(dal capitolo V)
“Impiccarli! impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti.
Chi, passando per una fiera, s’è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l’altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s’immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S’andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com’era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s’udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli.”
In uno dei racconti de “Le sere di Mulliner”, Jerome K. Jerome nota l’agilità mentale della compagnia che si riunisce all’Anglers’ Rest, capace di passare, nel corso di una discussione, dal destino ultimo dell’anima al modo di cucinare una pietanza.
Il tono, in quei testi, è incantevolmente svagato; tutt’altra cosa dalla conversazione che si svolge nella sala da pranzo di don Rodrigo, connotata di grevità sempre più marcata man mano che si procede. Il lettore vi si accosta accompagnando l’ingresso di fra Cristoforo, venuto a tentare un colloquio per risolvere la questione del matrimonio impedito: squallidi appaiono i dintorni, squallido il palazzo, forzata e triste la conversazione, sempre più etilica, dei commensali.
Al lettore d’oggi le parole del podestà, dell’Azzeccagarbugli, del conte Attilio emanano l’afrore delle trollate in cui capita d’imbattersi, su Facebook o su Twitter, tra gare a chi la dice più grossa, esibizioni insulse di cultura o affettate dichiarazioni di partigianeria politica.
C’è tanto frastuono, in questo capitolo,e il frastuono, come suole, converge in un centro di silenzio, che è quello dei due reali protagonisti, laconici: don Rodrigo e fra Cristoforo, gli unici che hanno davvero qualcosa da dirsi,e da dire: ma lo faranno in un’altra stanza.