(dal capitolo XXXVIII)
Un finale
“Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.
La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.”
Le varie linee su cui si sviluppa il romanzo trovano il loro specifico finale nell’ultimo capitolo del romanzo.
Un finale per il tema sociale: la fiduciosa evoluzione socioeconomica della famiglia di Lucia e Renzo, che si sposta sotto Venezia, con condizioni e tutele di mercato migliori, e con più agio per far studiare i figli,
Un finale per buoni e cattivi: don Abbondio, che si lascia scappare anche battute imbarazzanti su alcune implicazioni positive della pestilenza (riferendosi a don Rodrigo), e che ci ricorda che il mondo appartiene ai paraculi; bisona saperlo, e non farsene condizionare.
Un finale per l’autore, che all’inizio ci aveva promesso una storia bella, di quelle da raccontare: caro lettore, ci dice, spero di esserci riuscito, e che la vicenda non ti sia stata di noia. Fino all’ultima parola, lo scrittore continua il suo dialogo con chi legge e leggerà; si scrive per questo.
Un finale degli sposi, ora uniti e non più promessi: le vicende che la vita reca si sopportano, quali esse siano, possibilmente con la fiducia in Dio. Non c’è teodicea nelle cose mondane: anche se questa storia appare avere un finale dolce -ma, come dice Raimondi, non idilliaco, anzi.
Ma c’è pure un altro finale.