Mi capita sempre più spesso di sentire frasi come: “Tanto adesso lo chiedo all’IA”, “Farà tutto l’algoritmo”, “Deciderà il sistema”.
È come se, lentamente, stessimo abituandoci all’idea che il pensare, il valutare, il ricordare possano essere “esternalizzati”, delegati a qualcosa di esterno a noi.
Proprio per questo, paradossalmente, il fattore umano diventa oggi più importante che mai.
Non come parola consolatoria, ma come domanda scomoda: che cosa rimane davvero umano, quando gli algoritmi sanno già fare così tante cose meglio di noi?
Oltre l’illusione del “cervello-computer”
Nel loro libro Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Ugo Morelli e Vittorio Gallese ci aiutano a spostare lo sguardo. Non descrivono l’umano come una macchina un po’ più complessa, né come un cervello che elabora informazioni in modo più raffinato degli altri animali.
Al centro del loro discorso non c’è l’individuo isolato, ma la relazione: siamo esseri che nascono incompiuti, fragili, dipendenti dagli altri. Il nostro cervello si sviluppa dentro una trama di sguardi, voci, gesti, contatti; l’intelligenza non è un software che gira su un hardware cerebrale, ma un processo incarnato, emotivo, intersoggettivo.
In questo senso, l’intelligenza umana ha un carattere radicalmente non algoritmico:
non segue istruzioni lineari,
non applica soltanto regole già date,
si muove in un mondo di ambiguità, conflitti, emozioni,
si costruisce nel tempo, nelle relazioni, nella storia personale.
Morelli e Gallese parlano di uno “spazio noicentrico”: non una somma di “io”, ma un campo condiviso di significati, credenze, valori, dentro cui ciascuno di noi si forma. Pensare, sentire, decidere non sono operazioni puramente interne alla scatola cranica, ma modi di abitare questo spazio comune; dove l’algoritmo organizza dati, l’umano abita un mondo.
Memoria: non un magazzino, ma una trama nel tempo
Qui si innestano in modo sorprendente le riflessioni della filosofa Victoria Trumbull. Nel suo recente saggio “Memory is not stored in the brain” contesta una delle metafore più radicate del nostro immaginario: l’idea che la memoria sia “immagazzinata” nel cervello come file in un hard disk.
La metafora è diventata quasi dogma: se c’è un ricordo, da qualche parte nel cervello ci deve essere il suo “file fisico”. Ma, osserva Trumbull, questa è già una scelta teorica, una scommessa materialista molto forte: si assume in partenza che ogni stato mentale sia identico a uno stato cerebrale. Le correlazioni tra attività neurale e ricordi non bastano a dimostrarlo, così come le impronte sulla sabbia non dimostrano che “il camminare è immagazzinato nelle impronte”.
La sua tesi è più radicale: la memoria non è collocata nello spazio, ma nel tempo.
Ricordare non significa recuperare un oggetto conservato da qualche parte, ma ri-attualizzare una continuità temporale, un filo narrativo che ci attraversa. Il ricordo è un modo di tenere insieme passato, presente e futuro, non una “cosa” archiviata in una zona del cervello.
Se prendiamo sul serio questa intuizione, di derivazione bergsoniana (e con richiami a Sant’Agostino), ne deriva qualcosa di decisivo per la nostra domanda sull’umano:
la mente non è un magazzino di contenuti;
l’identità non è una banca-dati;
la memoria è forma del tempo vissuto, non elenco di informazioni.
Ancora una volta, ciò che conta è il modo in cui abitiamo la nostra storia, non la quantità di dati che possiamo conservare o processare.
Perché l’intelligenza umana non si lascia ridurre ad algoritmo
Mettendo insieme Morelli–Gallese e Trumbull, si delinea un’immagine dell’umano molto diversa dall’immaginario informatico dominante.
1. Siamo corpo, non solo calcolo
Il pensiero nasce in un corpo vulnerabile, che si muove, si espone, si ferisce. Non esiste un “io” separato dalla sua postura, dal suo respiro, dai suoi tremori. Un modello algoritmico può simulare risposte intelligenti, ma non può sentire sulla propria pelle la paura, la vergogna, la gioia, il lutto che trasformano il nostro modo di pensare.
2. Siamo relazione, non individui autosufficienti
Il nostro cervello è letteralmente plasmato dall’incontro con gli altri. I neuroni specchio, a cui Gallese ha dedicato tanto lavoro, mostrano come già a livello neurale l’altro abiti in noi. Un algoritmo può essere connesso in rete, ma non appartenere a una comunità, non rischiare se stesso nel legame con qualcuno.
3. Siamo tempo, non solo memoria di dati
Il nostro pensiero è intriso di attese, rimpianti, promesse, anticipazioni: viviamo di ciò che non c’è ancora e di ciò che non c’è più. Una IA può gestire cronologie, ma non ha una biografia; può “ricordare” informazione, ma non può essere modificata nel profondo da un ricordo che fa male o che salva la vita.
Per questo parlare di “intelligenza artificiale” può essere fuorviante:
gli algoritmi sono potentissimi, ma restano sistemi di trasformazione di input in output secondo regole (anche molto complesse). L’intelligenza umana, invece, è la capacità di stare in un mondo che non obbedisce a regole chiare, di assumersi responsabilità sotto incertezza, di decidere anche quando non ci sono dati sufficienti.
Che cosa diventa prezioso nell’epoca dell’IA
Se tutto questo è vero, il fattore umano non è il “romantico di scorta” da tirar fuori quando l’algoritmo non basta ancora. È, al contrario, il criterio con cui dovremmo giudicare l’uso delle tecnologie intelligenti.
Alcune domande che dovremmo porci, ogni volta che introduciamo un nuovo sistema di IA nella vita sociale, nella scuola, nel lavoro:
Questo strumento libera tempo e energie per le relazioni umane o le impoverisce?
Aiuta le persone a comprendere meglio sé stesse e gli altri, o le spinge a funzionare come ingranaggi più efficienti?
Rafforza la nostra capacità di assumere decisioni responsabili, o ci abitua a delegare senza pensare?
Tiene conto della nostra dimensione corporea, emotiva, temporale, o riduce tutto a prestazione e performance?
In altre parole: stiamo usando l’IA per diventare più umani o per renderci un po’ più simili alle macchine che costruiamo?
Una possibile direzione
Non si tratta di contrapporre in modo ingenuo “umano buono” e “macchina cattiva”. Le tecnologie dell’IA possono aiutarci davvero: nella ricerca scientifica, nella cura, nell’organizzazione dei servizi, anche nei processi educativi. Ma possono farlo in modo fecondo solo se non accettiamo l’equivalenza tacita tra “mente” e “algoritmo”.
Prendere sul serio il carattere non algoritmico dell’intelligenza – come suggeriscono Morelli e Gallese – e la natura temporale della memoria – come propone Trumbull – significa ricordarci che:
nessun modello statistico può sostituire la responsabilità di un giudizio umano;
nessun sistema generativo può prendere il posto della ferita e della bellezza di una relazione reale;
nessuna “memoria esterna” può restituirci il lavoro paziente con cui, nel tempo, diventiamo la storia che raccontiamo di noi stessi.
Forse il vero compito, oggi, non è chiederci se l’IA “ci supererà”, ma quale umanità vogliamo coltivare in compagnia di questi nuovi strumenti.
E se abbiamo il coraggio di difendere, con ostinazione, tutto ciò che rimane irriducibile a un algoritmo: il corpo che trema, la voce che esita, il ricordo che ci cambia per sempre, lo sguardo che ci invita a dire “noi”.