Quaranta passi da “I promessi sposi”/27

(dal capitolo XXVI)

“Siccome però, tra due grossi litiganti, qualche cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo goda; così Bortolo fu avvisato in confidenza, non si sa da chi, che Renzo non istava bene in quel paese, e che farebbe meglio a entrare in qualche altra fabbrica, cambiando anche nome per qualche tempo. Bortolo intese per aria, non domandò altro, corse a dir la cosa al cugino, lo prese con sé in un calessino, lo condusse a un altro filatoio, discosto da quello forse quindici miglia, e lo presentò, sotto il nome d’Antonio Rivolta, al padrone, ch’era nativo anche lui dello stato di Milano, e suo antico conoscente. Questo, quantunque l’annata fosse scarsa, non si fece pregare a ricevere un operaio che gli era raccomandato come onesto e abile, da un galantuomo che se n’intendeva. Alla prova poi, non ebbe che a lodarsi dell’acquisto; meno che, sul principio, gli era parso che il giovine dovesse essere un po’ stordito, perché, quando si chiamava: Antonio! le più volte non rispondeva.”

Questo è il punto di massima complicazione della vicenda di Lucia e Renzo: lei a Milano, in casa di donna Prassede, e, coerentemente legata al voto fatto, intenzionata a dimenticarsi di ogni progetto di vita insieme; lui ricercato e, per maggior propria sicurezza, sotto falso nome, con la protezione supplementare della coltre di notizie fuorvianti architettate da Bortolo, perché non lo si rintracci.

Però però, che nome assume Renzo? Antonio Rivolta. Certo: giusto, per uno che si è ficcato nei tumulti milanesi; ma, anche, l’anticipo della sua prossima trasformazione. L’uomo delle trame si volterà indietro e ritornerà.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/26

(dal Capitolo XXV)

“‘Giacché, come diceva spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello.”

Non c’è storia senza interpretazione; ogni vicenda, appena narrata, è già la sua stessa esegesi. Capita da subito a Lucia; la mirabile vicenda che le è occorsa arriva, tra le altre persone, anche a donna Prassede, abbastanza in vista nel mondo per poter dare spazio alle proprie convinzioni, ed ecco che Lucia diviene per lei una ragazza che, certo, qualcosa da sistemare la deve avere, visto che si è promessa a un sedizioso, come Renzo.

L’essere umano interpreta, ed interpretando svela se stesso.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/25

(dal Capitolo XXIV)

“Per don Abbondio questo ritorno non era certo così angoscioso come l’andata di poco prima; ma non fu neppur esso un viaggio di piacere. Al cessar di quella pauraccia, s’era da principio sentito tutto scarico, ma ben presto cominciarono a spuntargli in cuore cent’altri dispiaceri; come, quand’è stato sbarbato un grand’albero, il terreno rimane sgombro per qualche tempo, ma poi si copre tutto d’erbacce. Era diventato più sensibile a tutto il resto; e tanto nel presente, quanto ne’ pensieri dell’avvenire, non gli mancava pur troppo materia di tormentarsi.”

Quando ho studiato Manzoni al Liceo, mi ero appassionato alla questione della scelta del genere romanzesco, dopo le tragedie, ma fra tutti i temi connessi -gli umili, la lingua, la visione dell’uomo- non avevo certo preso in considerazione la necessità strutturale di un personaggio come don Abbondio, che, anzi, al me diciannovenne pareva, in buona sostanza, un cagasotto cui va dritta, senza alcun merito, e che non capisce niente di tutta la storia. E in effetti, è proprio così, don Abbondio è proprio questo, e proprio qui sta la ragione della sua necessità: il romanzo ci mostra, come accade nelle vicende degli uomini, che contemporaneamente alle vicende eroiche e tragiche c’è sempre qualcuno che vorrebbe non averne troppi fastidi, tenendo come propria regola di vita cavarsela. Nel romanzo, non è che la storia inizi in tragedia e poi si ripeta in farsa: tragedia e farsa stanno insieme, e don Abbondio ce lo dimostra.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/24

(dal Capitolo XXIII)

“Io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…!”

La frase è, in qualche modo, l’architrave della trama del romanzo, perché se l’Innominato avesse altro parere, tutto andrebbe diversamente. È una frase dal netto sapore biblico: si riconosce il richiamo al Salmo 50, l’ammissione della propria iniquità di fronte a Dio, invocato perché si venga liberati.

Il percorso verso Dio dell’Innominato è segnato dalle questioni della giustizia e della colpa; di fondo, resta un non detto, essenziale: cosa lo abbia mosso, di dove nasca il convincimento sulla realtà del Dio, cui si rivolge.

Manzoni non ci dà risposte, sa di non poterle dare, questo è il segreto più segreto che sta dentro ciascuno; ci resta, solo (solo?), una ragazza che tocca il cuore delle persone, e che si chiama Lucia.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/23

(dal Capitolo XXII)

“Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall’esame particolare de’ fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca, come si fa d’ordinario, non significa proprio nulla.”

Il personaggio storico fondamentale del romanzo è il Cardinale Borromeo, al cui approfondito ritratto Manzoni dedica quasi tutti il Capitolo XXII. C’è un nodo della sua biografia che rimane fonte d’interrogazione, per lo scrittore: vi allude qui, ma nella Cronaca della colonna infame” il lettore ne trova la specificazione. Il Cardinale condivise idee, e conseguenti azioni, al tempo della ricerca dei responsabili della peste, e lo scrittore non riesce a cavarsela con la spiegazione legata allo spirito dei tempi, al contesto storico, ai condizionamenti. Non ne fa qui più che questo fugace cenno, ma resta evidente che, per lui, il luogo fondamentale delle decisioni è sempre la facoltà deliberativa del singolo uomo -la capacità di scegliere e orientarsi verso il male o il bene. E di qui a poco l’Innominato farà prova di questo.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/22

(dal capitolo XXI)

“Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immaginava di condurla lui stesso alla madre. “E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!” E ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d’abbandonare il castello, e d’andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l’animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a’ suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne’ suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s’era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro.”

Il capitolo XXI segue Lucia e l’Innominato, nel loro incontro e poi, ciascuno, alle prese con una notte di pensieri e decisioni. Il momento decisivo, per Lucia, è il voto di rinunciare al matrimonio, inteso esplicitamente come sacrificio -e su tale questione, sarà fra Cristoforo a tornare-; dopo di che, lei si addormenta; l’Innominato, invece, ondeggia tra sentimenti contrastanti fino all’alba, quando (Manzoni sottolinea la sincronia) Lucia prende sonno. Dentro se stesso, il signorotto trova tante e contrastanti disposizioni, cui le parole di Lucia, sul perdono di Dio per un atto di misericordia, non danno riposo. Le campane che suonano dalla pianura introducono la novità che accompagna il tratto in cui l’Innominato metterà meglio a fuoco, fino a dove ciò sia possibile, le proprie motivazioni.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/21

(dal capitolo XX)

“Lucia tentò un’altra volta di buttarsi d’improvviso allo sportello; ma vedendo ch’era inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa, con le gote irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani giunte dinanzi alle labbra, – oh – diceva: – per l’amor di Dio, e della Vergine santissima, lasciatemi andare! Cosa v’ho fatto di male io? Sono una povera creatura che non v’ha fatto niente. Quello che m’avete fatto voi, ve lo perdono di cuore; e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato. Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia. Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar la mia strada.

– Non possiamo.

– Non potete? Oh Signore! perché non potete? Dove volete condurmi? Perché? …

– Non possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state quieta, e nessuno vi toccherà.”

Renzo, come lo abbiamo visto, è l’uomo dell’azione, mosso dalla curiosità: il prezzo della curiosità, dice la letteratura dai tempi di Apuleio, è la perdita della casa, della patria e dell’identità, perché conoscere è conoscersi e conoscersi è ridefinirsi. Del resto, il suo nome è chiaro: Renzo, da Lorenzo, derivato di laurus, l’alloro, premio del vincitore, e Tramaglino, con “trama” fin dall’inizio del cognome: che si cacci nei guai, o li produca, ce l’ha dall’inizio.

E poi c’è Lucia, che appunto si chiama così perché porta la luce, e di cognome fa Mondella, che viene da monda, quindi limpida, pulita. Lucia non trama, anzi si sottrae alle brighe: è, come la luce, pura presenza, ma tanto basta per lasciare un segno in chi le sta accanto. Ma che segno è, di dove viene? Sarà l’Innominato a dare, se non una risposta, un’indicazione.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/20

(dal capitolo XIX)

“– Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo… si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti… A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le… inclinazioni d’un giovine: e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni… pur troppo eh, padre molto reverendo?…”

Alla metà esatta del romanzo sta un dialogo politico, quello tra il conte zio e il padre provinciale dei Cappuccini. Se vogliamo, e conoscendo un poco Manzoni non si tratta di pensiero peregrino, questo potrebbe essere il “punto di massimo allontanamento” della vicenda dalla sua eventuale soluzione. E c’è ragione, perché qui parla solo, ed esclusivamente, la più mondana delle saggezze mondane, chiaramente evocata dal conte zio, parte pensata tra sé e sé e parte agita dal padre provinciale.

Non è una vicenda di mediazione, o di compromesso, cose proprie e quotidiane della politica, che nascono dall’esplicito confronto tra parti: è quell’arbitrio, felpato e violentissimo, connesso al “sopire, troncare…troncare, sopire”, ben messo a chiasmo, così il lettore non ci passa sopra distratto. Anzi, il lettore è invitato a comprendere bene, e ad allontanarsene schifato: per fortuna, c’è metà romanzo ancora, da questo punto di massimo allontanamento dal senso proprio delle cose.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/19

(dal capitolo XVIII)

“Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per un’occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui.”

La ricerca della giustizia ha messo Renzo nei guai, e lo ha portato lungo le strade non mondane della Provvidenza; ma col capitolo XVIII si torna sui percorsi quotidiani, segnati dalle manovre di chi ha, o pensa di avere, un poco di potere. Ed ecco il Conte zio, l’aggancio milanese di Rodrigo e Attilio per mettere fuori gioco anche fra Cristoforo: un potente, il cui ascendente è fatto di parole a mezzo, silenzi e allusioni, come accadeva allora; e oggi. Inizia così la recita del potere per il potere.

Quaranta passi da “I promessi sposi”/18

(dal capitolo XVII)

“Ma prima di tutto, bisogna che t’avverta d’una cosa. Sai come ci chiamano in questo paese, noi altri dello stato di Milano?

– Come ci chiamano?

– Ci chiaman baggiani.

– Non è un bel nome.

– Tant’è: chi è nato nel milanese, e vuol vivere nel bergamasco, bisogna prenderselo in santa pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è come dar dell’illustrissimo a un cavaliere.

– Figliuolo mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto, non far conto di poter viver qui. Bisognerebbe esser sempre col coltello in mano: e quando, supponiamo, tu n’avessi ammazzati due, tre, quattro, verrebbe poi quello che ammazzerebbe te: e allora, che bel gusto di comparire al tribunal di Dio, con tre o quattro omicidi sull’anima!

– Lo diranno, m’immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire.

– E un milanese che abbia un po’ di… – e qui picchiò la fronte col dito, come aveva fatto nell’osteria della luna piena. – Voglio dire, uno che sappia bene il suo mestiere?

– Tutt’uno: qui è un baggiano anche lui. Sai come dice il mio padrone, quando parla di me co’ suoi amici? “Quel baggiano è stato la man di Dio, per il mio negozio; se non avessi quel baggiano, sarei ben impicciato”. L’è usanza così.

– L’è un’usanza sciocca. E vedendo quello che sappiam fare (ché finalmente chi ha portata qui quest’arte, e chi la fa andare, siamo noi), possibile che non si sian corretti?

– Finora no: col tempo può essere; i ragazzi che vengon su; ma gli uomini fatti, non c’è rimedio: hanno preso quel vizio; non lo smetton più. Cos’è poi finalmente? Era ben un’altra cosa quelle galanterie che t’hanno fatte, e il di più che ti volevan fare i nostri cari compatriotti.

– Già, è vero: se non c’è altro di male…

– Ora che sei persuaso di questo, tutto anderà bene. Vieni dal padrone, e coraggio.”

Renzo ha passato l’Adda, ha dato in elemosina i suoi ultimi denari, ed ora davvero ricomincia tutto daccapo. Non ne è ancora consapevole appieno: avrebbe già voglia di attaccar briga per i soliti futili motivi campanilistici che tanto piacciono storicamente nelle lande italiche. Il cugino Bortolo lo richiama, senza tanti orpelli, ad un dato di realtà; nel bel posto che rimpiange, belle galanterie gli volevano fare.

L’educazione sentimentale di Renzo ha inizio.