Ferragosto, verso la Grecia

La mattina del giorno di Ferragosto del 1993 iniziò sulla banchina del secondo binario della stazione ferroviaria di Pordenone: lo zaino Invicta, preso per le camminate in montagna, pieno; gli occhi carichi di sonno, alle 4 e mezza; una giornata di treno davanti, e poi un’altra piena in traghetto.

Ci attendevano due settimane in Grecia, insomma, concordate, durante l’anno scolastico, nei pomeriggi di scuola, tra corsi di scrittura creativa e approfondimenti vari, con Piero e Paolo, cui si univa, inaspettato, un amico albergatore di mio fratello, Luciano (capitato a casa mia nel momento giusto, quello della scoperta che le cabine del traghetto erano o doppie o quadruple: e quindi…).

Ci fosse stato allora Facebook, di certo avrei infestato la Rete delle istantanee e dei pensieri a margine. Invece, mi restano di quel viaggio alcune foto e il quadernetto di appunti vergato con la calligrafia del ventottenne di allora, che stento a riconoscere (sia la calligrafia, che il ventottenne). Restano i ricordi, certo, quelli di allora e le loro deformazioni narrative che hanno accompagnato, negli anni, la riproposizione di quel viaggio ad amici, amiche, fidanzate, mogli ed ex mogli, figli e figlie.

Come arrivammo a partire? Si arriva a partire, certo, non è un ossimoro; i passi prima del primo passo del viaggio dicono molto del viaggio e di quello che vien dopo (lo si scopre, ovviamente, in un dopo che viene ancor dopo). Piero arrivava all’appuntamento in stazione a Pordenone da un periodo in giro per scavi archeologici; Luciano dal suo lavoro; io dalla settimana dei campionati di pattinaggio a rotelle a Salsomaggiore. Paolo, semplicemente, non arrivava: con lui avevamo appuntamento (molto dannunziano) a Pescara, giacché, complici gli esami di maturità non ancora di Stato, aveva conosciuto in Roma la gentile collega che poi sarebbe diventata sua moglie. Quattro modi diversi di arrivare all’inizio di qualcosa, e chi conosce le persone di cui parlo può facilmente concludere che ciascuno di quei quattro modi dice molto di noi (di quelli che eravamo e forse di quelli che siamo): la passione totale per l’archeologia di Piero; la dedizione al lavoro di Luciano; il mio legame con uno sport bizzarro, che mi ha proiettato nell’età adulta più di ogni altra esperienza (arbitrare una gara nella quale sai che duemila persone fischieranno, e parecchio, il tuo punteggio, ma tu sai che è giusto quanto stai facendo, a ventidue anni, ecco cosa fu); la coerente (costi quel che costi) vocazione ai palpiti del cuore di Paolo.

Si partì, insomma, e il resto è inscritto nella mitologia personale.

Vedere la stazione di Bisceglie dai vetri di un Intercity ben climatizzato (esistevano, allora) e confrontarla coi ricordi di coincidenze faticose d’infanzia.

Il quartetto d’archi che si esibiva nel tramonto ferragostano alla stazione marittima di Bari, improbabile e necessario.

Le distese di ulivi attorno ad Olimpia.

La salita, tra tornanti assolati, verso il palazzo di Nestore a Pilo.

Il discutibile romanticismo dei consigli alberghieri della guida Lonely Planet (non tutte le guide consigliate dalle belle ragazze sono guide del tutto attendibili…).

Un albergo impossibile ad Argo (impossibile anch’essa) e, il giorno dopo, a risarcimento, una stanza pulita, fresca, ben servita ad Epidauro.

La Limonita, bevanda di produzione locale provata a Tegea, buona mille volte più dei prodotti di marca.

Le pesche giganti offerteci da una signora a Verghina, poco fuori uno dei siti archeologici più stupefacenti d’Europa.

I Sette contro Tebe rappresentati ad Epidauro.

I giovani tessalonicesi che giocano a tric-trac nei locali di moda.

Pistacchi e case dipinte di bianco e di azzurro ad Egina.

La colazione nel lungomare di Salonicco che costa come una cena di pesce nella via interna, parallela (mi sa che tante cose di oggi si spiegano, così…).

Il colpo di calore a Delfi (scintillano davvero quelle rocce).

La linea di partenza delle corse ad Istmo.

Il mare di ulivi sopra Itea, che sembra proprio un mare.

Sesklon e Dimini, laddove iniziò molto della storia d’Occidente, e nessuno dei locali lo sa.

Maratona, che è ad Atene.

Il ballo del qua-qua come typical italian sound in uno degli sgangherati spettacoli di Athens by night…

…and so on.

Il mio amico Paolo ha raccontato un pezzetto di quella mitologia in un suo bel libro , alle pp. 145-146, ricordando un incontro nel cuore del Peloponneso. A mia memoria, le cose andarono un po’ diversamente – tanto per cominciare, non dormimmo in una stanzetta, ma in un bell’appartamento in mezzo ad un uliveto che digradava verso il mare-, ma al mio amico piace molto, come dire, bohemizzare le esperienze: e del resto la sostanza è che di mattina presto ci apparve, in un posto impronosticabile, una splendida ragazza dai capelli corvini, e il punto non è nelle fantasie che se ne potevano trarre, ma, piuttosto, in questa folle gratuità della bellezza, di fronte alla quale l’unica cosa è riconoscerla quando c’è, ovunque appaia, e ringraziare di esserne consapevoli.

Il che è, forse, il fondamento di quella mitologia, che, quei quattro che eravamo, condividiamo: agli albori dell’età da adulti (di mutui matrimoni lavori etc etc), ci riempimmo di bellezza, e quella bellezza ci ha accompagnato. Nonostante tutto, attraverso tutto, dolce e crudele, come la bellezza che viene dalla Grecia sa essere.

 

 

 

 

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