Michelstaedter, l’IA, l’illusione dell’originalità


C’è qualcosa di profondamente attuale nel pensiero tragico di Carlo Michelstaedter. La sua opposizione tra persuasione e rettorica, lungi dall’essere solo una categoria etico-esistenziale, illumina oggi il cuore di una questione che tocca il nostro modo di scrivere, di conoscere, perfino di pensare, nell’epoca dell’intelligenza artificiale generativa.
Per Michelstaedter, la persuasione è l’adesione piena alla vita, un essere radicalmente presenti a sé stessi, rifiutando ogni forma di delega, ogni trucco per stare al mondo. La rettorica, al contrario, è la strategia dell’adattamento, del compromesso, del parlare per convincere piuttosto che per dire. È la forma della parola che si piega alle aspettative dell’altro, che usa il linguaggio non per vivere, ma per sopravvivere nel mondo degli altri. Scrive Michelstaedter:

“Essi parlano, e non vivono; persuadono gli altri e non se stessi; si contentano della parola perché non hanno la vita: sono i retori, i maestri della sicurezza” (La persuasione e la rettorica).

Ecco allora la frizione. L’AI, per sua natura, non può che essere retorica. Il suo compito non è vivere, né aderire alla vita, ma generare enunciati plausibili sulla base di immense collezioni di testi umani. L’intelligenza artificiale imita, ricompone, mescola: è uno specchio che riflette il modo in cui gli umani hanno già parlato, scritto, codificato la realtà. E più lo fa bene, più diventa performativa, utile, convincente. Appunto: retorica.
Chi cerca originalità nella risposta  dell’intelligenza artificiale dimentica che questa non ha un corpo, un dolore, un limite – insomma, un essere. La macchina non rischia nulla, non perde nulla. E proprio per questo non può mai “persuadere”, perché la persuasione richiede la perdita: è il frutto di un conflitto interiore, di una vita che si fa parola a costo di consumarsi. Come scrive ancora Michelstaedter:
“Chi è persuaso non ha bisogno di parole, né di mezzi, né di fine: egli è.
La parola che nasce dalla persuasione è silenziosa, radicale, opposta alla chiacchiera infinita della retorica. Per Michelstaedter, vivere persuasi significa non cercare giustificazioni nel linguaggio, non produrre discorsi che piacciano, non cercare l’applauso. È una resistenza all’automatismo del mondo, alla sua tendenza a sostituire la vita con il funzionamento. Che altro fa l’AI se non funzionare? E noi, quando scriviamo usando l’AI, stiamo funzionando o stiamo vivendo? E tuttavia, in modo paradossale, Michelstaedter ci insegna anche qualcosa su noi stessi, oggi che ci affidiamo con leggerezza agli strumenti generativi per produrre testi, idee, storie, discorsi. Quando deleghiamo il compito del dire all’AI, stiamo forse abdicando alla fatica della persuasione? Stiamo forse scegliendo, ancora una volta, la via più facile della retorica?

La lezione di Michelstaedter ci invita a un’etica della scrittura. Non tutto ciò che ha senso è ciò che funziona. Non tutto ciò che è nuovo è davvero originale. E non tutto ciò che si dice è necessariamente detto da qualcuno che vuole vivere con le parole e non sopravvivere dietro di esse. La vera sfida, allora, è questa: usare le macchine senza diventare macchine. Continuare a cercare, nella scrittura e nella vita, un punto di attrito, di esposizione, di rischio. Dove le parole non siano solo un modo per restare nel mondo, ma un tentativo radicale – anche fragile, anche fallibile – di esserci.


Il contrasto tra persuasione e retorica si rivela oggi particolarmente fecondo se confrontato con la riflessione critica sull’intelligenza artificiale generativa.

Emily Bender e Timnit Gebru, nel celebre On the Dangers of Stochastic Parrots (2021), mettono in guardia dal confondere l’apparenza di significato con la sua reale origine esperienziale: i LLM producono testo, ma non comprendono. Sono “pappagalli stocastici”, ripetitori plausibili ma privi di un’intenzione. Un’affermazione che risuona con quanto Michelstaedter afferma sui retori: “parlano, ma non vivono”.

Ilya Sutskever, uno dei fondatori di OpenAI, ha recentemente suggerito che i LLM potrebbero sviluppare una forma di coscienza linguistica. Ma qui la domanda michelstaedteriana si fa bruciante: può esserci coscienza senza perdita? senza esperienza della morte, del dolore, del limite?

Luciano Floridi  propone un’etica dell’AI fondata non sull’illusione dell’autenticità, ma sulla responsabilità epistemica di chi la usa. In altre parole: la posta in gioco non è l’originalità del testo generato, ma l’autenticità del soggetto che lo assume. Una visione in sintonia con l’idea che la persuasione, per Michelstaedter, non sia una tecnica, ma una forma di essere al mondo.

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