(dal Capitolo XXXVII)
“Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all’opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l’errore di que’ medici non consisteva già nell’affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell’assegnarne la cagione; allora (parlo de’ primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d’orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.”
Il problema di don Ferrante: negare il contagio, perché non è né sostanza, né accidente. Con un pochetto di cattiveria, Manzoni mostra l’inutilità di un conoscere fatto solo di parole che si autosostengono e che non incontra da nessuna parte la realtà. Parlando di don Ferrante, in realtà l’autore espone un suo personale, e importante, cruccio, che riguarda la letteratura, a proposito del rapporto tra le parole e la conoscenza reale delle cose; un cruccio che nel romanzo si risolve, ma che lo accompagnerà anche in molte riflessioni a venire.