Coltivare la motivazione implicita

(Riflessione a margine della lettura di Cristiano Corsini, “La fabbrica dei voti”)

Nel cuore di ogni percorso educativo autentico si cela una domanda che precede l’apprendimento stesso: perché imparare?. Non è una domanda che si pone a voce alta, né è necessariamente consapevole. Ma è lì, silenziosa e costante, come sottofondo emotivo e cognitivo di ogni atto scolastico. E proprio a questa dimensione intima e invisibile della motivazione si rivolgono Edward Deci e Richard Ryan con la loro teoria dell’autodeterminazione (Self-Determination Theory, SDT), che è tra le più influenti della psicologia motivazionale contemporanea.

La SDT parte da un presupposto semplice: gli esseri umani sono naturalmente curiosi, desiderosi di apprendere e orientati alla crescita. Scrivono Deci e Ryan:

> “When people are in conditions that support their autonomy, competence, and relatedness, they will be more motivated, more engaged, and more likely to thrive”
(Deci & Ryan, 2000, “The ‘What’ and ‘Why’ of Goal Pursuits”).

La motivazione, in questa prospettiva, non è un combustibile da fornire dall’esterno — tramite premi, punizioni o gratificazioni — ma una spinta interna che si sviluppa quando tre bisogni psicologici fondamentali vengono soddisfatti:

1. Autonomia – il bisogno di sentire che le proprie azioni sono auto-dirette e volontarie;
2. Competenza – il desiderio di sentirsi efficaci e capaci nel proprio ambiente;
3. Relazionalità (relatedness) – la necessità di sentirsi connessi agli altri e di essere riconosciuti.

Quando un contesto educativo ignora questi bisogni e si limita a fornire stimoli esterni (voti, premi, minacce), si sviluppa una motivazione estrinseca, fragile, condizionata, e spesso temporanea. Al contrario, un ambiente che nutre l’autonomia, che valorizza i progressi personali più che le classifiche, che offre rimandi costruttivi anziché giudizi sommari, favorisce quella motivazione intrinseca che nasce dal piacere stesso di apprendere, dal sentirsi coinvolti in un compito significativo.

Nel lessico di Deci e Ryan, è proprio questo il passaggio dalla motivazione controllata alla motivazione autonoma, che non è necessariamente spontanea, ma è “implicita”, nel senso che viene interiorizzata. L’alunno non obbedisce, non si adegua; sceglie, perché riconosce in ciò che fa un valore personale.

“Autonomy does not mean doing whatever one wants; it means acting with a sense of volition and having the experience of choice”
(Deci & Ryan, 1985, Intrinsic Motivation and Self-Determination in Human Behavior).

In questo senso, la scuola può essere — e spesso è — un luogo di disconnessione motivazionale. Laddove prevalgono forme di controllo (obblighi non negoziati, valutazioni giudicanti, assenza di voce studentesca), si spegne il desiderio di apprendere. Ma quando si costruisce una relazione educativa basata sulla fiducia, sull’ascolto e sul riconoscimento, si riattiva quella motivazione implicita che è già presente, come seme, in ogni studente.

Questa teoria ci chiede di ripensare il ruolo del docente non come somministratore di motivazioni, ma come facilitatore di ambienti favorevoli all’autodeterminazione. Ci chiede di superare la logica della performance a favore di una logica della crescita. E ci invita a restituire alla scuola la sua funzione più profonda: non il controllo dei risultati, ma la cura delle intenzioni.

In un’epoca in cui si misura tutto — voti, competenze, esiti — questa proposta può apparire ingenua. Eppure, non c’è apprendimento senza desiderio, e non c’è desiderio senza libertà. La motivazione implicita non si insegna, si coltiva, giorno dopo giorno, in una comunità che crede che ogni studente possa desiderare di sapere, a patto che venga riconosciuto come soggetto e non come oggetto della scuola.

“To be motivated means to be moved to do something”
(Ryan & Deci, 2000).


Il punto, oggi, è che cosa muove davvero i nostri studenti? E, ancora più radicalmente: che cosa fa muovere noi, come educatori?

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