Quaranta passi da “I promessi sposi” /3

(dal capitolo II)

“Vedremo, – diceva tra sé: – egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo.”

Nel teatro mentale della sua veglia, don Abbondio rappresenta la messa in scena del’imbroglio che servirà a Renzo, dopo le minacce dei bravi.

C’è tutto: il calcolo all’ingrosso delle proprie buone ragioni, con il luccichio della buona ragione per eccellenza, sempre e ovunque -sfangarla (con, in più, quel po’ di presa in giro verso questo ragazzino sciocco, che pensa alla morosa); la squallida prepotenza data dalla miglior posizione nel mondo e dalla maggiore conoscenza (che porterà, di lì a poco, al raggiro tramite i tecnicismi del latino); la becera attitudine paternalistica e, da ultimo, il proverbio per eccellenza dei paraculi, “io non voglio andarne di mezzo”.

E, alla fine, don Abbondio non sarà neanche capace di farla bene, questa messinscena, così che si propone da subito come uno dei veri destinatari di tutto il sugo del romanzo: imparerà ad essere, se non coraggioso, perlomeno paraculo in maniera minore?

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