Quaranta giorni con la Storia della colonna infame/33

Oggi: i due innocenti condannati, l’ingiustizia della storia e cio che è proprio di ciascun uomo.

Capitolo 5, pp. 126-128

Manzoni chiude il capitolo raccontando il passaggio finale della vicenda processuale di Piazza e di Mora, cioè la loro esecuzione. Lo scrittore abbandona il tono saggistico e quello storico, e condensa in una serie di passaggi non solo la narrazione degli eventi, ma anche quello che gli preme dire, sia sul piano religioso, che su quello etico.

 

L’esecuzione dei due condannati è raccontata con la forza di alcuni participi passati, che imprimono nel lettore il dolore di un atto che da subito viene detto infernale:

“Quell’infernale sentenza portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l’ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di rifabbricare in quel luogo.” (p. 126)

Tanagliati, tagliata, spezzate, intrecciati, alzati, scannati, bruciati, buttate: la sequenza delle violenze s’impone con la tensione degli asindeti, i verbi in inizio di proposizione impongono subito il coinvolgimento emotivo di chi legge. Manzoni vuole che ci rimanga in testa questo annichilimento creaturale, cui segue l’oltraggio che si propaga nel tempo, la costruzione della colonna infame.

 

Tutto finito? No, perché Manzoni ripercorre il percorso degli ultimi giorni dei due condannati, iniziando da quando, ancora, persistevano nell’accusare a caso, per cercare di evitare il supplizio:

“La speranza non ancora estinta di sfuggir la morte, e una tal morte, la violenza di tormenti, che quella mostruosa sentenza farebbe quasi chiamar leggieri, ma presenti e evitabili, li fecero, e ripeter le menzogne di prima, e nominar nuove persone. Così, con la loro impunità, e con la loro tortura, riuscivan que’ giudici, non solo a fare atrocemente morir degl’innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir colpevoli.” (p. 126)

Ciò che allo scrittore importa di più è nell’ultima frase: i due sono innocenti, ma vengono portati a morire come colpevoli.

Ma non si tratta dell’ultima parola, su questo punto. Giunti alla fine, sia Mora che Piazza ritrattano tutte le accuse:

Tanto lui, quanto il Mora, fecero poi stendere dai religiosi che gli assistevano una ritrattazion formale di tutte l’accuse che la speranza o il dolore gli avevano estorte. L’uno e l’altro sopportarono quel lungo supplizio, quella serie e varietà di supplizi, con una forza che, in uomini vinti tante volte dal timor della morte e dal dolore; in uomini i quali morivan vittime, non di qualche gran causa, ma d’un miserabile accidente, d’un errore sciocco, di facili e basse frodi; in uomini che, diventando infami, rimanevano oscuri, e all’esecrazion pubblica non avevan da opporre altro che il sentimento d’un’innocenza volgare, non creduta, rinnegata tante volte da loro medesimi; in uomini (fa male il pensarci, ma si può egli non pensarci?) che avevano una famiglia, moglie, figliuoli, non si saprebbe intendere, se non si sapesse che fu rassegnazione: quel dono che, nell’ingiustizia degli uomini, fa veder la giustizia di Dio, e nelle pene, qualunque siano, la caparra, non solo del perdono, ma del premio.” (pp. 127-128)

Qui Manzoni svolge, con un crescendo sostenuto dalla ripetizione di uomini, una meditazione religiosa. Privati di tutto, dopo mille incoerenze, perché Mora e Piazza andarono incontro come riuscirono a fare alla loro condanna? Essi ebbero, scrive l’autore, il dono che è stato di Ermengarda, odel Napoleone della parte conclusiva del Cinque maggio, la capacità di vedere, nell’ingiustizia degli uomini, la giustizia di Dio. Il lettore coglie questi richiami ed il senso vertiginoso dell’immagine: gli umili e i reietti della storia stanno insieme ai potenti, nel momento in cui questi e quelli vengono intesi nella loro condizione creaturale. Certo: qui siamo al centro di quello che è il Cristianesimo di Manzoni; eppure, non possiamo fare a meno di notare che questa sua indicazione non cancella affatto la colossale grandezza dell’ingiustizia che il barbiere e il commissario di Sanità subiscono.

Un altro, incommensurabile paradosso accompagna i momenti finali dei due condannati: accettano la morte non per quello che non hanno commesso, ma per i peccati che hanno effettivamente compiuto nella loro vita.

Qui, riecheggia il modello di tutta questa narrazione, che è quello della Passione di Cristo. Manzoni aggiunge una cosa: i due deliberano di accogliere quello che avviene, un discorso, nota l’autore, senza senso, se si guardano le cose in termini meccanici; un discorso, in realtà, pieno di senso, se si richiama quello spazio, che in questo trattato lo scrittore ha spesso evocato, nel quale l’uomo esercita il suo assenso nei confronti delle cose del mondo, quello della deliberazione.

L’uno e l’altro non cessaron di dire, fino all’ultimo, fin sulla rota, che accettavan la morte in pena de’ peccati che avevan commessi davvero. Accettar quello che non si potrebbe rifiutare! parole che possono parer prive di senso a chi nelle cose guardi soltanto l’effetto materiale; ma parole d’un senso chiaro e profondo per chi considera, o senza considerare intende, che ciò che in una deliberazione può esser più difficile, ed è più importante, la persuasion della mente, e il piegarsi della volontà, è ugualmente difficile, ugualmente importante, sia che l’effetto dipenda da esso, o no; nel consenso, come nella scelta.” (p. 128)

Anche nella costrizione più assoluta, anche nell’obbligo più estremo, è dato all’uomo uno spazio per un assenso, o un diniego: è lo spazio della sua coscienza, ed è quello che, se pur viene schacciato dai meccanismi ciechi della storia, in realtà è quanto di più è proprio dell’uomo.

Di ogni singolo uomo.

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