa enunciazione.

Dire “bisogna far capire qualcosa” non è un semplice invito pedagogico o comunicativo. È, piuttosto, l’enunciazione di uno spazio. Tra la cosa – l’oggetto, il fatto, la parola, la legge, l’azione – e il capire – il gesto mentale, l’intuizione, l’adesione interiore – si apre un intervallo. Uno spazio fragile, ma decisivo. Uno spazio che non può essere colmato dall’autorità, né governato.

Quel “bisogna” non autorizza alcun potere ad agire in nome della comprensione. Lo dice bene Hannah Arendt quando distingue tra educazione e indottrinamento: “Capire non può essere il risultato di un processo di costrizione, ma solo il frutto di un’esperienza di libertà”. Insegnare, spiegare, scrivere, parlare: tutto questo può solo predisporre, ma non determinare.

Far capire non è come far fare. Non è come far obbedire. È un’attesa attiva. È il lavoro del pensiero che, come scrive Jacques Rancière, “esige l’uguaglianza degli intelletti”. Non si tratta di trasmettere un contenuto da chi sa a chi non sa, ma di aprire uno spazio di condivisione dove la comprensione può accadere – oppure no.

In questa prospettiva, il “bisogna” di far capire qualcosa non è un imperativo governativo. È, se mai, una necessità etica. Perché, come ha notato Michel Foucault, “l’esercizio del pensiero è sempre un atto di resistenza” – resistenza a chi pretende che il senso sia già dato, che il sapere sia neutro, che la verità sia una proprietà dell’ordine costituito.

Chi parla, chi insegna, chi governa, deve saperci stare dentro a questo spazio, senza tentare scorciatoie. È uno spazio di indeterminazione e di apertura. Di rischio e di fiducia. È lo spazio stesso della politica, intesa – con Nancy – come esposizione degli esseri alla loro comune incompiutezza.

Il pensiero non si governa. La comprensione non si impone. Non c’è dispositivo tecnico, algoritmo o norma che possa davvero sostituire l’incontro tra la cosa e il soggetto che la deve comprendere. È un deserto fertile, ma fragile. È un luogo che può essere solo attraversato, mai conquistato.

E in questo tempo che tutto vuole rendere chiaro, automatico, trasparente, il difendere lo spazio tra la cosa e il capire – il tempo lento della comprensione, lo spazio non addomesticabile del pensiero – è forse uno dei gesti più profondamente rivoluzionari che ci restano.

Salire al Monte Ventoso (pensando alla tappa di oggi del Tour de France)

Talvolta sentiamo il bisogno di salire. Non per sfuggire al mondo, ma per guardarlo da un altro punto. È questo che fece Petrarca quel giorno — era il 26 aprile del 1336 — quando decise di salire sul Monte Ventoso. Lo racconta nella lettera al suo maestro, Dionigi da Borgo San Sepolcro, con un tono che è insieme cronaca di un’esperienza fisica e meditazione interiore. La salita è reale, faticosa, piena di deviazioni. Ma è anche simbolica: è il segno di un bisogno più profondo, quello di capire il senso del vivere.

“Oggi, spinto da un solo desiderio, mi sono accinto a salire su un monte assai famoso della nostra regione, che è detto Ventoso”. Petrarca racconta i propri tentennamenti. Vuole prendere la via più lunga, più panoramica, più gradevole. Ma si accorge che è un continuo girare intorno, senza salire davvero. Alla fine si arrende all’evidenza: la via più breve, più aspra, più ripida — è l’unica che conduce in cima. Quante volte, nella vita, tentiamo di evitarla. Quante volte preferiremmo i sentieri comodi, i percorsi già tracciati. Ma chi cerca davvero, chi vuole vedere oltre, deve passare per la fatica. Deve affrontare la salita.

Petrarca arriva in cima, guarda il paesaggio, sente il mondo intero ai suoi piedi. Eppure non si sente più grande, né più distante. Piuttosto, si sente toccato da qualcosa che lo riporta all’essenziale. Prende in mano le Confessioni di Sant’Agostino che aveva portato con sé e apre a caso. Gli occhi cadono su queste parole:
«E gli uomini vanno ad ammirare le cime dei monti, le onde del mare, le ampie correnti dei fiumi, il vasto oceano, il corso degli astri — e trascurano sé stessi.»

È una ferita e una rivelazione. È come se la salita, tutta quella fatica, fosse stata necessaria per scoprire che il punto più alto da cui guardare il mondo è dentro di sé. Il monte non è un rifugio. È uno specchio. Da lassù, con lo sguardo che abbraccia la valle, Petrarca non disprezza il mondo. Lo vede finalmente per quello che è: grande e piccolo, pieno di luce e denso di ombre, attraversato da desideri contraddittori, bellezza effimera e slanci eterni. E lo ama — proprio così com’è.

La vera salita non è finita. È appena cominciata. È quella che si fa ogni giorno, dentro le scelte, le relazioni, i pensieri. È la salita che ci porta, lentamente, faticosamente, ad abitare noi stessi con più verità.

E allora forse salire al Monte Ventoso non è un gesto eccezionale. È solo la forma in cui, a volte, prende corpo la nostalgia di un senso. È il desiderio di vedere più in là — non per fuggire dal mondo, ma per restarci con occhi nuovi.

Il tempo lento della scuola d’estate

L’estate scolastica non è mai, come sa bene chi ci lavora, davvero una pausa. È piuttosto un tempo diverso, dilatato, più poroso. Un tempo che somiglia più a una soglia che a una sospensione: si è fuori dai ritmi intensi della didattica quotidiana, ma immersi – spesso più a fondo – nei pensieri di ciò che la scuola è e di ciò che può diventare.

Sono settimane in cui il silenzio dei corridoi amplifica ciò che è rimasto sospeso. Tornano alla mente discussioni accese in sede di scrutinio, riflessioni sul senso della valutazione, sugli effetti – talvolta collaterali – degli esami di Stato. Ma è proprio questo il momento in cui quei pensieri, lasciati sedimentare, trovano lo spazio per maturare, davvero.

Chi dirige una scuola, chi lavora in una scuola,  sa che d’estate non si smette di lavorare. Le segreterie continuano ad animarsi, ogni giorno, di pratiche e richieste. Dietro ogni pratica, una storia. Dietro ogni domanda, una famiglia, un’incertezza, un progetto da riallacciare. E poi ci siamo noi, i dirigenti, che in questa stagione abbiamo un compito meno visibile, ma forse il più importante: pensare (non: decidere da soli, ma, appunto: pensare).

Progettare un nuovo anno scolastico non significa semplicemente “riempire un calendario” o “scrivere un documento”. Significa cercare un senso nuovo per ciò che già si fa, affinare lo sguardo su ciò che è urgente cambiare, su ciò che è necessario mantenere. Significa interpretare i segnali deboli che arrivano dalle classi: il disagio sommerso, la demotivazione, ma anche i germogli di autonomia e di responsabilità che, se accolti, possono crescere.

Quest’estate, come le ultime, ci ha lasciato in eredità interrogativi importanti. Come valutiamo davvero? Come prepariamo i nostri studenti a un esame di Stato che sia occasione educativa, e non prova di resistenza? E ancora: quale equilibrio possibile tra mondo digitale e relazioni educative? Quanto tempo abbiamo dedicato, nel corso dell’anno, a insegnare l’uso consapevole delle tecnologie e non solo la loro applicazione tecnica? Quanto abbiamo fatto “comunità” (che non significa “vogliamoci bene” per nascondere le difficoltà, significa chiamarle per nome).

Sono nodi che non si sciolgono in fretta. E forse il tempo lento dell’estate serve proprio a questo: a sostare accanto ai problemi senza illuderci di risolverli subito. A farli respirare. A lasciarci interrogare.

Ci sono ore d’agosto in cui la scuola sembra ferma, immobile. Ma è proprio in quelle ore che nasce l’idea per un nuovo corso di approfondimento, che si rilegge un passaggio di normativa con occhi diversi, che si scrive la bozza di un progetto che parlerà ai ragazzi fra sei mesi. È in quel tempo apparentemente vuoto che si matura l’idea di un’assemblea diversa, di una comunicazione più onesta, di un’alleanza più vera tra adulti educanti.

Il tempo lento dell’estate è un tempo di responsabilità. Non c’è fretta, ma c’è cura. Non ci sono scadenze immediate, ma ci sono decisioni da preparare con attenzione. È il tempo in cui la scuola riflette su se stessa, perché possa poi riaccendersi – a settembre – con coerenza, e non solo con energia.

È il tempo in cui la scuola diventa, davvero, adulta.