“Bisogna far capire”: sulla differenza tra spazio della domanda ed esercizio di potere

Ho sentito per radio una persona dire, a proposito dei rapporti tra le generazioni, che bisogna far capire. Non mi interessa approfondire che cosa o in che contesto, mi interessa riflettere su questa stessa enunciazione.

Dire “bisogna far capire qualcosa” non è un semplice invito pedagogico o comunicativo. È, piuttosto, l’enunciazione di uno spazio. Tra la cosa – l’oggetto, il fatto, la parola, la legge, l’azione – e il capire – il gesto mentale, l’intuizione, l’adesione interiore – si apre un intervallo. Uno spazio fragile, ma decisivo. Uno spazio che non può essere colmato dall’autorità, né governato.

Quel “bisogna” non autorizza alcun potere ad agire in nome della comprensione. Lo dice bene Hannah Arendt quando distingue tra educazione e indottrinamento: “Capire non può essere il risultato di un processo di costrizione, ma solo il frutto di un’esperienza di libertà”. Insegnare, spiegare, scrivere, parlare: tutto questo può solo predisporre, ma non determinare.

Far capire non è come far fare. Non è come far obbedire. È un’attesa attiva. È il lavoro del pensiero che, come scrive Jacques Rancière, “esige l’uguaglianza degli intelletti”. Non si tratta di trasmettere un contenuto da chi sa a chi non sa, ma di aprire uno spazio di condivisione dove la comprensione può accadere – oppure no.

In questa prospettiva, il “bisogna” di far capire qualcosa non è un imperativo governativo. È, se mai, una necessità etica. Perché, come ha notato Michel Foucault, “l’esercizio del pensiero è sempre un atto di resistenza” – resistenza a chi pretende che il senso sia già dato, che il sapere sia neutro, che la verità sia una proprietà dell’ordine costituito.

Chi parla, chi insegna, chi governa, deve saperci stare dentro a questo spazio, senza tentare scorciatoie. È uno spazio di indeterminazione e di apertura. Di rischio e di fiducia. È lo spazio stesso della politica, intesa – con Nancy – come esposizione degli esseri alla loro comune incompiutezza.

Il pensiero non si governa. La comprensione non si impone. Non c’è dispositivo tecnico, algoritmo o norma che possa davvero sostituire l’incontro tra la cosa e il soggetto che la deve comprendere. È un deserto fertile, ma fragile. È un luogo che può essere solo attraversato, mai conquistato.

E in questo tempo che tutto vuole rendere chiaro, automatico, trasparente, il difendere lo spazio tra la cosa e il capire – il tempo lento della comprensione, lo spazio non addomesticabile del pensiero – è forse uno dei gesti più profondamente rivoluzionari che ci restano.

Salire al Monte Ventoso (pensando alla tappa di oggi del Tour de France)

Talvolta sentiamo il bisogno di salire. Non per sfuggire al mondo, ma per guardarlo da un altro punto. È questo che fece Petrarca quel giorno — era il 26 aprile del 1336 — quando decise di salire sul Monte Ventoso. Lo racconta nella lettera al suo maestro, Dionigi da Borgo San Sepolcro, con un tono che è insieme cronaca di un’esperienza fisica e meditazione interiore. La salita è reale, faticosa, piena di deviazioni. Ma è anche simbolica: è il segno di un bisogno più profondo, quello di capire il senso del vivere.

“Oggi, spinto da un solo desiderio, mi sono accinto a salire su un monte assai famoso della nostra regione, che è detto Ventoso”. Petrarca racconta i propri tentennamenti. Vuole prendere la via più lunga, più panoramica, più gradevole. Ma si accorge che è un continuo girare intorno, senza salire davvero. Alla fine si arrende all’evidenza: la via più breve, più aspra, più ripida — è l’unica che conduce in cima. Quante volte, nella vita, tentiamo di evitarla. Quante volte preferiremmo i sentieri comodi, i percorsi già tracciati. Ma chi cerca davvero, chi vuole vedere oltre, deve passare per la fatica. Deve affrontare la salita.

Petrarca arriva in cima, guarda il paesaggio, sente il mondo intero ai suoi piedi. Eppure non si sente più grande, né più distante. Piuttosto, si sente toccato da qualcosa che lo riporta all’essenziale. Prende in mano le Confessioni di Sant’Agostino che aveva portato con sé e apre a caso. Gli occhi cadono su queste parole:
«E gli uomini vanno ad ammirare le cime dei monti, le onde del mare, le ampie correnti dei fiumi, il vasto oceano, il corso degli astri — e trascurano sé stessi.»

È una ferita e una rivelazione. È come se la salita, tutta quella fatica, fosse stata necessaria per scoprire che il punto più alto da cui guardare il mondo è dentro di sé. Il monte non è un rifugio. È uno specchio. Da lassù, con lo sguardo che abbraccia la valle, Petrarca non disprezza il mondo. Lo vede finalmente per quello che è: grande e piccolo, pieno di luce e denso di ombre, attraversato da desideri contraddittori, bellezza effimera e slanci eterni. E lo ama — proprio così com’è.

La vera salita non è finita. È appena cominciata. È quella che si fa ogni giorno, dentro le scelte, le relazioni, i pensieri. È la salita che ci porta, lentamente, faticosamente, ad abitare noi stessi con più verità.

E allora forse salire al Monte Ventoso non è un gesto eccezionale. È solo la forma in cui, a volte, prende corpo la nostalgia di un senso. È il desiderio di vedere più in là — non per fuggire dal mondo, ma per restarci con occhi nuovi.

Il tempo lento della scuola d’estate

L’estate scolastica non è mai, come sa bene chi ci lavora, davvero una pausa. È piuttosto un tempo diverso, dilatato, più poroso. Un tempo che somiglia più a una soglia che a una sospensione: si è fuori dai ritmi intensi della didattica quotidiana, ma immersi – spesso più a fondo – nei pensieri di ciò che la scuola è e di ciò che può diventare.

Sono settimane in cui il silenzio dei corridoi amplifica ciò che è rimasto sospeso. Tornano alla mente discussioni accese in sede di scrutinio, riflessioni sul senso della valutazione, sugli effetti – talvolta collaterali – degli esami di Stato. Ma è proprio questo il momento in cui quei pensieri, lasciati sedimentare, trovano lo spazio per maturare, davvero.

Chi dirige una scuola, chi lavora in una scuola,  sa che d’estate non si smette di lavorare. Le segreterie continuano ad animarsi, ogni giorno, di pratiche e richieste. Dietro ogni pratica, una storia. Dietro ogni domanda, una famiglia, un’incertezza, un progetto da riallacciare. E poi ci siamo noi, i dirigenti, che in questa stagione abbiamo un compito meno visibile, ma forse il più importante: pensare (non: decidere da soli, ma, appunto: pensare).

Progettare un nuovo anno scolastico non significa semplicemente “riempire un calendario” o “scrivere un documento”. Significa cercare un senso nuovo per ciò che già si fa, affinare lo sguardo su ciò che è urgente cambiare, su ciò che è necessario mantenere. Significa interpretare i segnali deboli che arrivano dalle classi: il disagio sommerso, la demotivazione, ma anche i germogli di autonomia e di responsabilità che, se accolti, possono crescere.

Quest’estate, come le ultime, ci ha lasciato in eredità interrogativi importanti. Come valutiamo davvero? Come prepariamo i nostri studenti a un esame di Stato che sia occasione educativa, e non prova di resistenza? E ancora: quale equilibrio possibile tra mondo digitale e relazioni educative? Quanto tempo abbiamo dedicato, nel corso dell’anno, a insegnare l’uso consapevole delle tecnologie e non solo la loro applicazione tecnica? Quanto abbiamo fatto “comunità” (che non significa “vogliamoci bene” per nascondere le difficoltà, significa chiamarle per nome).

Sono nodi che non si sciolgono in fretta. E forse il tempo lento dell’estate serve proprio a questo: a sostare accanto ai problemi senza illuderci di risolverli subito. A farli respirare. A lasciarci interrogare.

Ci sono ore d’agosto in cui la scuola sembra ferma, immobile. Ma è proprio in quelle ore che nasce l’idea per un nuovo corso di approfondimento, che si rilegge un passaggio di normativa con occhi diversi, che si scrive la bozza di un progetto che parlerà ai ragazzi fra sei mesi. È in quel tempo apparentemente vuoto che si matura l’idea di un’assemblea diversa, di una comunicazione più onesta, di un’alleanza più vera tra adulti educanti.

Il tempo lento dell’estate è un tempo di responsabilità. Non c’è fretta, ma c’è cura. Non ci sono scadenze immediate, ma ci sono decisioni da preparare con attenzione. È il tempo in cui la scuola riflette su se stessa, perché possa poi riaccendersi – a settembre – con coerenza, e non solo con energia.

È il tempo in cui la scuola diventa, davvero, adulta.

Maturità: il colloquio come ascolto attivo e incontro tra generazioni

Maturità: il colloquio come ascolto attivo e incontro tra generazioni

Ogni anno l’esame di Stato del secondo ciclo (o di maturità, come tornerà ad essere chiamato) rappresenta per migliaia di studenti italiani un rito di passaggio. È un momento carico di significato, non solo per ciò che certifica, ma per ciò che simbolicamente racchiude. Tra tutte le prove, il colloquio orale è quella più specifica dell’esame stesso, muovendosi tra uno spunto di partenza, argomenti diversi e le riflessioni sul cosiddetto PCTO.

Il colloquio assume una valenza particolarmente intensa, che viene manifestata, in questi ultimi anni, dalle varie forme di festeggiamento che seguono le prove dei candidati, rispetto alle quali, oltre alle considerazioni di colore, tra mazzi di fiori, calici di Prosecco, corone d’alloro, vanno fatte anche delle riflessioni sulla latente domanda di senso generazionale che esse implicano.  In questi giorni d’esame, mi è capitato spesso di riflettere su questi aspetti generazionali e su come il colloquio sia non solo una doverosa forma di verifica, ma come spazio di parola, di espressione, di riconoscimento: un tempo in cui la scuola ha l’opportunità di ascoltare davvero chi ha accompagnato per cinque anni.

L’Ordinanza Ministeriale n. 67 del 31 marzo 2025, che ha disciplinato quest’anno l’Esame di Stato, richiamando la normativa che vige da anni sottolinea chiaramente la portata del colloquio: esso ha carattere multidisciplinare e serve ad accertare “il conseguimento del profilo educativo, culturale e professionale dello studente”, ponendo l’accento sulla “capacità di argomentazione, di pensiero critico e riflessivo, nonché di collegamento tra le conoscenze acquisite”. Sono parole che delineano non una semplice interrogazione, ma un’occasione formativa profonda, che si realizza pienamente solo se sostenuta da un ascolto attivo: un ascolto che accoglie, che rispetta i tempi e i modi con cui ogni studente sceglie di raccontare sé stesso. Perché è proprio questo che accade nel colloquio, quando è autentico: lo studente prende parola non solo per mostrare ciò che ha studiato, ma per far emergere chi è diventato lungo il cammino.

L’ascolto che educa

Nel mondo della scuola, l’ascolto è spesso sacrificato alla necessità di misurare, valutare, classificare. Ma il colloquio ci ricorda che educare significa prima di tutto saper ascoltare. Come scrive Duccio Demetrio, “chi ascolta davvero educa due volte: perché custodisce la narrazione dell’altro, e perché apre lo spazio in cui quella narrazione può trasformarsi in consapevolezza”. Ascoltare uno studente che collega un testo letterario a una questione etica, che rielabora un’esperienza personale a partire da un concetto di fisica o di storia, significa offrirgli la possibilità di dare forma al proprio pensiero, di assumersi la responsabilità di ciò che dice, e quindi di ciò che è.

Ma l’ascolto attivo, per essere tale, implica una presenza reale da parte dell’adulto. Significa lasciarsi interrogare, sospendere il giudizio, essere disposti a restare in silenzio per dare valore a ogni parola, anche a quelle più esitanti. Il colloquio è anche questo: un esercizio di attenzione reciproca, che educa alla democrazia, alla responsabilità, alla cura della relazione.

Un incontro tra generazioni

Il colloquio è inoltre uno spazio prezioso di incontro tra generazioni. Da una parte il giovane che si affaccia alla vita adulta, dall’altra docenti che rappresentano la scuola come comunità educante. In quel dialogo si gioca qualcosa di profondo: la possibilità che avvenga una trasmissione simbolica, un riconoscimento che non si limita alla prestazione scolastica, ma tocca la persona.

Francesco Stoppa, ne La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, scrive che la rottura generazionale nasce quando gli adulti smettono di trasmettere e i giovani smettono di ricevere. Recuperare quel patto significa costruire scene in cui la parola dei giovani trovi spazio, ascolto e legittimità. Il colloquio di maturità può diventare proprio una di queste scene di restituzione: uno spazio in cui lo studente restituisce ciò che ha ricevuto, e l’adulto restituisce riconoscimento e fiducia.

Una comunità che ascolta

A offrire un’altra prospettiva illuminante è bell hooks, teorica dell’educazione e del pensiero critico. Nel suo Teaching to Transgress, afferma che “la classe resta lo spazio più radicale di possibilità” e che una comunità educativa è tale solo quando si fonda sull’interesse reciproco, sulla valorizzazione delle voci, sulla reale presenza degli uni per gli altri. Scrive:

“La nostra capacità di generare entusiasmo è profondamente influenzata dal nostro interesse reciproco, dal desiderio di ascoltarci davvero, dal riconoscere la presenza dell’altro.”

Il colloquio, se vissuto con questo spirito, può diventare l’esercizio più alto di comunità scolastica. Non un rituale burocratico, ma un tempo in cui l’adulto si fa testimone e non solo giudice, e in cui il giovane può sentirsi finalmente riconosciuto come soggetto di pensiero, di parola, di storia.

Un’occasione educativa più ampia

In questo senso, il colloquio è molto più che una prova d’esame. È una scena educativa che coinvolge tutti i protagonisti della scuola.

Per lo studente, è un’occasione per riappropriarsi della parola, per collegare saperi e vissuto, per dire la propria storia attraverso ciò che ha imparato. È un gesto di responsabilità, ma anche un atto di libertà.

Per la commissione e per i docenti, è un tempo per riconoscere la singolarità di ogni percorso. Un invito ad ascoltare, non per misurare, ma per comprendere. Perché ogni discorso, ogni scelta, ogni esitazione è carica di significato e merita attenzione.

E per la scuola intera, è il momento per mettere in atto ciò che afferma nei documenti, ma che troppo spesso rischia di restare sulla carta: centralità della persona, personalizzazione dei percorsi, valorizzazione delle competenze trasversali. Il colloquio di maturità è la verifica finale anche di quanto la scuola è stata capace di educare all’interiorità, alla riflessione, alla relazione.

Lentezza, ascolto, cura

In un tempo che spesso premia la velocità, l’efficienza e la prestazione, il colloquio ci ricorda il valore della lentezza, dell’ascolto e della cura. È una soglia che si attraversa insieme: chi lascia la scuola lo fa con le proprie parole, chi vi resta lo accompagna con lo sguardo di chi sa riconoscere.

Se al termine del colloquio uno studente può dire, anche solo dentro di sé, “mi hanno ascoltato davvero”, allora la scuola avrà fatto ciò per cui esiste: educare alla vita, attraverso l’incontro.