(dal capitolo X)
“Poco dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell’educande; ora pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina. Le sue antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di quel tempo; e, in un modo o in un altro, l’allieve dovevan portarne il peso. Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrattava, faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno. Chi avesse sentito, in que’ momenti, con che sdegno magistrale le gridava, per ogni piccola scappatella, l’avrebbe creduta una donna d’una spiritualità salvatica e indiscreta. In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l’ubbidienza, scoppiava in accessi d’umore tutto opposto. Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma l’eccitava; si mischiava ne’ loro giochi, e li rendeva più sregolati; entrava a parte de’ loro discorsi, e li spingeva più in là dell’intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia; contraffaceva il volto d’una monaca, l’andatura d’un’altra: rideva allora sgangheratamente; ma eran risa che non la lasciavano più allegra di prima.”
La storia della monaca di Monza è, si sa, un romanzo nel romanzo: Manzoni comprese di avere tra le mani qualcosa d’importante, e ne aveva dato una versione molto più ampia, in quella sua prima redazione, che chiamiamo “Fermo e Lucia”. È una storia tragica, il Romanticismo europeo ai suoi massimi livelli, che lo scrittore asciuga nella versione pubblicata, lasciando insoddisfatti alcuni lettori contemporanei. La questione tragica è di quelle antiche, a Gertrude tocca un destino che non ha niente a che vedere con le sue inclinazioni, e non c’è cristiana pazienza che la plachi. Lungo il piano inclinato che la porta al momento decisivo della sua storia, troviamo Gertrude fatta maestra delle educande -non una scelta avveduta delle sue superiori. Lei oscilla tra vessazione e condiscendenza, senza mai trovare l’equilibrio tra distanza e vicinanza: ha una forma di potere, ma del potere lei ha subito un’esperienza che glielo ha fatto vivere come arbitrio e costrizione, in totale conflitto con le proprie inclinazioni. L’avere un potere non le basta a trovar quiete, né la rassegnazione alla sua condizione: è un gioco senza senso e soddisfazione, un precario stato d’equilibrio che sarà rotto con l’apparire di un qualunque Egidio. Prima che prendere la piega più squisitamente personale, che riguarda solo e soltanto Gertrude, la sua vicenda è dunque quella del potere fatto solo per replicarsi, che non ha considerazione per ciò che diciamo essere lo specifico umano. Sarà la prima vera scelta, sventurata, a fare umana Gertrude, ed è proprio il nodo che la riguarda -quello spazio indicibile in cui l’uomo si qualifica perché sceglie- a renderla tragica -come la Medea di Euripide, per intendersi- e non dimenticabile.