Ancora capirò (la vacanza di luglio a Sud) Terza parte: un mare blu e uno verde

(La prima parte è qui)

(La seconda parte è qui)

Dove stai, sei a quasi metà della lunghezza della Puglia, scendere in Salento sono duecento chilometri, e, se hai tempo, puoi fare qualche sosta, lasciare il mare e prendere all’interno.

A Giovinazzo puoi fermarti a guardare il piccolo porto cui scendi dal centro città.

Sulla tangenziale di Bari ti tieni sull’Adriatico, dalle parti di Monopoli sali e arrivi a Ostuni, città antichissima fin nel nome, che si fa rimontare ad ἄστυ (astu), la rocca fortificata dei Micenei, non distante dal mare. E dalla piazza, infatti, puoi guardare giù, prima il mare verde degli ulivi, poi quello azzurro più in fondo.

Poi volti le spalle al mare, e vedi questo.

Puoi rimanere tra le colline, gironzolare tra Locorotondo, Martina Franca, Alberobello, Mesagne, ma torni sulla costiera per andare verso la città barocca.

Arrivi quasi in controra, giusto per trovare un parcheggio non troppo lontano dal centro, ogni passo è strigliato dal caldo e toccato da un vento tiepido.

E cominci, ma non ancora dal Barocco.

C’è l’anfiteatro, prima, incastrato in una piazza con edifici di varia modernità.

Poi, le stradine del centro storico.

E i palazzi. Gli angoli, i portoni che si aprono su altro spazio ancora.

Tra le vie trovi l’antica sinagoga e la chiesa greca. La storia di queste terre, culture e popoli e tradizioni e architetture e nomi.

E poi arrivi alla piazza della Cattedrale. Il sole amplifica i riverberi luccicanti degli edifici.

Fuori, la luce senza freno. Poi, dentro, l’occhio va in cerca dei dettagli adattandosi alla penombra rivelatrice.

Continui a cogliere dettagli, è uno spazio fatto tutto di variazioni, come se la luce esterna assordante richiedesse di essere riempita di soste di discernimento, per gli occhi. Non solo per gli occhi. Di fronte a ciò ch’è fuori misura, come ci si difende? Con la paziente enumerazione del dettaglio. Comprendi, forse, qualcosa di più del Barocco -solo del Barocco?- visitando la Cattedrale di Lecce dopo aver attraversato la piazza impazzita di luce.

Sulla strada del ritorno, ti fermi a guardare gli ampi spazi di quello ch’è stato un mare di ulivi, e che ora è solo distesa di alberi bruciati, estrema cura, forse tardiva, per debellare un parassita fastidioso nel nome, devastante nella realtà.

La storia la sai, la segui da anni, del resto in famiglia ulivi ne avevate, hai avuto al fortuna di poter saltare, alle elementari, qualche giorno di scuola e assistere alla raccolta, hai portato le olive in frantoio, hai desiderato -lo ricordi bene, anche se son quasi cinquant’anni- assaggiare quella terra scura su cui stavano quelle piante solide, una specie di canto alla generosità che la vita sa ogni tanto dare. L’hai seguita, dunque, la storia, e sai come si sia passati tra negazione, speranza, disperazione, e cosa costi -non intendi solo denaro- bruciare un ulivo. Oggi ci sono programmi dettagliati di monitoraggio, fasce di contenimento, il parassita non ha inteso ragioni. Il danno è immenso; è una cosa immensa.

Ad un certo punto vedi delle macchie di colore più vivace. Non fai a tempo a fermarti, né a fotografare bene, e ti dispiace, ma quello che hai visto lo hai chiaro: filari di piante d’ulivo nuove, dove si può cominciare a ripiantarle. Un dettaglio nell’immensità della devastazione: un dettaglio per difendersi da cos’è fuori misura, una speranza da affidare al corso del tempo, alle generazioni che verranno.

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