Ancora capirò (la vacanza di luglio a Sud) Quinta (e ultima) parte: le cose cambiano

(La prima parte è qui)

(La seconda parte è qui)

(La terza parte è qui)

(La quarta parte è qui)

Quelli che tornano da Nord, per l’estate, li chiamavano, quando eri piccolo, “i milanesi”, una definizione generica fondata su un fatto certo, il gran numero di biscegliesi emigrati nel capoluogo lombardo. A Milano ci hai passato degli anni pure tu, ed eri “milanese” però anche per lungo tempo dopo, quando ormai stavi al Nordest. I segni di Milano erano dappertutto, ricordi, perfino nei nomi delle attività (la “Milan SeccoJet”, ad esempio, pulitura a secco il cui logo erano le guglie del Duomo); adesso te ne accorgi bene per il mutare di accenti, che si avvia nella seconda metà di luglio e si fa più intenso con l’approssimarsi della festa dei Santi Patroni.

Il viaggio da giù per Milano, comunque, lo fai, ma non è nei treni strapieni, coi sedili in similpelle e gli orari indefiniti; lo fai in auto, col climatizzatore ben avviato -è sera e fuori stanno ancora 35 gradi-, comodo; lo fai per faccende non tue, ma dei tuoi figli -un passaggio, tutto sommato sei abbastanza di strada. Anche Milano è tua storia, e quando vedi, all’alba manca poco, appena dopo Melegnano, i profili dei suoi edifici più alti, confronti quest’immagine con quella che avevi da piccolo, conti le nuove figure che si sono aggiunte nel tempo.

Le cose cambiano, infatti. Mimmo e Tommaso hanno ceduto la gestione dei due negozi vicini a casa -Mimmo che sapeva che tipo di mozzarella o ricotta tosta o burrata o caciocavallo volevi, e in che giorni; Tommaso che ricordava i quotidiani che prendevi, nei vari giorni della settimana- ai loro figli. Hanno ceduto anche sapere e saper fare: la figlia di Mimmo s’informa sulle preferenze per i formaggi, e il figlio di Tommaso ha imparato presto quelle sui quotidiani (che tu, qui a Sud, ti ostini a prendere, anche se pure loro, i quotidiani, non li riconosci mica più tanto, e la Gazzetta del Mezzogiorno finisce subito). Altri negozi invece cambiano gestioni più volte, chiudono e ti lasciano la loro mancanza (come la pasticceria di Trani dove eri solito fare la prima colazione dopo l’arrivo qui). Le cose cambiano: le case attorno alla Cattedrale, che erano zona quasi in degrado, ora sono ristrutturate e giustamente ricercate sul mercato.

Pensi a queste cose, mentre entri in una Milano imprevista, alberi abbattuti, strade allagate, un cielo smaltato.

Mentre esci da Milano e cerchi la A4, pensi che tutte le volte che torni, il tuo Sud ti fa misurare il mutare delle cose, delle vite, e ti ricorda quello che ne è un’intima caratteristica. Lo hai visto bene a Metaponto, nell’incredibile museo dentro il silenzioso centro moderno a mezza via tra il mare e i campi di pomodoro (con le loro dure storie di lavoro).

La vita: un equilibrio delicato, tenuto da un filo sottile. E se sei solo, aggiunge il vaso, quell’equilibrio non ce la fai mica a tenerlo. Una cosa che sai da tempo, ma non è che tu sia sempre stato all’altezza di questa saggezza.

Le cose cambiano, le generazioni si trasmettono case, negozi, attività, saperi e passioni. Ti arriva una foto milanese da tua figlia.

Bisceglie a Milano, certo, è un capolinea della metropolitana, un segno di una presenza che si vede soprattutto nel commercio della frutta; che si vedeva, nella tua infanzia, nelle fabbriche milanesi.

Insomma, pensi, qualcosa va avanti, muta forse ma si trasmette, coi tempi propri della campagna, però, non con i tempi sbriciolati della nostra impazienza.

Sono i tempi di questo tratto di strada tra Venosa e Melfi.

Le cose cambiano, e qual è la foto che riassume quello che hai imparato in questa vacanza? Una foto di Matera.

Hai passato la vita a pensare di essere al centro di responsabilità, aspettative, doveri. Qui sei di lato, ti stai defilando, ed è giusto così, si vede molto meglio tutto il resto, e poi: le cose cambiano.

Ti dici: ancora capirò.

Scritto a:
Bisceglie, Venosa, Matera, Trani, Taranto, Metaponto, Milano, Pordenone

12 luglio-26 luglio 2023

Ancora capirò (la vacanza di luglio a Sud) Quarta parte: casa e dintorni

(La prima parte è qui)

(La seconda parte è qui)

(La terza parte è qui)

Giri anche attorno a casa, qui ogni paese ha qualche decina di migliaia di abitanti, e tanta storia. Le strade interne per arrivarci scorrono tra gli uliveti, il mare, le vigne.

Sali a Ruvo di Puglia, La piazza è invasa dal sole, davanti alla cattedrale i grifoni accolgono chi entra. Defilato, il meraviglioso Museo Jatta, un viaggio tra straordinari vasi greci.

Poi, ti puoi spingere, sempre in mezzo agli ulivi, verso il castello voluto da Federico II. Il parcheggio, smisurato rispetto al numero di auto e corriere presenti, che sta prima della salita, rimanda a ottimistiche speranze sugli afflussi dei turisti.

Punti l’auto per tornare verso il mare, cerchi le strade più piccole, verso casa trovi uno dei dolmen di queste parti.

(I dolmen, Castel del Monte: hai letto e visto di tutto, al loro riguardo, negli anni)

Non scendi subito a casa, prendi per Trani.

La cattedrale, intanto, anno per anno ripulita. Prima di salirci, il colpo d’occhio della piazza, della fortificazione, del mare. Poi ti accosti.

Appena uscito, sulla sinistra, trovi il Museo Diocesano. Ti muovi tra le lastre di bassorilievi che vengono dalla cattedrale e che raffigurano creature che stanno all’incontro di tradizioni e narrazioni diverse: una chimera e un grifone, per dire.

Al piano inferiore del Museo, una collezione di macchine da scrivere e computer, anche per te è un viaggio in tempi che hai conosciuto. Strumenti che oggi fanno sorridere i tuoi figli, che quando eri poco più grande di loro hai utilizzato per la tua tesi, e ti sembravano (lo erano) conquiste.

Fai qualche passo tra le vie di Trani vecchia e, con il biglietto del Museo Diocesano, entri nell’antica sinagoga.

Non ci vuole molto ad arrivare a Bari. A te piace stare sul lungomare, a guardare tutt’intorno, storia palazzi persone.

E ti piace una foto, perché sei sei un nostalgico, dentro la libreria della casa editrice i cui volumi hanno accompagnato tante tue letture estive, di storia linguistica letteratura (sì, quei titoli, quando torni qui, li vai a cercare tra gli scaffali). Intanto i tuoi figli scorrono volumi, seduti sui divanetti; sono le loro letture, universi di altro tipo rispetto ai tuoi: è bene così.

Ma è tempo di girare un poco per le strade di Bisceglie.

Prima, il mare; dal mare, lo sguardo verso Bisceglie vecchia.

Il portale della Cattedrale.

Dal mare verso il centro città.

Di qui guardi verso la parte turistica del porto.

Ogni volta che ci torni, registri le variazioni, quelle fuori di te che poi, subito, riverberano in quelle dentro di te; questo vale per le vie, i luoghi, e naturalmente anche per casa.

Le scale di casa, per esempio. La scalinata per salire, improvvisato campo da calcio per te e tuo fratello, nelle lunghissime controre estive, uno all’ingresso, uno di sopra, con partite interrotte dagli adulti, svegliati dal rimbombo delle pallonate.

E le scalette che portano al tetto, vietatissime quando eri piccolo.

Nelle scatole disposte ai vari livelli, trovi i giochi -palette, secchielli, salvagenti- di più generazioni. Quella dei tuoi figli. E pure la tua.

Ancora capirò (la vacanza di luglio a Sud) Terza parte: un mare blu e uno verde

(La prima parte è qui)

(La seconda parte è qui)

Dove stai, sei a quasi metà della lunghezza della Puglia, scendere in Salento sono duecento chilometri, e, se hai tempo, puoi fare qualche sosta, lasciare il mare e prendere all’interno.

A Giovinazzo puoi fermarti a guardare il piccolo porto cui scendi dal centro città.

Sulla tangenziale di Bari ti tieni sull’Adriatico, dalle parti di Monopoli sali e arrivi a Ostuni, città antichissima fin nel nome, che si fa rimontare ad ἄστυ (astu), la rocca fortificata dei Micenei, non distante dal mare. E dalla piazza, infatti, puoi guardare giù, prima il mare verde degli ulivi, poi quello azzurro più in fondo.

Poi volti le spalle al mare, e vedi questo.

Puoi rimanere tra le colline, gironzolare tra Locorotondo, Martina Franca, Alberobello, Mesagne, ma torni sulla costiera per andare verso la città barocca.

Arrivi quasi in controra, giusto per trovare un parcheggio non troppo lontano dal centro, ogni passo è strigliato dal caldo e toccato da un vento tiepido.

E cominci, ma non ancora dal Barocco.

C’è l’anfiteatro, prima, incastrato in una piazza con edifici di varia modernità.

Poi, le stradine del centro storico.

E i palazzi. Gli angoli, i portoni che si aprono su altro spazio ancora.

Tra le vie trovi l’antica sinagoga e la chiesa greca. La storia di queste terre, culture e popoli e tradizioni e architetture e nomi.

E poi arrivi alla piazza della Cattedrale. Il sole amplifica i riverberi luccicanti degli edifici.

Fuori, la luce senza freno. Poi, dentro, l’occhio va in cerca dei dettagli adattandosi alla penombra rivelatrice.

Continui a cogliere dettagli, è uno spazio fatto tutto di variazioni, come se la luce esterna assordante richiedesse di essere riempita di soste di discernimento, per gli occhi. Non solo per gli occhi. Di fronte a ciò ch’è fuori misura, come ci si difende? Con la paziente enumerazione del dettaglio. Comprendi, forse, qualcosa di più del Barocco -solo del Barocco?- visitando la Cattedrale di Lecce dopo aver attraversato la piazza impazzita di luce.

Sulla strada del ritorno, ti fermi a guardare gli ampi spazi di quello ch’è stato un mare di ulivi, e che ora è solo distesa di alberi bruciati, estrema cura, forse tardiva, per debellare un parassita fastidioso nel nome, devastante nella realtà.

La storia la sai, la segui da anni, del resto in famiglia ulivi ne avevate, hai avuto al fortuna di poter saltare, alle elementari, qualche giorno di scuola e assistere alla raccolta, hai portato le olive in frantoio, hai desiderato -lo ricordi bene, anche se son quasi cinquant’anni- assaggiare quella terra scura su cui stavano quelle piante solide, una specie di canto alla generosità che la vita sa ogni tanto dare. L’hai seguita, dunque, la storia, e sai come si sia passati tra negazione, speranza, disperazione, e cosa costi -non intendi solo denaro- bruciare un ulivo. Oggi ci sono programmi dettagliati di monitoraggio, fasce di contenimento, il parassita non ha inteso ragioni. Il danno è immenso; è una cosa immensa.

Ad un certo punto vedi delle macchie di colore più vivace. Non fai a tempo a fermarti, né a fotografare bene, e ti dispiace, ma quello che hai visto lo hai chiaro: filari di piante d’ulivo nuove, dove si può cominciare a ripiantarle. Un dettaglio nell’immensità della devastazione: un dettaglio per difendersi da cos’è fuori misura, una speranza da affidare al corso del tempo, alle generazioni che verranno.

Ancora capirò (la vacanza di luglio a Sud) Seconda parte: incontrare MarTa

(la prima parte è qui)

Al Ginnasio, un compito in classe ti fece incontrare per la prima volta la storia di Arione, cantore straordinario, sottratto a un destino violento da un branco di delfini, ai tempi in cui tra città greche della madrepatria e colonie gli spostamenti erano fitti e consueti. La città, in cui egli accumulò le ricchezze che lo misero tanto in pericolo, l’hai vista tante volte, ci torni volentieri, già le indicazioni stradali (la Statale 7, la Statale 106) che incontri sanno di viaggi antichi, di storia e letteratura.

Sei pur sempre un classicista, sai però bene che, prima di arrivare, ti viene incontro non il mito, ma il tempo presente.

Hai davanti chilometri di una storia infinita, che per te che vivi altrove magari è storia, per chi sta qui è vita quotidiana; hai chilometri di strada, verso la città, tra svincoli, binari, stabilimenti, per comprendere che tutto qui è possibile, fuorché la consolante via della semplificazione.

E poi entri in una città che si muove tra due mari, carica di storia: Taranto.

L’imponente Palazzo del Governo, in restauro, ti rimanda ad un’idea di grandezza ancorata alla storia, al mare che circonda la città.

E questa storia la trovi poco lontano di qui,

Coi ragazzi lo hai visitato già prima che ne inaugurassero la ristrutturazione, è un posto che vi piace chiamare con il nome femminile derivato dalla sua sigla: “Andiamo da MarTa“, vi siete detti tante volte.

E dentro, dentro. La storia di un luogo abiatato da sempre, attraversato da scambi, civiltà, culture, narrazioni, religioni, tragedie e fasti.

E dentro, tanti incontri.

Questi occhi, avvolti dal colore, puntati -spaventati? curiosi?- verso chissà cosa.

Un antenato di Pulcinella, di duemilacinquecento anni fa, in terre del resto imbevute di teatro, tragico o comico che fosse -come la vita.

Un acrobatico equilibrista, come la città, che è tra due mari.

Il giovane e sfrontato Edipo, vagabondo che non era altro, quando ancora pensava di sapere tutto, e la vita lo assecondava, come nell’incontro con la Sfinge: e invece, avrebbe saputo ben dopo, ben diversamente, e non più giovane.

Un combattimento, che potrebbe stare sul Partenone.

MarTa ti porta fino ad oggi, con le sale dedicate a coloro che iniziarono gli scavi,a fine Ottocento; ti si congeda nella piazza che dà sul Palazzo del Governo, sembra dirti: abbi cura di me, che sono sempre stata abitata. E aver cura di me significa pensare quanto sono stata complessa -popoli, commerci, religioni; quanto sono difficile -il presente. Aver cura di me significa impegnarsi in quel palazzo, concreto e simbolico, che hai di fronte, per come puoi, per come tutti possono.

Ancora capirò (la vacanza di luglio a Sud) Prima parte: Dicono che non ci sia

Lunghi tratti di strada insinuati tra colline. Cielo, campi appena mietuti. Un paese ogni tanto. È la Basilicata, la regione che ogni tanto, per celia, qualcuno dice che non ci sia.

Paesaggi che cambiano, in pochi chilometri. Ci sono i laghetti vulcanici di Monticchio (sul Vulture, il monte dell’Aglianico e delle acque minerali).

E c’è pure un’abbazia, ma non sei sulle Alpi.

Poi, scendi verso un paese -Melfi.

Prima del paese, sulla piana, vedi lo stabilimento della Sata, cioè la Fiat, che dà lavoro a tante persone di qui, e della Campania, e incroci gli autobus che portano gli operai, e ti ricordi che avevi visto, tanto tempo fa, un documentario su questo pendolarismo.

Poi c’è il paese, con il castello di Federico II, con dentro un museo che racconta della storia di questa terra che per qualcuno non c’è, dei fiumi che danno i nomi alle strade statali e che un tempo consentivano ai commerci di risalire dalla costa all’interno.

Prendi per Venosa, e attraversi le strade di questo luglio torrido. Cielo, asfalto, campi mietuti, sole, tanto sole. Silenzio (a meno che non ti sintonizzi su una radio locale, magari ti fa compagnia Gigione).

Arrivi ad un’ora, che se non è sera è sempre calda e un po’ sghemba, a Venosa. Fai poco più di un chilometro, attraversando il centro e imboccando la via per uscire, ed è strada densa di storia: castello, statua del più illustre dei poeti concittadini (non è il solo artista originario di qui); i resti romani e una basilica incompiuta -come tante cose, potresti pensare facilmente.

Poi, certo: Matera. Ci torni tante volte, ogni volta c’è un centimetro nuovo. Stavolta ci arrivi di sera, le pietre rimandano il calore della giornata, tutti quelli che qui passano o vivono sono per strada, a cercare -sperare- che arrivi fresco. Ma intanto volgi gli occhi intorno, e pensi che i sassi -un segno di una misera atavica, ricordi bene come ciò ti fosse chiaro la prima volta che sei passato di qui: hai la tua età, son quasi cinquant’anni fa- ora sono fondamento dell’economia turistica, sfondi per produzioni televisive e cinematografiche.

E vai avanti, un altro giorno scendi ancora, lungo la Basentana. Arrivi in spianate poco sopra il mare, che vedi a un chilometro-due da te; le cose che hai studiato ti fanno immaginare le imbarcazioni dei primi timorosi coloni Greci che cercavano luoghi cosi: buoni approdi, fiumi vicini, terra coltivabile alture da cui scrutare i possibili pericoli. Questi posti si chiamano Policoro e Metaponto, i musei che visiti sono silenziosi. E straordinari, come i pochi resti che vedi, abbastanza per immaginare.

Ci hanno provato, negli anni Settanta, a far diventare luoghi di turismo balneare di massa questi posti, ma non è stata cosa.

Il tempio di Hera a Metaponto ha a che fare con Pitagora, gli storici discutono in quale tumultuosa parte della sua tumultuosa vita egli ci sia stato, e se vi abbia insegnato. Certo è che, di qui, per corsi d’acqua, fino a Ripacandida è arrivato un vaso, che ora sta a Melfi. Un vaso che riproduce la terra, alcuni pianeti, e, a quel che pare, un meteorite.

Davanti al mare, poco sopra il mare, si guardavano gli astri e si congetturavano geometrie celesti e umane (Pitagora e i suoi si davano da fare in politica). E oggetti e idee si muovevano, tra i fiumi che c’erano e oggi sono appena accenni e abitati che ora sono paesi tra colline, con reperti inattesi e indimenticabili. All’incrocio della regione, a Melfi, l’antico e il nuovo s’incontrano, il museo nel castello in cima al paese, a valle le auto di nuova produzione.

A noi, far stare insieme questo e quello.

Note:

  1. In “Ancora capirò”, l’avverbio di tempo va inteso alla maniera nota ai baresi (e ai pugliesi in generale): non “capirò di nuovo”, ma “continuando così, capirò”. Qui sta la spiegazione in merito di Gianni Ciardo. Naturalmente, per me è un augurio che mi faccio, e non è detto che io arrrivi a capire quello che vorrei.
  2. Le foto sono state scattate da me, da Benedetta Di Terlizzi e Andrea Di Terlizzi, con una Panasonic Lumix Dmc Fz 45, occasionalmente con i telefonini Oppo.
  3. Come tutti i viaggi, anche questo ha una colonna sonora. In auto abbiamo ascoltato prevalentemente Radio Norba e Radio Potenza Centrale. La canzone più gettonata è quella che dice che non siamo in una famosa isola delle vacanze spagnola, ed in effetti è così.

Adesso, il merito

E adesso?

La domanda è di quelle che si fanno alla fine dell’esame, quando ci si alza, ci si saluta, si va chi verso il proprio futuro -ciò che è evocato dalla richiesta-, chi verso il prossimo colloquio.

Ho ricevuto molto. Adesso è il tempo di dare. Voglio fare scienze della formazione.

Ci si guarda, in Commissione. C’è una storia, in queste parole, ovviamente.

La storia può essere quella di Silvia. O di Francesco. O di Mehmet. O di Irina. Può essere una storia di famiglia difficile, di angustia economica, di litigi, di maltrattamenti, di malattia, di problemi giudiziari. Sta sicuramente, molto, fuori di scuola, ma sta anche a scuola. Si conclude con un voto di maturità che non è di quelli per cui si fanno gli articoli sui giornali: ma poteva benissimo non andare così. In questa storia, è successo che qualcuno -un docente, un educatore, un preside…-ha guardato Silvia, o Francesco, e ha pensato che si meritava una possibilità: una nuova possibilità. Forse un’altra possibilità. Ci ha lavorato sopra la scuola, ci hanno lavorato sopra altre istituzioni. Non sempre tutto è filato liscio. Non sempre si è stati tutti d’accordo. Ma comunque, siamo qui, con Mehmet o Irina.

A me piace questa accezione di “merito”. Penso che stia bene accanto all’altra, più comune, che guarda a quelli che vorremmo premiati per le loro capacità e il loro impegno: la conosco, quest’altra storia; ne ho viste e ne potrei raccontare alcune. A partire dalla mia. Mi piace, insomma, credere che ognuno meriti, a scuola, uno sguardo come quello che ha incoraggiato Silvia o Mehmet, per una nuova possibilità. Un’altra possibilità.

Ce ne sono tante, di storie così. Più che raccontarle, si vivono.

E adesso, dopo quelle parole?

Francesco o Irina escono. Per chi ha posato su di loro quello sguardo, che forse non ha cambiato tutto, ma che di sicuro ha cambiato molto, torna in mente la frase di un libro sul duro mestiere della speranza: ” È così che fanno i buoni. Continuano a provarci. Non si arrendono mai.”

Domani, ricominceranno a provarci.

Il libro è: Cormac Mc Carthy, “La strada”